Pastorale Lgbt. A Bologna si studiano percorsi per una pastorale possibile nella Chiesa cattolica
Intervista di Innocenzo Pontillo* a p. Pino Piva sj pubblicata sul settimanale ADISTA Segni Nuovi n.40 del 13 novembre 2021, pp.3-5
Si è concluso a settembre, presso il Centro di Spiritualità “Villa San Giuseppe” dei gesuiti di Bologna, il primo Corso di formazione per operatori pastorali e accompagnatori spirituali di persone omosessuali (AVVENIRE, 22 settembre 2021) che, partendo dal dato antropologico (filosofico e psicologico) e teologico sull’omosessualità, ha cercato di sviluppare delle proposte di pastorale possibile nella Chiesa su questo tema.
Un corso che, per quasi un anno e in tre distinti incontri, ha visto partecipare un centinaio di operatori pastorali e ha avuto, come relatori, biblisti, psicologi, teologi e i cardinali Matteo Zuppi e Marcello Semeraro. Animatore e organizzatore di questo corso di formazione pastorale è stato padre Pino Piva, gesuita, esperto di “pastorale di frontiera”, a cui abbiamo voluto fare alcune domande per comprendere meglio questa iniziativa.
Padre Pino, quali sollecitazioni e problematiche ti hanno spinto a dar vita a dei percorsi di formazione per l’accompagnamento pastorale delle persone omosessuali?
La sollecitazione più immediata e profonda per una chiara assunzione di responsabilità nei confronti della pastorale con persone LGBT – e di ogni pastorale che abbia a che fare con le “frontiere” ecclesiali e sociali – ci è venuta dalla spiritualità ignaziana, dalla specificità dell’apostolato tipico dei gesuiti; già Paolo VI nel 1974 ebbe a dire: «Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i gesuiti».
Per questo, insieme ad altri amici e amiche impegnati nella spiritualità ignaziana e nell’apostolato degli Esercizi, abbiamo creato già dal 2015 una piccola équipe di “spiritualità dalle frontiere”, con l’intento di seguire le nuove proposte che i Sinodi per la famiglia stavano maturando in campo pastorale. Il focus si concentrava soprattutto nell’ambito dei divorziati in nuova unione; dell’accoglienza dei migranti; e la pastorale con persone Lgbt. Grazie alle nuove prospettive pastorali inaugurate da papa Francesco, l’attenzione ai divorziati e ai migranti hanno ricevuto molta attenzione da parte della comunità cristiana; mentre la pastorale con persone Lgbt è rimasta una frontiera, anche per la Chiesa.
Per questo il nostro lavoro si è concentrato più su quest’ultimo ambito, interpellando direttamente il segretario generale della CEI di allora, mons. Galantino, e il direttore dell’ufficio famiglia nazionale, don Paolo Gentili. Dobbiamo riconoscere la grande sensibilità e attenzione ricevuta soprattutto da quest’ultimo, su incarico informale del segretario generale.
Fin dall’inizio abbiamo scoperto una grande vitalità dei cristiani LGBT in Italia, lunga di anni, grazie ai gruppi sparsi per il Paese e i vari coordinamenti; i grandi assenti, invece, erano proprio gli operatori pastorali, i sacerdoti – e quindi i vescovi – per vari motivi. Il più forte, una grande ignoranza pastorale, più che dottrinale, circa la condizione esistenziale reale delle persone LGBT all’interno della Chiesa. Da qui l’esigenza di promuovere – già fin dal 2016 – degli incontri nazionali di formazione per operatori pastorali, da coordinare con la feconda attività dei gruppi cristiani LGBT.
Come si articolano e cosa vogliono offrire questi percorsi agli operatori pastorali?
Nel corso degli anni ci sono stati vari tipi di proposte e in vari luoghi, finalizzate prima di tutto a individuare gli operatori pastorali interessati, e quindi metterli in rete, collegarli per avere prospettive pastorali comuni. Nell’ultimo anno abbiamo maturato e realizzato una proposta più organica con un percorso in tre tappe prendendo spunto dal Documento Finale del Sinodo dei Giovani, n. 150: «Esistono questioni relative al corpo, all’affettività e alla sessualità che hanno bisogno di una più approfondita elaborazione antropologica, teologica e pastorale, da realizzare nelle modalità e ai livelli più convenienti, da quelli locali a quello universale».
Le tre tappe hanno toccato nell’ordine ordine questi tre ambiti di approfondimento. Tra i percorsi online e in presenza organizzati dal nostro centro di spiritualità “Villa San Giuseppe” a Bologna, sono stati raggiunti più di un centinaio di operatori pastorali in Italia interessati, sacerdoti per la maggior parte; sono stati coinvolti docenti delle facoltà teologiche dell’Italia Settentrionale (Milano e Torino); Emilia Romagna e Italia Centrale (Firenze); e altri.
Che impatto ha avuto su questa pastorale l’evoluzione in corso della riflessione teologica e biblica sul tema dell’omosessualità?
L’impatto è stato reciproco: il grande fermento pastorale in questo ambito, laicale per lo più grazie ai gruppi (di cattolici LGBT e i loro genitori) sparsi in tutta Italia, ha sollecitato i pastori e la loro formazione; questo ha stimolato enormemente la riflessione teologica che ha richiesto un approccio diverso alla realtà antropologica e alla lettura della Sacra Scrittura. Tutto questo sta fornendo un supporto formidabile per un ulteriore sviluppo della creatività pastorale.
Come hanno inciso, sull’evoluzione della discussione su questi temi, i documenti del magistero di papa Francesco?
I documenti del magistero di papa Francesco non presentano particolari novità sull’argomento, se non una accentuata attenzione pastorale volta soprattutto all’accoglienza (cfr. Amoris Laetitia nn. 250-251), con una sottolineatura circa la non-discriminazione; un atteggiamento in forte discontinuità con il tenore dei documenti sul tema dei precedenti pontefici.
La grande novità la si riscontra a livello informale: le interviste a papa Francesco ormai toccano sempre questo argomento e mostrano una marcata prospettiva pastorale che – pur non toccando direttamente la dottrina – ne preparano ulteriori sviluppi. Un esempio è l’apertura del papa alle unioni civili, arrivando quasi a dire che queste sono un diritto delle coppie omosessuali intenzionate a costituire relazioni stabili, un diritto che lo Stato ha il dovere di riconoscere. E poi, la novità di papa Francesco la si vede nelle azioni concrete: varie volte ha accolto persone e coppie LGBT, loro genitori, insistendo nel dovere dell’accoglienza per l’unica figliolanza divina.
Cosa vuol dire concretamente, in una parrocchia o in una diocesi, dar inizio a un cammino pastorale con le persone omosessuali e soprattutto con i loro genitori?
La prima cosa da fare, a mio parere, è annunciare esplicitamente la volontà di accoglienza e integrazione delle persone credenti LGBT nella realtà pastorali delle nostre comunità cristiane. Non è più tempo di presupporre una accoglienza generica e anonima che, piuttosto, testimonia l’imbarazzo e il timore – dovuti all’ignoranza – di dare “nome” e dignità ad un ambito pastorale e, quindi, alle persone. È ora di usare in modo normale e ordinario (e in senso positivo) le parole “omosessuale”, “lesbica”, “gay”, “LGBT” anche in ambito ecclesiale. E questo non per “categorizzare” le persone che sono tutte figlie di Dio; ma per riconoscere dignità cristiana anche a queste condizioni di vita, che le persone, le famiglie e le comunità si ritrovano senza nessuna scelta personale.
In secondo luogo, è necessario promuovere centri di ascolto e/o referenti ufficiali che possano intercettare le domande e i vissuti di fede delle persone LGBT e le loro famiglie, e offrire luoghi, contesti e itinerari di integrazione e crescita nella fede. Contestualmente deve esserci un impegno formativo rivolto alla comunità tutta perché cresca nella conoscenza, nella accoglienza e integrazione allargata di queste persone e dei loro vissuti. Quindi dovrà esserci una piena accoglienza e integrazione dei gruppi di credenti LGBT presenti nel territorio. Infine, promuovere l’integrazione delle persone e coppie LGBT nei gruppi parrocchiali e associativi, anche a partire dal loro specifico orientamento sessuale.
Nei tuoi corsi di formazione, oltre a teologi, biblisti e psicologi, portano spesso la loro testimonianza anche i genitori cattolici con figli LGBT. Come mai questa scelta?
Non solo i genitori, ma anche il vissuto delle persone LGBT stesse, le coppie da loro formate, etc. Infatti, un elemento imprescindibile della pastorale è la conoscenza diretta dei “soggetti” di questa pastorale; la conoscenza del loro bisogno religioso, comunitario, di appartenenza e di fede.
Cosa diresti a chi non condivide la necessità di realizzare una specifica pastorale per e con le persone omosessuali e i loro genitori?
Di evitare l’ipocrisia che questa affermazione nasconde. Per quale motivo non ci si fa scrupolo di parlare di “pastorale giovanile”, “pastorale familiare”, “pastorale del lavoro”, etc.; e solo per le persone LGBT si invoca una prospettiva “comune” della pastorale, senza specificazioni?
Come non vedere in questo atteggiamento il timore e il fastidio di associare al termine “pastorale” o “ecclesiale” anche la parola “omosessuale” o “LGBT”? Come non intravedere un atteggiamento subdolamente omofobo? L’ipocrisia potrebbe facilmente essere superata se si dichiarasse l’impegno ad accogliere persone e coppie apertamente omosessuali nei gruppi parrocchiali, giovanili, adulti, coppie; nei consigli pastorali e nei servizi e ministeri ecclesiali… lasciando al discernimento invocato da Amoris Laetitia di individuare la misura più opportuna per realizzare questa integrazione.
D’altra parte, però – come ha affermato più volte l’arcivescovo di Bologna – dobbiamo riconoscere che davvero la meta della pastorale con persone LGBT è proprio la pastorale ordinaria e comune della comunità cristiana, senza più bisogno di specificazioni; queste, infatti, se per ora permettono una attenzione particolare a vissuti finora trascurati dalla pastorale, rischiano sempre di ghettizzare le persone e le esistenze che piuttosto si vorrebbero integrare.
Ogni pastorale non può mai essere per qualcuno ma deve essere sempre con. Cosa può imparare la nostra Chiesa dall’incontro con questa “periferia esistenziale”?
Sì, certo, dobbiamo sempre ricordarci che “soggetti” della pastorale sono proprio le persone a cui è dedicata, e in questo caso le persone LGBT. Di questa pastorale esse sono e devono essere riconosciute come “protagoniste”; portatrici di una peculiarità nella comunità cristiana che, se ne fosse privata, sarebbe più povera. Come ogni persona con il suo vissuto particolare, le persone LGBT portano in sé istanze, esperienze e vissuti spirituali e cristiani, che possono essere assimilati ai carismi, doni per l’utilità comune della comunità cristiana.
Le persone omosessuali, per la loro esperienza di fede sofferta e “di frontiera”, incarnano novità simili a quelle che all’inizio della Chiesa le hanno permesso di arricchirsi dei vissuti dei pagani, dei gentili divenuti cristiani. Allora la Chiesa ebbe il dono di allargare i suoi orizzonti. Qualcosa di simile è il kairòs, il segno dei tempi che i cristiani LGBT rappresentano per coloro che sanno scrutare il cielo e la terra. Lo Spirito ne renderà conto.
Nel tuo impegno pastorale dedichi molto tempo all’ascolto dei credenti LGBT e dei loro genitori. Quali loro ferite pensi la Chiesa cattolica debba contribuire a far rimarginare, diventando così quell'”ospedale da campo”, spesso invocato da papa Francesco?
Beh, prima di tutto ci sono le ferite che la Chiesa stessa ha inferto ai credenti LGBT, e continua ad infliggere. Che quindi smetta di farlo, accogliendo davvero queste persone nella loro piena dignità di figli di Dio e già parte della Chiesa, riconoscendo il dono peculiare di cui sono portatrici.
* Innocenzo Pontillo è volontario de La Tenda di Gionata, associazione cattolica che opera affinché le comunità cristiane diventino «sempre più santuari di accoglienza e sostegno verso le persone LGBT e verso ogni persona colpita da discriminazione»