La scomunica dei parroci: meglio soli e infelici che gay
Articolo di Marco Marzano pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 23 agosto 2015
Come dice lei stessa all’inizio della chiacchierata, Rossana “porta in giro quello che è”. Quando me l’hanno presentata, una sera, alla festa della parrocchia, l’ho scambiata per un uomo, Tanto è mascolino il suo aspetto. Era in compagnia di una ragazza graziosa, la sua partner attuale. Di essere omosessuale Rossana l’ha sempre saputo.
“Non ho scelto niente. Sono fatta così”, dice oggi. In casa ha fatto coming out intorno ai 18 anni, dopo una relazione amorosa finita male, con un dolore impossibile da nascondere.
In quegli anni Rossana non frequentava la parrocchia. “Era il periodo della stupidera–mi racconta – nel quale si esce con compagnie sbagliate, si cade in qualche trappola”.
.
Tra intolleranza e comprensione
Qualche anno più tardi fu un’altra delusione amorosa a portarla a conoscere un frate umbro che le propose una singolare esperienza spirituale, un cammino di otto giorni in territori desolati, senza telefono, senza denaro, con indosso un saio; tante ore di meditazione in compagnia di altri pellegrini e di una guida spirituale. “È stata un’esperienza fortissima, di autentica conversione. Prima ero convinta che il Signore ce l’avesse con me, che la mia omosessualità fosse un castigo divino, che le cose mi andassero male in amore perché Dio voleva punirmi. In quelle settimane nel deserto ho iniziato a cambiare punto di vista. I primi giorni ho pianto molto a lungo. Lacrime liberatorie”.
Fra’ Paolo le consentiva anche di fare la comunione: “Purché tu non conviva, a condizione che tu non vada a letto con nessuno, che sia casta”. La stessa cosa gliela aveva ripetuta qualche tempo dopo il suo parroco. “Per te valgono le stesse regole stabilite per gli eterosessuali: niente convivenza né rapporti sessuali occasionali”. A niente è valsa l’obiezione di Rossana, che lei, a differenza degli eterosessuali, sposarsi non può. “E allora devi smettere di peccare, farla finita con le donne –le hanno ripetuto i tanti preti che ha incontrato –oppure, se proprio lo desideri, andare in un’altra parrocchia. Dove non dai scandalo. Ma al massimo a Natale e a Pasqua. Non tutte le domeniche! La possibilità di fare la comunione la devi considerare un regalo speciale”. Molte volte i confessori le hanno negato l’assoluzione: “Ammiro l’amore che tu hai per Gesù – le ha detto una volta uno di loro – ma non ti posso considerare uguale agli altri. Mi provoca sofferenza, ma sono chiamato ad applicare la legge”.
Per fortuna, i preti non sono tutti così. C’è anche, come nel caso dei divorziati riaccoppiati, chi tra i presbiteri di quelle norme feroci e arcaiche se ne infischia. “La Chiesa predica l’amore e poi mi condanna quando mi prendo cura di un’altra persona, quando le voglio bene e la amo. Mentre mi accetta se sono sola ed arida”, dice ancora Rossana. Ma ormai Rossana ha compreso che il prete che non la assolve non è Dio, che Lui l’accetta comunque e che, in quei casi, è il prete che sbaglia, non lei. “Amo la Chiesa, nonostante la Chiesa”, mi confessa sorridendo.
Non tutti gli omosessuali cattolici italiani fanno una vita ecclesiale come quella solitaria di Rossana. Hanno costituito dei gruppi, dove aiutarsi, confrontare le proprie esperienze, decidere la linea nei rapporti con l’istituzione.
Qualche gruppo ha una più forte connotazione politica, è legato al movimento LGBT, avanza richieste, invoca diritti, ottenendo il più delle volte dall’istituzione un secco diniego o il totale silenzio. Altri gruppi hanno un orientamento più privato e discreto, si preoccupano di rendere la vita quotidiana dentro la Chiesa più accettabile per i propri membri.
Il sogno di tutti i gruppi, politicizzati o meno, è sciogliersi in una Chiesa che riconosca ai gay e alle lesbiche piena cittadinanza ecclesiale, che non li discrimini più, che li accolga anche, e forse soprattutto, quando si presentano in coppia alle porte di una comunità parrocchiale, casomai inserendoli in un gruppo famiglia, accanto alle coppie etero.
Per aiutare anche loro ad avere una vita di coppia piena e ricca. Sogno lontanissimo dal divenire realtà.
.
La spinta di Francesco per ora non basta
Il primo sinodo aveva fatto qualche passo significativo, per poi precipitosamente rimangiarselo. Alla vigilia del secondo, la situazione non sembra migliorata. La possibilità che da quella clamorosa frase del papa “Chi sono io per giudicare un omosessuale ?” discendano reali cambiamenti, anche solo pastorali, è assai ridotta. Anche se quella frase del papa qualche effetto l’ha comunque prodotto.
Ha aumentato la sicurezza con la quale molti gruppi e forse anche molti singoli come Rossana si rivolgono all’istituzione, ha infuso loro coraggio. Inducendo anche alcuni di coloro che, dentro la Chiesa, sono animati da una reale volontà di dialogo a venire allo scoperto, a iniziare per la prima volta un confronto serio con le persone omosessuali. Ma sono segnali flebili, isolati, ancora troppo timidi se messi a confronto con la velocità del cambiamento sociale, con la rapidità con la quale le nostre opinioni pubbliche stanno accettando di ridurre la loro omofobia, di riconoscere eguali diritti agli omosessuali in un numero sempre più ampio di sfere esistenziali.
In maniera ancora più radicale che sul tema dei divorziati, la Chiesa sperimenta qui la sua difficoltà nell’affrontare l’età contemporanea, quell’era dell’autenticità che ha sostituito la civiltà del precetto. In questo nuovo regime, appare illogico e assurdo che la Chiesa sia desiderosa di accogliere persone senza una fede autentica che bussano alla sua porta per ragioni di mera opportunità (ad esempio, le tantissime coppie che si sposano in Chiesa per “il contesto”, per le insistenze delle famiglie, per l’abito bianco, la musica sacra e le colonne corinzie sullo sfondo) e lasci ai margini o fuori dalla porta le tante persone come Rossana che il desiderio profondo di Dio lo portano impresso in ogni momento della vita.
Meglio doppie vite che seminari vuoti
Affrontare finalmente la questione dell’omosessualità sarebbe per la Chiesa quell’operazione di radicale parresia invocata più volte da Francesco. Fare i conti con il grande tema dell’omosessualità del clero. Una questione che riguarda tanti sacerdoti, costretti a vivere un’esistenza ipocrita, a condurre un’orribile doppia vita, a predicare dal pulpito contro l’omosessualità e a praticarla quando le porte della canonica si chiudono.
O condannati a conoscere, soprattutto negli anni di seminario o nei primi di sacerdozio, i tormenti di un’omosessualità negata e repressa, molto spesso senza ricevere dall’istituzione timorosa di perdere un nuovo funzionario nessun conforto, nessun aiuto.
L’intransigenza cattolica contro l’omosessualità rischia di avere, tra le sue motivazioni, anche quella di non voler fare i conti con un gigantesca rimozione, forse la più grande e clamorosa. Ma rimuovere fa male. Peggiora le situazioni, fa incancrenire i problemi. Specialmente in una società nella quale non vige più la regola del pubblico silenzio benevolente e complice sulla vita sessuale del clero. C’è proprio urgente bisogno di parresia. Speriamo arrivi presto.