Per un approccio pastorale alle persone omosessuali nella chiesa cattolica
Riflessione di mons. Carlo Bresciani, psicologo psicoterapeuta e docente di teologia morale, pubblicate su Tredimensioni n.6 (2009) pp.24-30
La Chiesa riconosce che ci possa essere una cura pastorale per le persone omosessuali (i) . Sul tema, la Congregazione per la dottrina della fede ha emanato una lettera rivolta ai Vescovi (ii). In essa si afferma: «Questa Congregazione incoraggia pertanto i Vescovi a promuovere, nella loro diocesi, una pastorale verso le persone omosessuali in pieno accordo con l’insegnamento della Chiesa» (n. 15). Dà poi un’indicazione preziosa: «Un programma pastorale autentico aiuterà le persone omosessuali a tutti i livelli della loro vita spirituale, mediante i sacramenti e in particolare la frequente e sincera confessione sacramentale, mediante la preghiera, la testimonianza, il consiglio e l’aiuto individuale. In tal modo, l’intera comunità cristiana può giungere a riconoscere la sua vocazione ad assistere questi suoi fratelli e queste sue sorelle, evitando loro sia la delusione sia l’isolamento»(ivi). È evidente che una cura pastorale richiede la dedizione anche dei pastori e per questo si afferma: «La particolare sollecitudine e la buona volontà dimostrata da molti sacerdoti e religiosi nella cura pastorale per le persone omosessuali è ammirevole, e questa Congregazione spera che essa non diminuirà. Tali ministri zelanti devono nutrire la certezza che stanno seguendo fedelmente la volontà del Signore, allorché incoraggiano la persona omosessuale a condurre una vita casta, e ricordano la dignità incomparabile che Dio ha donato anche ad essa» (n. 13). Si tratta di importanti linee di partenza per la elaborazione di indicazioni pastorali più concrete. Nascono, però immediatamente alcune domande: ma quale pastorale è realisticamente possibile alla luce delle molte incomprensioni che minano il campo? Quali spazi realistici per la pastorale ci possono essere o si devono creare andando oltre (non contro) il giudizio morale circa gli atti omosessuali?
Da notare che il campo è minato da molte incomprensioni che non sono solo delle persone omosessuali, ma anche di singoli e di comunità che confondono la non approvazione morale degli atti omosessuali con la condanna della persona tout court. L’incomprensione apre facilmente la strada a diverse forme di emarginazione e, talora, di vere e proprie mancanze nei confronti di loro diritti fondamentali. Da credenti e membri della Chiesa è un dovere cercare di riflettere sui possibili approcci pastorali alle persone omosessuali. Sappiamo essere un terreno di forti contrasti. A molte richieste la Chiesa non può dare risposta positiva, ma non possiamo abbandonare a se stessi cristiani che, trovandosi a vivere un orientamento omosessuale, chiedono aiuto alla Chiesa. Una pastorale cristianamente ispirata non pretende di trovare soluzioni immediate alle difficoltà in cui i fedeli e le comunità si dibattono, ma di accompagnare gli uni e le altre a una progressiva e più profonda adesione a Cristo e al modello di vita che lui ci ha insegnato per giungere a una piena comunione con Dio. Non si tratta, quindi, di nascondersi le difficoltà o pensare di risolverle semplicemente negando l’esistenza dei problemi, quanto di mettersi in cammino, avendo alcuni punti di riferimento irrinunciabili: quelli evangelici, senza farsi illusioni, né aver fretta di arrivare a conclusioni superficiali e illusorie.
Punti irrinunciabili
1) La dignità intrinseca della persona non deriva dal possesso di questa o quella qualità e non viene perduta per la mancanza di una o dell’altra di esse. In questa luce, non è l’orientamento sessuale che dà la dignità della persona eterosessuale o la non dignità della persona omosessuale. Cristianamente, la dignità della persona trova il suo fondamento nell’essere figlio di Dio e ciò è di ogni essere umano qualunque sia la condizione della sua vita. Significa che ogni essere umano, in qualsiasi condizione egli si trovi, è chiamato a camminare verso l’incontro con Dio ed è da lui amato.
2) Ogni battezzato è parte della Chiesa e, in quanto tale, ha diritto alla sua cura pastorale, espressione della sua maternità che vuole e deve generare in Cristo figli degni dell’amore del Padre. Certamente la persona omosessuale, per il solo suo orientamento sessuale, in virtù del suo battesimo non può essere esclusa da tale cura e, meno che meno, deve essere ritenuta non più parte della Chiesa stessa. Ciò significa che anche la persona che si trova a vivere un orientamento omosessuale è chiamata a vivere la sua appartenenza a Cristo e alla Chiesa con il sostegno dei comuni mezzi di vita spirituale cristiana e attraverso una conformazione della sua vita al Vangelo.
3) Il peccatore è parte della Chiesa, sia pure come «membro morto», chiamato a conversione (iii). Quindi, anche il peccatore ha diritto alla cura pastorale della Chiesa che mette a sua disposizione tutti i mezzi a lei affidati da Cristo, non ultimi quelli sacramentali, per la sua conversione.
4) Se la dottrina della Chiesa afferma essere oggettivamente negativi dal punto di vista morale gli atti omosessuali, ciò non significa affermare che si è sempre di fronte a responsabilità morale soggettiva e, quindi, a un peccato. «La loro colpevolezza sarà giudicata con prudenza… [lo stesso giudizio della Scrittura] non permette di concludere che tutti coloro, i quali soffrono di questa anomalia, ne siano personalmente responsabili» (iv). Anche quando si fosse di fronte a comportamenti peccaminosi, non significa per ciò stesso che debbano essere negati il perdono sacramentale (alle solite condizioni) e la possibilità di una cura pastorale per coloro che vivono attivamente la loro omosessualità. Mai può essere data l’indicazione ai pastori e ai fedeli di abbandonare a se stessi questi fratelli in Cristo, allontanandoli così dalla comunità cristiana e dai mezzi necessari per la conversione. Questi quattro pilastri sono il punto di partenza imprescindibile per qualsiasi pastorale che si voglia cristiana nei confronti delle persone omosessuali. Si pone, quindi, la necessità di pensare una pastorale specifica rivolta alle loro necessità, in modo analogo a quanto avviene per altre categorie di persone che vivono situazioni difficili.
La persona al centro della pastorale
Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma che le persone omosessuali «devono essere accettate con rispetto, compassione, e delicatezza» (n. 2358). Al centro di ogni pastorale bisogna mettere la persona e la sua vocazione in Cristo, prima della sua sessualità e prima anche della dottrina circa la sessualità umana, senza con ciò affermare che la dottrina debba venire dimenticata o messa semplicemente da parte. Bisogna prendere atto che non c’è cura pastorale che possa trascurare la dottrina sulla quale si fonda, ma pastoralmente occorre uscire da riflessioni in astratto sull’omosessualità e affiancarsi alle persone nella verità. Si tratta di persone cristiane che si trovano a dover vivere, senza loro scelta, in un orientamento omosessuale e che, come figli della Chiesa, chiedono di essere da lei e dai fratelli cristiani capiti nel modo giusto, aiutati e accolti con rispetto in un cammino di fede, non sempre facile e purtroppo non sempre lineare (come lo è in qualche modo per tutti), che porti ad un incontro reale di vita con Cristo da cui solo possiamo attenderci la salvezza.
La persona credente nella Chiesa
Se si mette al centro la persona, non ci si può fermare alla sua condizione attuale. La pastorale ha una meta precisa: portare alla vita in Cristo. Se si perde questa meta, la pastorale potrà anche fare molte cose buone (assistenziali, caritative…), ma perde la sua identità. Nella Chiesa la persona mantiene, evidentemente, tutti i diritti umani che le appartengono, ma non ogni diritto rivendicato da un battezzato è per ciò stesso un diritto del cristiano in quanto tale. Il cristiano nella Chiesa ha diritto a ciò che è richiesto da un’autentica sequela di Cristo, secondo la oggettività della fede, quindi ai mezzi spirituali di cui la Chiesa stessa dispone per volontà divina, per sostenere nel cammino della vita cristiana. Nessun cristiano può rivendicare diritti che allontanino dall’oggettività della fede o siano in contrasto con essa. Come credenti, sappiamo di essere figli gratuitamente creati e amati e, in Cristo, salvati senza merito. Nella Chiesa ci si pone sempre da figli fra i figli in ascolto della volontà di Dio rivelata in Cristo, da fratelli e sorelle che si sostengono nel compiere tale volontà. La comune appartenenza a Cristo ci rende non tanto ascoltatori di noi stessi, quanto di Lui; la comune appartenenza alla Chiesa deve far superare ogni tentazione di considerarla altra da noi, anche quando avessimo l’impressione di non essere capiti, come vorremmo, da essa (v).
La persona umana come persona ferita
Se appena ci mettiamo in verità gli uni davanti agli altri, è immediato trovarci d’accordo nel riconoscerci tutti fragili, limitati e in noi stessi divisivi. Riconoscerci tutti feriti dal peccato sta alla base della nostra fede cristiana. Noi tutti siamo quei peccatori per i quali Cristo si è fatto uomo ed è morto per i nostri peccati. Questa ferita (divisione interna e peccato) comporta la grande fatica dell’accettarsi (che non è mai il fatalismo del «sono fatto così, non ci posso fare nulla»), la fatica di capire che il limite è il nostro dato umano più oggettivo e che è in esso che Dio ci visita per metterci in cammino verso la nuova umanità, se non gli opponiamo resistenza che può manifestarsi nelle opposte tentazioni di autogiustificazione (autocommiserazione) o di disperazione. Accettarsi cristianamente nelle proprie ferite umane significa arrendersi alla possibilità di uno sviluppo imprevisto con l’aiuto di Dio, abbandonare false presunzioni di non dovere lottare contro quella parte di se stessi che resiste al Vangelo, accogliersi come mistero mai del tutto sciolto e che solo in Dio sarà rivelato. La pretesa narcisistica di perfezione rende giudici spietati di se stessi e degli altri, alla fine porta al rifiuto di Dio. A tutti è richiesta una costante lotta, talora anche aspra, con la propria natura ferita, confidando nell’aiuto di Dio.
La ferita dell’omosessualità
Se ognuno ha le proprie ferite umane, spesso residuo della storia personale, la persona omosessuale è portatrice di una ferita particolare, a cui ha l’impressione di non poter porre alcun rimedio. Ciò è causa di particolari sofferenze, anche per la solitudine affettivo-sessuale che si profila all’orizzonte. Inoltre, la situazione è aggravata dal fatto di dover tenere nascosta la propria diversità per paura d’incomprensioni e di rifiuti, e ciò può rendere più difficile l’elaborazione e l’integrazione della propria affettività negli altri ambiti di vita personale e sociale. La persona omosessuale, sentendo fortemente il timore della solitudine, è molto sensibile a qualsiasi accenno di rifiuto o di presa di distanza, per questo rischia di chiudersi nelle recriminazioni e nell’isolamento. Teme, in particolare, la solitudine della vecchiaia, anche per la mancanza della generazione e quindi della famiglia (vii). Ciò dice quanto siano profonde le tensioni in cui è posta dal suo orientamento sessuale. Non a caso il documento della Congregazione esorta ad «evitare l’isolamento» (viii). La ferita dell’omosessualità, di per sé, non condanna alla solitudine, anche se non rende possibile la relazione eterosessuale e, quindi, il matrimonio. La genitalità è certamente una dimensione importante della vita umana, ma la realizzazione personale e le relazioni interpersonali non dipendono esclusivamente da essa. La vera solitudine umana è la mancanza di relazioni sincere e libere di donazione di se stessi nell’amore cristiano all’interno degli ambiti in cui ci si trova a vivere. Occorre comprendere che la vera fecondità di ogni vita umana sta nel dono di sé in cui trova realizzazione la comune chiamata all’amore; per questo nessuna vita umana è condannata all’insignificanza e alla solitudine per sua natura. Anche una vita di castità può e deve essere feconda, benché non in senso fisico; può essere, infatti, ricca di relazioni umane e amicali che permettono all’affettività e alla sessualità di crescere verso un adeguato equilibrio, pur senza esprimersi nella genitalità. Tutto dipende dal come si vivono i rapporti umani.
Persone omosessuali e appartenenza alla Chiesa
La Chiesa è il luogo naturale entro il quale i cristiani cercano di discernere e di rispondere al progetto che Dio ha su di loro, di mettere a frutto i suoi doni e di aprirsi alla fecondità della fede a cui sono chiamati gratuitamente da Dio. La persona omosessuale cristiana è parte della Chiesa. Come per ogni cristiano essa va aiutata a riscoprire il senso di tale appartenenza, a viverla, ad assumersi le responsabilità di cristiano adulto, ad abbandonare facili vittimismi per la propria condizione, a superare rancori e risentimenti sedimentati per le sofferenze e le ferite del passato, a uscire dalla polemica sterile e aggressiva, a trovare luoghi, spazi e realtà ecclesiali in cui inserirsi attivamente per vivere comunitariamente la propria fede (ix). Come ogni cristiano, essa va aiutata a trovare coraggio e forza per vivere nella comunità cristiana, favorendo dialogo e comprensione con tutti onde promuovere l’annuncio del Vangelo, in modo particolare a tutti coloro che si sentono lontani. Come ogni cristiano, essa va coinvolta nella vita della comunità in base allo stile della sua vita di fede. Se si dà un’appartenenza ecclesiale della persona omosessuale, il pastore deve essere adeguatamente preparato ad accoglierla e a guidarla in modo pertinente nella fede. Va tenuto presente che spesso, purtroppo, singoli individui e gruppi di omosessuali cristiani, mancando di fiducia nei pastori, restano lontani dalla comunità nella convinzione, talora non senza fondamento, di non essere capiti e accolti nel modo adeguato. Restano così, di fatto, esclusi dal vivere attivamente un’appartenenza ecclesiale in grado di alimentare la loro fede, anche attraverso il sostegno dei sacramenti.
Come servirsi, nella pratica, di questi principi teorici sarà il tema del prossimo articolo. Ma il riferimento teorico non può essere saltato perché è la riflessione antropologica e teologica che fonda gli interventi pastorali e li preserva dall’essere dei semplici palliativi.
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(i) Affrontare in modo completo le questioni poste da questo tipo di pastorale va evidentemente oltre gli ambiti di un semplice articolo. Qui si vuole solo richiamare l’attenzione su di essa, indicarne l’urgenza facendo emergere alcuni spazi di vicinanza cristiana e di intervento.
(ii) Congregazione per la dottrina della fede, La cura pastorale delle persone omosessuali, 1-10-1986.
(iii) Cf C. Bresciani, La Chiesa comprende nel suo seno i peccatori, in Quaderni Teologici del Seminario di Brescia, I: L’appartenenza alla Chiesa, Morcelliana, Brescia 1991, pp. 129-145.
(iv) Congregazione per la dottrina della fede, Persona Humana (31-12-1975), n. 8.
(v) A. Manenti, I casi tragici: quando vivere il valore sembra impossibile, in «Tredimensioni» 1(2005), pp. 27-37 : www.isfo.it/files/File/Studi%203D/Manenti05.pdf
(vi) L’uomo è in se stesso diviso, afferma Gaudium et Spes n. 10.
(vii) La mancanza della generazione è vissuta più profondamente dalla donna che non dall’uomo.
(viii) Congregazione per la dottrina della fede, La cura pastorale delle persone omosessuali, n. 15.
(ix) La dimensione comunitaria è intrinseca alla fede cristiana: siamo chiamati a fare Chiesa e non a vivere da isolati e individualisticamente il nostro rapporto con Dio.