Il pellegrinaggio queer dei femminielli al Santuario di Montevergine
Articolo di Marta S. pubblicato sul blog della comunità MCC Il Cerchio il 9 febbraio 2018
Ogni anno il 2 febbraio la chiesa cattolica e la maggior parte delle chiese cristiane celebrano la ricorrenza della presentazione di Gesù bambino al tempio, narrata dal Vangelo di Luca (2, 22-39).
La Candelora
La Torah prescriveva che tale cerimonia si svolgesse quaranta giorni dopo la nascita del primogenito maschio delle famiglie ebraiche. Luca narra che l’anziano Simeone, ispirato dallo spirito santo, prese in braccio il bambino e, rivolgendosi a Dio, disse di esser finalmente pronto a morire, avendo i suoi occhi visto il Messia, “luce per illuminare le genti”. La liturgia prende spunto da tale brano per prevedere che, nel corso della cerimonia che ha luogo in tale giornata, vi sia un rito di benedizione delle candele, dal quale deriva la popolare espressione Candelora, con cui la ricorrenza è comunemente indicata. Espressioni simili esistono in molti altri paesi (in inglese Candlemas).
Rivisitazione queer in Campania
La festività della Candelora è particolarmente sentita tra le persone omosessuali, bisessuali e transgender della Campania, che in tale giornata danno vita a un rito molto antico, che in dialetto napoletano è indicato come “a juta re femminielli” , espressione la cui traduzione più appropriata è forse “pellegrinaggio degli omosessuali”, essendo “femminielli” un termine con cui spesso ci si riferisce non solo alle transessuali, ma anche agli uomini gay molto effeminati.
La mamma schiavona
Ogni 2 febbraio infatti centinaia di persone appartenenti al mondo lgbt, in qualche caso provenienti anche dalle regioni limitrofe, si recano in pellegrinaggio al santuario di Montevergine, luogo di culto medievale situato sul monte Partenio, in provincia di Avellino. Lì rendono omaggio alla Madonna nera che nel santuario si trova, comunemente indicata come “mamma schiavona”, un dipinto tardo-medievale che raffigura la vergine con il bambino, ambedue con la pelle dalla tonalità piuttosto scura. Dopo l’omaggio cultuale, i pellegrini si ritrovano nel sagrato antistante la chiesa dove, in un’atmosfera goliardica non molto diversa da quella dei gay pride, con vestiti dai colori sgargianti danzano al suono di strumenti della musica popolare del luogo, dai tamburi alle nacchere. Per una parte dei fedeli il pellegrinaggio inizia già alla vigilia, quando ci si ferma a dormire nel limitrofo borgo di Ospedaletto, che fino al medioevo si chiamava Fontanelle ma ha poi mutato il nome proprio per la grande importanza che nel tempo ha assunto la dimensione dell’ospitalità data ai molti pellegrini.
Origine del pellegrinaggio
La tradizione vuole che “a juta re femminielli” tragga origine da un episodio che si sarebbe verificato nel XIII secolo, quando due ragazzi del luogo, sorpresi in intimità omosessuale, sarebbero stati abbandonati legati a un albero, affinché morissero di stenti o, più probabilmente, per l’aggressione di animali randagi del bosco. La tradizione vuole che la madonna di Montevergine sarebbe apparsa loro proprio nel giorno della Candelora, e con volto benevolo li avrebbe sciolti dalle corde che li legavano. I compaesani dei due giovani, credendo al loro racconto e traendo insegnamento dalla benevolenza della vergine, avrebbero dunque risparmiato la vita ai due, addirittura tollerando (in via eccezionale) che essi continuassero a vivere in privato la propria storia d’amore senza doversi più nascondere. La stessa tolleranza che, nel corso del tempo, è stata quasi sempre mostrata verso le persone omosessuali, bisessuali e transgender che si recavano in pellegrinaggio al santuario. Il pellegrinaggio queer a Montevergine ha profondamente affascinato anche molti intellettuali del Novecento, da Pasolini che registrò i canti dei fedeli e ne fece uso nella colonna sonora del suo Decameron, a Vittorio De Sica, che si recò al santuario in compagnia dello sceneggiatore Zavattini alla ricerca di spunti sulla religiosità popolare del luogo, da utilizzare poi nel suo film L’oro di Napoli.
Origini precristiane
Tale forma di religiosità popolare è doppiamente interessante in quanto affonda le sue radici nell’età antica, allorché proprio sul monte Partenio si trovava un tempio dedicato agli dei Cibele e Attis. Essendo Attis una divinità eunuca, molti dei sacerdoti si sottoponevano a evirazione rituale e i culti avevano un carattere che oggi definiremmo queer, con i sacerdoti e molti dei fedeli di sesso maschile che indossavano vesti e trucchi femminili e cantavano e danzavano in forme non dissimili da quelle odierne. In alcuni casi i culti assumevano un vero e proprio carattere orgiastico. Il culto di Cibele e Attis, di origine greca, si diffuse a Roma alla fine del III secolo a.C. Molte fonti letterarie dell’età antica ne parlano, da Catullo allo stesso Virgilio.
Culti queer inclusive
Negli antichi culti precristiani di Cibele e Attis, come nella particolare forma che oggi a Montevergine assume il culto mariano, l’orientamento omosessuale e bisessuale e l’identità transgender non solo non sono considerati come situazioni incompatibili con la fede religiosa, ma al contrario vengono ‘incanalati’ e integrati in forme rituali ben precise e profondamente radicate nella vita spirituale del luogo. Va inoltre osservato che anche i riti devozionali delle persone lgbt verso la “mamma schiavona” sono oggetto di una sorprendente tolleranza da parte delle autorità ecclesiastiche cattoliche. Solo in un paio di occasioni, all’inizio degli anni duemila, si sono registrate delle tensioni con l’abate di Montevergine (che è anche vescovo del luogo), che peraltro avevano come oggetto non la natura del pellegrinaggio ma solo il comportamento da tenere all’interno della chiesa, che non sempre, ad avviso delle autorità abbaziali, era sufficientemente composto come dovrebbe essere all’interno di un luogo di culto.