Paura del «gender». Quando gli stereotipi impediscono la discussione sulla sessualità e ruoli sociali
Articolo di Rita Torti pubblicato sul mensile Il Regno Attualità n.10 del novembre 2015, pp.656-657
Nel luglio di quest’anno alcune donne cattoliche di Parma (fra cui la sottoscritta) scrivono una lettera aperta alle principali associazioni ecclesiali presenti in diocesi per comunicare il proprio disagio rispetto alla infiammata battaglia contro il «gender», che vede parte del mondo cattolico fra i protagonisti più attivi e convinti. Ci firmiamo scherzosamente «Le sante Lucie»; tutte siamo da decenni coinvolte in modo attivo nella vita della Chiesa locale.
La nostra lettera, inviata anche a testate e siti cattolici, ha un notevole e immediato riscontro in Rete, mentre l’unica risposta in diocesi viene dal Movimento ecclesiale d’impegno culturale, che in ottobre organizza l’incontro «“Gender”: cerchiamo di capire».
Sono previste un’introduzione per ricordare le motivazioni della lettera, poi una ricognizione sull’uso del termine «gender», quindi il confronto tra le persone presenti. Le quali, la sera della riunione, sono numerose, tanto che ci si deve spostare in una sala più capiente.
Delegata dalle «sante Lucie», introduco riprendendo i punti essenziali del nostro testo (lo si può leggere ad esempio sui siti di C3dem, Adista, Combonifem e Coordinamento delle teologhe italiane): prendiamo le distanze dalla logica amico/nemico su cui ci pare impostata tutta la faccenda, segnaliamo approssimazioni e vere e proprie distorsioni delle fonti nei discorsi e nei documenti «anti-gender», riteniamo che usare il termine-ombrello gender per realtà molto diverse tra loro sia deleterio, perché si tratta di prospettive culturali e pratiche sociali eterogenee e non assimilabili.
Sottolineo che scriviamo in quanto cattoliche, e che per noi è un problema vedere come gli impegni che ci siamo assunte in questi anni sono ora in odore di eresia (ad esempio la promozione delle donne, il contrasto alla violenza di genere, i progetti educativi per potenziare la ricchezza umana di maschi e femmine al di là del condizionamento di modelli limitanti quando non negativi, il lavoro sul linguaggio); pensiamo che nella Chiesa anche su questi temi si debba prevedere e garantire il pluralismo delle posizioni (cf. anche Regno-att. 1,2015,53: «Dire la differenza oltre le ideologie»).
Dopodiché illustro il termine «genere», che definisco come la continua reinterpretazione socio-culturale del dato biologico della dualità sessuale, che coinvolge non solo l’autopercezione e le relazioni tra individui, ma anche sistemi simbolici e religiosi e l’organizzazione della vita collettiva.
Ricordo che da una quarantina d’anni questa consapevolezza, tramite i gender studies, ha costituito uno strumento euristico e ermeneutico del quale oggi non possiamo fare a meno, e che della prospettiva di genere hanno beneficiato anche le discipline teologiche. Sottolineo che i gender studies hanno riportato alla luce le voci e le esistenze delle donne (quindi sono proprio il contrario dell’in-differenziato), e che ciò ha comportato contestualmente l’indagine sulla costruzione della maschilità: un tema che ha strettamente a che fare anche con la violenza contro le donne, molto diffusa anche tra i giovani.
Accenno poi al concetto di «gender» in filosofia, all’istanza etica che muove anche posizioni molto discusse come quelle di Judith Butler. Infine spiego la differenza tra genere e orientamento sessuale. Termino dicendo che come credenti ci può interrogare la constatazione che nelle Scritture non ci sia un unico modello di femminile e di maschile a cui possiamo appoggiarci, e che dobbiamo riflettere sul fatto che Gesù ha sempre travalicato le prescrizione di genere, sia maschili sia femminili, del suo tempo.
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Insulti in nome del… Vangelo
Molte cose in pochi minuti, certo, ma nel resto della serata c’era il tempo per riprendere i vari aspetti, fare domande, portare contributi. E invece… Il moderatore della serata chiede a chi vuole intervenire di segnalarlo subito per organizzare i tempi, e immediatamente si alzano diverse mani, quasi tutte di persone che fanno interventi apparentemente coordinati in anticipo, con toni e contenuti che mi spiazzano. Non perché non li capisca o non sappia cosa rispondere. Piuttosto, mi spiazzano perché sono fuori contesto, come se non avessero ascoltato niente di quanto detto fino a quel momento.
A parte un signore che ci insulta (ma insulta anche monsignor Galantino, siamo in buona compagnia), e con tono alterato dice che c’è fin dal Settecento una lobby gay che ha lo scopo di distruggere la Chiesa, gli altri in rapida successione dicono che «adesso a scuola vogliono insegnare a masturbarsi ai bambini di quattro anni, e gli insegnano a dubitare del proprio genere, e quei libretti UNAR distribuiti nelle scuole ecc.».
Ripetono pedissequamente quanto si trova nei siti delle associazioni e dei movimenti «anti-gender»; qualcuno ha proprio i fogli stampati e legge da lì. Un signore «rivela» d’aver trovato su Internet il documento dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS, che in effetti si trova molto facilmente, è messo in Rete proprio per essere letto), e cita l’ormai famosa «matrice»; al che altri, nella sala, interrompono dicendogli che il documento va letto dall’inizio, se si vuole capire il senso della matrice e non farle dire ciò che non dice.
Diverse persone commentano ad alta voce, teste si scuotono, l’aria è molto tesa. Poi altri interventi riportano l’attenzione sulla violenza contro le donne, sul reale contenuto del comma 16 della legge 107, sugli stereotipi di genere nel mondo dell’infanzia, sulla tendenza della nostra società verso l’in-differenziato; ma clima della serata è ormai compromesso, e si è pure fatto molto fatto tardi. Il moderatore mi ridà la parola per qualche minuto.
Faccio alcune precisazioni: sugli standard OMS (invitando a leggere gli scritti di Alberto Pellai su questo tema), sulla necessità di adottare una prospettiva di genere se si vogliono cogliere le dinamiche specifiche della violenza contro le donne, e poi di nuovo sulla necessità di distinguere le varie questioni.
L’incontro si chiude. Raccolgo i miei fogli e la tristezza che mi vien fuori da tutte le parti, mentre due signore mi si avvicinano e, in nome del Vangelo, m’insultano.
Cosa dire, di una serata così? I membri del gruppo «contestatore» si scambiavano segni di «vittoria» mentre si alternavano negli interventi iniziali; e d’altra parte io e le altre «Lucie» abbiamo ricevuto molti messaggi di solidarietà da persone sconcertate da certi comportamenti e interessate al nostro modo di porre le questioni.
Tuttavia, si trattava non di vincere o di perdere, ma di mettere in movimento uno scenario che, a dispetto dei toni infiammati, è in stallo. Se avessi voluto «vincere» avrei smascherato fin dall’inizio l’inconsistenza degli argomenti «anti-gender», perché li conosco piuttosto bene. Ma visto che nella lettera se ne contestava l’attendibilità, tutto mi sarei immaginata tranne che venissero riproposti tali e quali come se niente fosse.
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«Loro» non sono «noi»
Non è piacevole sentirsi apostrofate come «ingenue disinformate» e «prive di senso critico» (forse avremmo dovuto sciorinare i nostri curricula, che proprio insignificanti non sono?); né è stato edificante vedere come chi si vanta di manifestare in silenzio contro i decreti Scalfarotto e Cirinnà abbia invece riversato rabbia e aggressività in una riunione ecclesiale, senza – mi pare – essere provocati in alcun modo.
Ma il vero problema, a mio parere, è che tutto questo ha impedito al resto dei presenti di parlare con calma per capire che cosa, in tutto ciò che è stato messo nel calderone «gender», può essere positivo e che cosa invece suscita perplessità e perché, e magari elaborare una scaletta di temi per futuri dibattiti.
Nelle settimane successive, quando mi sono trovata a parlare di genere in altre città, si è più di una volta verificata una situazione analoga: qualunque fosse la prospettiva specifica su cui si stava lavorando, diverse erano le mani alzate e gli interventi che invece di portare un contributo sul merito – anche dissonante, questo è normale – ripetevano le stesse frasi, le stesse citazioni prive di fondamento (siamo arrivati a: «la teoria gender è una cosa che c’entra con la chimica, perché c’è una legge in Inghilterra che obbliga a dare ai bambini delle sostanze per bloccare lo sviluppo così poi loro possono scegliere di essere del sesso che vogliono; lo so perché l’ho sentito in una conferenza dell’avvocato XY»).
Allora, di nuovo, diverse mezz’ore sottratte al lavoro previsto per dimostrare che non è così, mostrare le prove, riportare le questioni nel loro ambito proprio.
Soprattutto, ogni volta, ho come l’impressione che ci siano alcuni buchi neri che risucchiano le competenze culturali e professionali delle persone – credo sinceramente – cattoliche, e ciò mi interroga ulteriormente.
Il principale di questi «buchi neri» mi pare si spalanchi ogni volta si mette in discussione la «naturale differenza fra uomini e donne».
Si reagisce con veemenza perfino di fronte all’idea che a scuola qualcuno dica che una bambina da grande potrà guidare un camion o che un papà stirerà. Eppure lo sappiamo tutti che le donne i camion li guidano (e fanno molto altro) e i papà stirano. Se questa è considerata una deriva anti-cristiana e anti-umana, credo che sarebbe il caso di dirlo chiaramente, e di spiegarne i motivi, e ragionarci insieme. Se il problema invece fosse altro, va nominato per quello che è.
Un altro buco nero riguarda la violenza di genere. C’è chi interviene per dire che anche le donne fanno del male agli uomini, e che quella contro le donne è una violenza come le altre: il problema è che non s’insegna più il rispetto, mentre «a me hanno sempre insegnato che le donne non si toccano nemmeno con un fiore». Alla luce di quanto ormai sappiamo su questo fenomeno – i dati, gli studi che li analizzano e li interpretano – è difficile attribuire questi interventi a semplice «ignoranza»; a me pare piuttosto una rimozione. E ancora una volta mi sorge la domanda: che cosa, nella nostra fede, porta a questa rimozione?
O forse c’è il timore che ripensare la maschilità indebolisca la «naturale differenza»?
E poi, l’omosessualità: più che un buco nero, un tabù. Certo, «noi» li rispettiamo, ma ho spesso sentito esclamare, anche in contesti molto selezionati, frasi del tipo: «Ah, tutti questi gay che invadono le scuole e vogliono insegnare l’omosessualità». E magari nella stessa sala ci sono persone omosessuali, o genitori di giovani omosessuali. «Loro», semplicemente, non è previsto che siano fra «noi».
L’ultimo buco nero assomiglia piuttosto a un muro di gomma. Per quanto si sollecitino i gruppi sul confronto tra parola di Dio e comprensione del tema sesso-genere, non si riesce ad avere riscontri. Eppure la Bibbia e la storia della Chiesa hanno molto da dire su quanto si cambia, quanto si possa migliorare o anche quanto si possa sbagliare nell’elaborare e prescrivere modelli di maschilità e femminilità.
Ma quando si propone di vedere che cosa significa, oggi, la frase «A sua immagine… maschio e femmina li creò», semplicemente si viene ignorate. Mi domando perché.