. Appunti di Luciano Ragusa distribuiti durante gli incontri del cineforum del Guado che si sono tenuti il 9 dicembre 2018 e il 20 gennaio 2019
Come spesso accade quando ci si avvicina con curiosità ad un fenomeno, da bar dello sport o accademico che sia, la prima cosa che investe il nostro interesse è il nutrito pacchetto di luoghi comuni che si articola suo malgrado. Il cinema britannico, al netto degli sforzi, non è ancora riuscito a “dribblare” una serie di ostacoli che ne appesantiscono il giudizio, e, di fatto, la sua intera comprensione.
A qualunque latitudine, si sente ripetere ingiustamente, che due sono le tradizioni che attraversano la cinematografia d’oltremanica: quella teatrale/letteraria che fa riferimento a Shakespeare e Dickens, fondata sulle indiscusse capacità degli scrittori inglesi di produrre romanzi e sceneggiature teatrali di valore assoluto; e quella che fa riferimento alla tradizione “documentaristica”, scaturita negli anni trenta dalla mente di John Grierson (1898 – 1972), allo scopo di proporre lungometraggi “inestetici”, prodotti fuori dagli studi, possibilmente con scopi pedagogici.
Dunque, secondo una certa critica, da un lato la filmografia anglosassone deve troppo ai suoi capolavori scenici ed editoriali, dall’altro, il documentario, non possiede gli stessi crismi artistici di una pellicola pensata per il cinema. La conclusione è scontata: gli inglesi scrivono testi che riempiono il cuore e la mente di ammirazione, sanno recitare a teatro come nessun altro, ma non sanno fare film, sono impotenti di fronte ad una macchina da presa, incapaci di misurarsi con la “settima arte”.
Ovviamente non contesto l’idea che, nel cinema britannico, ci siano prodotti dalla proverbiale pesantezza letteraria e assumo come dato di fatto incontrovertibile il filone “realista” che vede, per esempio, in Ken Loach uno dei protagonisti contemporanei più apprezzati. Debbo però prendere le distanze dall’affermazione secondo cui la cinematografia del Regno Unito, sia articolata unicamente nel dualismo citato sopra, perché questo dualismo non tiene conto degli autori e dei registi che hanno contribuito ad allargare le maglie dell’immaginario cinematografico mondiale.
È come se del cinema italiano, per fare un esempio, si prendessero sotto osservazione le commedie a lieto fine, senza valutare la progressione tragicomica che esse stesse hanno subito. Oppure se si riducesse il nostro cinema al Neorealismo, escludendo le danze visionarie di Federico Fellini, piuttosto che le pellicole d’impegno civico di Francesco Rosi.
Persino il grandissimo François Truffaut casca nell’equivoco di giudicare il cinema anglosassone come un cinema di serie B: nel suo celeberrimo libro intervista Il cinema secondo Hitchcock, pubblicato in Francia nel 1966, frutto delle conversazioni radiofoniche avvenute nell’agosto del 1962 tra i due cineasti, domanda infatti al re della suspance se le parole “cinema” e “inglesi” non fossero in contraddizione tra loro. (cfr. F. Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Pratiche, Parma, 1985, pag. 100). A quanto si dice, con il passare del tempo, il padre della Nouvelle Vague cambiò idea anche se, di questa inversione di rotta non esiste nessuna testimonianza.
Concludo la premessa sottolineando come l’universo di celluloide inglese sia in parte ancora da scoprire e che l’interessamento nei suoi confronti si limita alla sorpresa relativa al successo imprevisto di qualche lungometraggio. Probabilmente, c’è un fondo di verità in chi sostiene che il britannico d’origine controllata indirizza le sue attenzioni al teatro, al romanzo o alla poesia, ma ciò non è sufficiente a relegare il cosmo cinematografico d’oltremanica a semplice comparsa.
Alfred Hitchcock, Charlie Chaplin (a 23 anni ebbe il primo contratto negli States), John Boorman, Peter Greenaway, Stanley Kubrick (nato a New York ma naturalizzato inglese), Alan Parker, Joseph Losey, Richard Attenborough, Hugh Hudson, Derek Jarman, Mike Leight, Danny Boyle, Mike Newell, Nicolas Roeg, Mike Figgis, David Lean, e molti altri, sono esempi di registi del Regno Unito del cui talento non si può dubitare, indipendentemente dai gusti personali e con buona pace di chi ancora pensa che in Inghilterra e dintorni non sappiano concludere un “ciak”.
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Gli albori
. Tralasciando volutamente le diatribe intorno alla paternità del cinema, che vedono impegnate Stati Uniti (T. Edison e W. Dickson), Germania (M. Skladanowsky), Francia (fratelli Lumière), e la stessa Inghilterra (E. J. Muybridge, E. J Marey, W. Friese Greene), è utile ricordare che la prima proiezione commerciale (Oxford contro Cambridge sul Tamigi), girata e proiettata dal britannico R. W. Paul con strumenti autoctoni, ebbe luogo il 25 marzo 1896 al music-hall Alhambra di Londra.
In pochi anni, non solo nel Regno Unito, il perfezionamento tecnico delle macchine da presa, e dei proiettori, trasformano una passione pionieristica giocata a colpi di brevetto, in una categoria merceologica che oggi chiamiamo industria cinematografica. Ricostruire l’intero arco storico del cinema britannico è impossibile in questa sede e non ne sarei nemmeno capace: mi limiterò a considerare qualche momento chiave che ha conferito alla filmografia inglese la morfologia che oggi riconosciamo; e a proporre rapide schede su alcuni cineasti che hanno cambiato gli orizzonti della cinematografia in generale.
Salvato da Rover
Le prime società che investono denaro nella produzione di film in Inghilterra, sono in realtà francesi e americane: nel 1898 Léon Gaumont, che cura gli interessi dei fratelli Lumière, crea la Gaumont British, la cui filiale completamente inglese reca come data di nascita il 1901; sempre nel 1898, Charles Urban, rappresentante americano di T. Edison, crea la Warwick Trading Company, società dalla quale prenderanno forma, negli anni a venire, altre imprese di produzione interamente britanniche. È il caso del cineasta Cecil Hepworth (1874 – 1953), che, a partire dal 1902, lavora per la Warwick Trading Company di Urban, fino a diventare egli stesso proprietario di uno studio, Walton-on-Thames, nel 1905.
In questo contesto Hepworth autografa come produttore il suo primo successo, Rescued by Rover (“Salvato da Rover”, 1905), una pellicola della durata di 12 minuti in cui Rover, un cane parecchio in gamba, risolve il rapimento di un neonato avvenuto poco prima. Sono moltissimi i titoli che Hepworth firma negli anni a venire, sia come regista che come investitore, che lo rendono tra i personaggi più brillanti del cinema d’oltremanica dei primi decenni.
Altri protagonisti importanti del periodo sono William Haggar (1851 – 1924), regista che nel 1905 ottiene un successo strepitoso con The Salmon Poachers (“I bracconieri del salmone”), soprattutto grazie ad una scena d’inseguimento di buona fattura tecnica; W. George Barker (1875 – 1973), cineasta e produttore noto per l’ambizione dei suoi progetti: Sixty Years a Queen (“Regina per sessant’anni”, 1913) è un lungometraggio di tre ore, forse il primo della storia del cinema inglese a toccare i 180 minuti.
Da notare che tra il 1907-1908, l’esercizio cinematografico subisce una trasformazione irreversibile. Se fino a quel momento, le proiezioni, erano relegate alle sale presenti nelle music-hall, ora vengono allestiti luoghi specifici, i cinema, dove il pubblico può comodamente seguire più film nella stessa giornata.
Questa prospettiva sconvolge il mercato, perché si passa dalla vendita dei film, al loro noleggio nelle sale, creando così il circuito della distribuzione, dove più luoghi possono trasmettere lo stesso prodotto. I dati dimostrano che alla vigilia della Grande Guerra si contano in Inghilterra più di cento distributori, e più di tremila sale cinematografiche. (cfr. P. Pilard, Storia del cinema britannico, Lindau, Torino, 1998, pag. 22).
La Quota Act
Come tutte le industrie, e quella del cinema non fa eccezione, il momento di crisi da affrontare arriva sempre. Negli anni venti, disaffezione del pubblico, difficoltà finanziarie, crisi artistica, riducono le case di produzione inglesi in condizioni allarmanti, tanto da richiedere l’intervento del governo.
Nel 1927, il parlamento, elabora una legge denominata Quota Act, che regola il noleggio dei film e obbliga, distributori ed esercenti, a presentare nelle sale un numero minimo di film autoctoni. In pratica, ogni sala, deve noleggiare un intero pacchetto di film la cui maggioranza è britannica, per ottenerne due o tre straniere di sua scelta (per esempio un pacchetto di otto film può prevedere cinque pellicole indigene, una italiana o francese, due americane).
Il senso della legge è molto semplice in quanto distributori ed esercenti si arricchiscono con pellicole di alta qualità straniere senza preoccuparsi delle sorti del cinema nazionale. La quota di stato, li obbliga a versare parte dei profitti nella produzione britannica e, grazie a queste disposizioni legali, nuove maestranze hanno potuto esprimere le proprie capacità, come i cineasti M. Powell, regista dalla sconfinata filmografia, che annovera tra i suoi film più importanti Duello a Berlino (1943) e Scarpette rosse (1948); oppure C. Reed, il quale, con Oliver! (1969) vince sei premi Oscar tra cui la miglior regia, e firma tantissimi altri successi.
Differenti, ma entrambi speciali
A beneficiare della Quota Act, che nel 1938 viene ribadita e ampliata, ci sono due colonne del cinema mondiale, oltre che inglese. Il primo è John Grierson, già citato nella premessa, che è una delle personalità più influenti del settore, considerato il padre del documentario anglosassone e di pellicole con intento pedagogico. Nato in Scozia, si trasferisce negli Stati Uniti intorno ai vent’anni, dove conosce l’intero establishment del cinema americano (molti sceneggiatori, attori, registi, gli sono amici).
Tornato nel Regno Unito nel 1927, comincia una cavalcata che lo vedrà protagonista in tutti i settori dell’industria cinematografica: regista, produttore, distributore, è anche il creatore di un “servizio” incaricato della promozione dello spirito british e del made in Britain in generale.
Agli antipodi dell’universo documentaristico si trova Alfred Hitchcock (1899 – 1980), forse l’unico cineasta inglese che già agli esordi suscita l’interesse di pubblico, critici, e anche dei colleghi. Impossibile anche solo pensare di ricostruire la biofilmografia del “re del brivido”, ma, vale la pena, evidenziarne l’abilità nel catturare l’attenzione dello spettatore, mescolando realismo e inverosimile, umorismo, senso dell’angoscia e rapidità nell’innalzare la tensione scenica a partire da una situazione quotidiana.
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Il secondo dopoguerra
.La mobilitazione per la Seconda Guerra Mondiale provoca, in tutto il globo, una contrazione robusta degli investimenti dedicati all’industria del cinema. Nel periodo bellico è l’orientamento propagandistico a segnare il passo, cioè, vengono commissionati film il cui scopo è documentare l’orrore della guerra, ma anche sollecitare l’orgoglio nazionale. Non è un caso che l’intero comparto passi sotto la tutela del Ministero delle Comunicazioni, affinché anche la “settima arte” fornisca il proprio contributo allo sforzo contro il nazi-fascismo. Così come in Italia, la seconda metà degli anni quaranta, rappresenta per il cinema britannico un periodo di effervescenza artistica straordinaria: le persone hanno voglia di riempire le sale, tornare a sognare e dimenticare le sofferenze del recente passato.
Sarà il Festival del Cinema di Cannes, nel 1946, ad evidenziare questo processo, premiando, quale vincitore della rassegna, Breve incontro, di David Lean. Nel giro di pochi anni, vengono prodotti in Inghilterra ottimi film, e ciò entro generi assai diversi tra loro: adattamenti teatrali e letterari, polizieschi, film fantastici e umoristici, drammi sentimentali, tragedie, rispondono perfettamente ai gusti del pubblico, conquistandosi una fetta non trascurabile dell’intero mercato britannico e non solo.
Riguardo David Lean non possiamo omettere di citare produzioni quali Oliver Twist (1948), in cui compare per la prima volta come attore cinematografico Alec Guinnes; Il ponte sul fiume Kwai (1957), nel quale recitano, insieme a Guinnes, William Golden e Jack Hawkins; Lawrence d’Arabia (1962), con Peter O’Toole e Omar Sharif, oltre al feticcio Guinnes; Il dottor Zivago (1965), con Sharif e Julie Christie.
Altro mostro sacro, contemporaneo di Lean, è Laurence Olivier (1907 – 1989), il quale, nel dopoguerra, ha già una carriera di tutto rispetto sia al cinema che in teatro. Indimenticabili sono le performance, sia come regista che interprete, del quasi intero repertorio shakespeariano, da Amleto (1948) da lui diretto e recitato, a Otello (1965), con la grandissima Maggie Smith nella parte di Desdemona. Nel 1979 riceve un Oscar speciale alla carriera, con il rammarico, prima della morte, di non aver realizzato per il cinema una versione di Re Lear, costruita invece per la televisione e, ovviamente, per la scena. .
Un concorrente pericoloso
Dopo le vampate creative del primo dopoguerra, il cinema britannico tende a chiudersi in schemi precostituiti, dove prevalgono film sicuramente ben girati, ma disinteressati a pungolare lo spettatore. Vengono prodotte pellicole “piccolo-borghesi”, nelle quali a primeggiare sono il rispetto per la gerarchia, dei valori inglesi che li hanno portati a vincere il secondo conflitto mondiale, un progresso sociale moderato e passioni edulcorate.
A causa di questa ripetitività, l’affluenza nelle sale cala costantemente e, soprattutto, si affaccia all’orizzonte un concorrente destinato a diventare padrone assoluto del tempo libero nei decenni successivi: la televisione. Dal 1949 al 1969, gli incassi settimanali passano da 27,5 milioni di sterline a 10 milioni; il numero di cinema da 4600 a 3600 (cfr. P Pilard, Breve storia del cinema britannico, Lindau, Torino, 1998, pag. 81).
Una delle poche eccezioni è rappresentata dal cinema fantastico: gli studi Hammer, sotto la direzione di James Carreras, producono film ispirati alla tradizione del romanzo gotico, i quali, troveranno estimatori, oltre che in patria, anche negli Stati Uniti e in Francia. Tra l’altro, il filone gotico-fantascientifico, dagli anni cinquanta in poi, non ha mai esaurito la propria propulsione, trovando spazio sia nel contesto creativo degli studi cinematografici, che in quello della televisione. Doctor Who, per esempio, è una serie televisiva britannica di fantascienza prodotta da BBC, andata in onda senza interruzioni dal 1963 al 1989, dopodiché, nel 1996, è ricomparso come film per la TV, ed infine, dal 2005, di nuovo in produzione e trasmesso in tutto il mondo.
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Free Cinema
Nel febbraio del 1956, il National Film Theatre di Londra presenta un programma intitolato Free Cinema, composto da tre cortometraggi: O paese dei sogni di Lindsay Anderson (1953), Mamma non permettere di Karel Reisz e Tony Richardson (1955) e Insieme di Lorenza Mazzetti (1953). L’espressione “Cinema Libero”, grazie al successo suscitato, rimane un’esperienza tatuata nella storia del cinema britannico. Ma di cosa si tratta? Durante le prime proiezioni di Free Cinema circolano volantini in cui si cerca di spiegare l’intento di questi cineasti:
Questi film sono “liberi” nel senso che le loro affermazioni sono del tutto personali… Nessun film è troppo personale… La maggior parte di questi film è stata prodotta al di fuori del quadro dell’industria cinematografica. Ciò vuol dire che i registi hanno potuto esprimere il proprio punto di vista, talvolta insolito, senza l’obbligo di sottoscrivere le convenzioni tecniche o sociali generalmente imposte alle opere commerciali. (cfr. P Pilard, Op. cit. , pag. 85).
La linea di questi registi è piuttosto chiara: stufi della calma piatta imposta dai produttori negli studi, sviluppano una denuncia contro il convenzionale e l’incolore, riprendendosi il diritto, in quanto artisti, di riflettere con le loro opere i reali legami tra arte e società, inventandone, dove possibile, di nuovi. Dunque, un girato, che non vuole essere riproduzione di norme imoposte dall’alto, all’interno delle quali tutto funziona come un orologio svizzero, bensì di una quotidianità cosciente della propria importanza, soprattutto quando è dislocata al di fuori dei canoni aristocratici reputati idonei.
Ora, come spesso accade nei fenomeni di questo tipo è difficile stabilirne con certezza i confini, le adesioni, l’influenza sulle nuove generazioni o l’esatta portata nel tempo, ma, con una certa sicurezza, si può affermare che i nuovi autori hanno espresso la volontà, con le loro pellicole, di far emergere una realtà extra cittadina, che include le diversità di tradizioni di tutta l’Inghilterra, con un vocabolario che non sarà più il Queen’s English”, tipico di Oxford, di Cambridge e della BBC, ma con accenti dialettali e inflessioni di cui il Neorealismo italiano è caposcuola. Sono i personaggi del popolo a divenire protagonisti, molti dei quali, rifiutano ogni forma di cooperazione con l’establishment, che considerano un nemico irriducibile.
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Swinging London
Durante gli anni sessanta, molti registi e, in generale, artisti, si trasferiscono in Gran Bretagna, richiamati dal mito della “Londra dondolante”, in cui la moda (la minigonna di Mary Quant), la musica pop (divisa tra Beatles, Rolling Stones, Eric Clapton, Van Morrison, etc.) la fotografia e il cinema, godono di una libertà mai avuta prima: dopo il razionamento imposto dai governi britannici nel decennio precedente, l’economia inglese si spalanca verso l’alto, favorendo il consumo e assecondando il ribellismo giovanile.
Per quanto concerne il nostro discorso, dobbiamo segnalare l’arrivo in territorio anglosassone dell’americano Richard Lester, il quale, con un’intuizione geniale, inventa uno stile di film ritmato dalla musica che possiamo definire progenitore del “videoclip” (in Tutti per uno del 1964, riprende i Beatles), che tanto successo avrà tra i giovani.
Ma il calibro di chi sceglie Londra per costruire le proprie pellicole è impressionante, a partire da Michelangelo Antonioni, che nel 1966 gira Blow-up; nello stesso anno Roman Polanski termina Cul de sac, mentre, dodici mesi prima, aveva realizzato Repulsion; persino Truffaut, nel 1966, porta a compimento sul suolo inglese la sua versione di Fahrenheit 451, con Julie Christie, Oskar Werner, Cyril Cusack.
Un vivaio di nuovi talenti
Grazie agli anni sessanta, alla boccata d’aria del Free Cinema e ad una volontà di innovare il piccolo schermo, il cinema britannico risorge a nuova vita. In seno alla televisione si formano, o si confermano, una serie di cineasti destinati ad un notevole futuro, come John Schlesinger, John Mackenzie, Ken Russel, Ken Loach, Peter Watkins, Jack Gold, e più tardi Stephen Frears, Mike Leight, e tanti altri. Seguire le vicende di tutti non è proponibile, per cui, mi limiterò a evidenziare sommariamente il percorso di Schlesinger e Loach, rimandando alla curiosità di chi legge, tranne Frears, di cui ci occuperemo più avanti, l’approfondimento degli altri.
Schlesinger viene reclutato dalla BBC nel 1961, dove si mette in evidenza girando un cortometraggio Terminus che riceve numerosi premi, in particolar modo a Venezia. Nel ’62 ultima il suo primo lungometraggio Una maniera d’amare da cui parte una carriera che, in meno di un decennio, lo porta a vincere il premio Oscar grazie a Un uomo da marciapiede (1969), con Dustin Hoffman e Jon Voight.
Del 1971 è Domenica, maledetta domenica, mentre Il maratoneta, sempre con Hoffman, è del 1976. Chiudo la brevissima carrellata citando Uno sconosciuto alla porta (1990) e Sai che c’è di nuovo? (2000) con Madonna e Rupert Everett.
Formatosi interamente in TV, Ken Loach, sbalordisce i connazionali con il docu-film Torna a casa Cathy (1966), storia di una famiglia caduta in rovina a causa di un incidente, e alla quale tolgono la figlia in tutta tranquillità.
Ma è grazie al cinema che Loach raggiunge la notorietà internazionale: a Cannes vince per due volte il Premio della giuria: nel 1990 con L’agenda nascosta e nel 1993 con Piovono pietre. Nel 2006 e nel 2016 vince la rassegna sulla Croisette con le pellicole Il vento che accarezza l’erba e Io, Daniel Black. Da aggiungere il Leone d’oro alla carriera a Venezia nel 1994, e l’Orso d’oro alla carriera a Berlino nel 2014.
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Un inglese particolare
Tra i tanti che negli sessanta si trasferiscono in Gran Bretagna c’è un regista che, nel 1999, muore naturalizzato inglese; S. Kubrick. Nato a New York, dopo film importanti come Orizzonti di gloria (1957) decide di proseguire la propria carriera di cineasta in Inghilterra, dove, nel 1962, dà alle sale Lolita, trasposizione del romanzo di Nabokov.
Eyes Wide Shut (1999), è l’ultimo dei suoi lavori filmati in territorio anglosassone. Maniaco della perfezione (J. Nicholson, nel 1980, uscì sfinito da Shining), assoluto padrone di ogni fase della realizzazione dei propri film (uno dei motivi per cui andò via dagli States fu l’invadenza dei produttori) che spesso sceneggia, gira e monta lui stesso, Kubrick ama giocare sulle ossessioni, sui meccanismi ludici, sulle simmetrie perfette.
Pochi registi al mondo hanno raggiunto una sintesi estetica paragonabile alla sua, dove ogni singola componente scenica, musicale, architettonica, letteraria, ecc., rimanda alle altre in un gioco che si approssima alla figura geometrica del cerchio, dove il centro, è rappresentato dal suo immaginario visivo.
Gli anni settanta
Schiacciato da una televisione in buona salute e da un cinema americano ormai onnipotente in tutto il globo, l’universo di celluloide britannico mostra scricchiolii preoccupanti. Eppure, nonostante la contrazione dei mercati dovuta alla crisi petrolifera, alla Guerra Fredda e al Vietnam, il decennio in questione propone capolavori da cineteca, con registi destinati a far parlare di sé in tutto il mondo.
Fanno la loro comparsa Tony e Ridley Scott, le cui carriere cominciano in televisione grazie agli spot pubblicitari. L’esordio alla regia su grande schermo per Ridley, il fratello maggiore, è datato 1976, con I Duellanti, singolare adattamento di un racconto di J. Conrad in cui sono già leggibili le sue capacità nella composizione cromatica dell’immagine.
La fama internazionale giunge con Alien (1979) e Blade- Runner (1982), pellicole nelle quali R. Scott sposa l’horror, la fantascienza e il noir, riformandone di sana pianta i codici di genere. Tony si specializza invece nell’action movie firmando pellicole di successo che vanno da Top Gun (1986) a Spy Game (2001).
Vincitore di molti premi cinematografici presenti sul pianeta è Richard Attenborough (1933 – 2014), attore, sceneggiatore, produttore, che solo negli anni settanta decide di oltrepassare la macchina da presa e diventare anche regista, autografando capolavori del calibro di Gandhi (1982), Chorus Line (1985), Viaggio in Inghilterra (1993) solo per citare le pellicole più importanti.
Contemporaneo ai già citati è il debutto di Alan Parker, nel 1976 con Piccoli gangsters a cui segue, due anni dopo, Fuga di mezzanotte, storia di un ragazzo americano incarcerato dalla polizia turca che diventa subito un classico del genere.
Nel 1982 firma The Wall, trasposizione cinematografica del concept album dei Pink Floyd prodotto nel 1979, assoluta novità nel panorama cine-musicale dell’epoca, che suscita non poche discussioni. Alla vostra curiosità scoprire altre pellicole di Parker, del quale, segnalo, Mississippi Burning – Le radici dell’odio (1988) ed Evita (1996), musical che vede nella cantante Madonna la vera mattatrice.
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Gli indipendenti .
A partire dalla seconda metà degli anni settanta fanno il loro ingresso sulla scena cinematografica britannica, una serie di cineasti il cui percorso creativo si discosta da quanto visto finora. Peter Greenaway è il massimo rappresentante di questi autori eclettici e occupa un ruolo fondamentale nel dibattito contemporaneo sul cinema d’autore.
Pittore, studioso di architettura, videoartista, regista cinematografico d’avanguardia, pone il suo fare cinema sul confine tra le diverse discipline, ottenendo un risultato, salvo rare eccezioni, che appare formalmente raffinato e suggestivo, con continui riferimenti colti alla storia dell’arte, che diventa lo spazio logico su cui si gioca il rapporto tra realtà e illusione: penso che nessun giovane cineasta agli inizi dovrebbe avere il permesso di usare una macchina da presa o una videocamera senza avere prima frequentato tre anni di una scuola d’arte. (cfr. D. De Gaetano, Peter Greenaway: film, video, istallazioni, Lindau, Torino, 2008, pag, 78).
Si fa notare con alcuni cortometraggi fuori dal comune, per esempio Windows (1975), ma è coi film più lunghi che inizia ad imporsi. Nel 1980 Le cascate viene premiato al Festival di Berlino; nel 1982 Greenaway gira I misteri del giardino di Compton House pellicola che lo proietta dentro lo scenario internazionale che, dal quel momento, ha saputo mantenere come pochi altri.
Con Giochi nell’acqua (1987), film dai bizzarri esercizi virtuosistici, vince il Festival del Cinema di Cannes, mentre è del 1999 l’omaggio a Federico Fellini, 8 donne e ½, dove il protagonista, un vedovo, viene consolato da nove donne, una delle quali, disabile senza gambe, rappresenta il ½ del titolo.
Da segnalare Nightwatching, del 2007 (vincitore sia del Premio Fondazione Mimmo Rotella, che del Premio d’Apertura, a Venezia) nel quale ripercorre la vita del pittore Rembrandt, e dove porta a compimento definitivo la sua ricerca sull’immaginario visivo barocco.
Malgrado il successo e l’apprezzamento internazionale, Greenaway rimane un personaggio poco amato in Gran Bretagna, probabilmente a causa del suo gusto di forzare i codici narrativi fino a disintegrarli, cosa che non pone al riparo da grandi malintesi. Del resto, lo stesso programma del regista è ardito: al cineasta, la stessa libertà del pittore! Programma che per alcuni, è esattamente agli antipodi di ciò che dovrebbe essere il cinema.
Sul finire del vecchio millennio
I decenni ottanta e novanta sono quelli che hanno dato al cinema britannico le maggiori soddisfazioni: Hugh Hudson, nel 1982, porta Momenti di gloria a vincere quattro statuette a Los Angeles; Roland Joffé, regista nato a Kensington, ma di origine francese, offre al pubblico una serie di pellicole dal valore assoluto, come Urla nel silenzio (1984), cruda descrizione del calvario cambogiano nei primi anni settanta, che vale tre Oscar e Mission (1986) le cui musiche sono affidate a Morricone e che gli permette di portare in patria la Palma d’oro a Cannes e un Oscar alla fotografia.
Passaggio in India (1985) è invece l’ultimo, bellissimo film di David Lean, ispirato al romanzo di E. M. Forster, al quale attribuiscono due Oscar e tre Golden Globe. Occorre poi citare Un pesce di nome Wanda, di Charles Crichton, del 1988 (inserito al 39° posto dei film britannici più significativi) che fa vincere a Kevin Kline il suo Oscar, oltre a diversi premi in giro per il mondo, Italia compresa. Come ultimo esempio, di una lista piuttosto lunga, segnalo La pazzia di Re Giorgio del 1994, di cui ho parlato nella scheda dedicata al film Gli studenti di Storia.
Ora, se consideriamo anche le produzioni internazionali in cui investitori, sceneggiatori, registi anglosassoni, hanno dato il loro contributo, la sequenza diviene addirittura abbagliante: L’ultimo imperatore (1988, Bernardo Bertolucci, nove statuette!); Le relazioni pericolose (1988, Stephen Frears, tre Oscar); Il mio piede sinistro (1989, Jim Sheridan, due Oscar); Casa Howard (1992, James Ivory, tre Oscar, un Nastro d’Argento, un David di Donatello, e molto altro); Il paziente inglese (1996, Anthony Minghella, nove statuette!).
Del resto, le produzioni internazionali di fine millennio, anticipano una tendenza che si rafforzerà negli anni 2000; il fenomeno della globalizzazione, tra le tante, favorisce la commistione cinematografica, la quale, quando possibile, mischia competenze e maestranze tra le più disparate.
Oggi, non è per nulla difficile trovare pellicole co-prodotte da tre, quattro paesi differenti, soprattutto quando in patria c’è penuria d’investimenti. Un esempio su tutti è The Happy Prince, che vede la partecipazione economica di Francia, Italia, Stati Uniti, Gran Bretagna, segno che le diverse “storie” del cinema, avranno sempre di più i confini labili, probabilmente fino a sparire del tutto tra qualche lustro, quando si parlerà solo di “Cinema”.
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Il cinema etnico
Il nuovo millennio vede dunque rafforzarsi la tendenza alla collaborazione internazionale, grazie alla quale vengono portate su grande schermo saghe dall’incasso economico impressionante. La più importante è sicuramente quella di Harry Potter, cominciata nel 2001 con Harry Potter e la pietra filosofale e terminata dieci anni dopo con Harry Potter e i doni della morte – Parte 2. Malgrado sia stata realizzata con l’appoggio statunitense, la matrice della saga è interamente britannica, a partire dal riferimento letterario da cui è tratta (i romanzi di J. K. Rowling).
Non mancano, naturalmente, nuovi cineasti inglesi che ereditano l’enorme mole filmografica sin qui sintetizzata: Danny Boyle, per esempio, dopo aver pietrificato gli spettatori con Traispotting (1996), nel 2000 ultima The Beach, probabilmente la pellicola più criticata d’inizio secolo e, nel 2008, si riprende la scena dando alle sale The Millionaire, storia di un ragazzo musulmano cresciuto nelle baraccopoli indiane che riesce a diventare ricco grazie ad un quiz televisivo.
Il lungometraggio, candidato a nove premi Oscar, ne vince otto, tra cui la miglior regia. In effetti The Millionaire è rappresentativo di una tendenza del cinema britannico cominciata a metà degli anni ottanta, in cui, i protagonisti dei film, appartengono alle cosiddette minoranze etniche. Nel 1999 viene girato East is East, di Damien O’Donnel, dove viene sottolineata la difficoltà di un padre pakistano a imporre le proprie tradizioni ai figli nati in Inghilterra. Del 2002 è Sognando Beckham di Gurinder Chada, storia di una ragazza indo-britannica che sogna di diventare una campionessa del calcio femminile, ipotesi fortemente osteggiata dalla famiglia.
La necessità di chiudere impone solo pochi altri suggerimenti: il regista Stephen Daldry esordisce nel 2000 firmando il commuovente Billy Elliot; mentre ispirato alla vita e all’opera della scrittrice inglese Virginia Woolf è The Hours (2002); mentre The Reader (2008) racconta la complessa storia d’amore tra un adolescente e una donna molto più matura di lui (tripletta candidata all’Oscar!).
Delego alla curiosità di chi legge le carriere di Kenneth Branagh, del quale segnalo Molto rumore per nulla (1993), e Dunkirk (2017): quest’ultimo, vede dietro la macchina da presa Christopher Nolan, cineasta che nel 2010 dà alle sale Inception, pellicola non distante dal miliardo di dollari d’incasso. Concludo, con L’ora più lunga (2017, Joe Wright), film che regala a Gary Oldman, nei panni di W. Churchill all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, il meritato Oscar.
E il cinema LGBT?
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Rispetto ad altre nazioni, tra cui l’Italia, Germania, Stati Uniti, l’ingresso di personaggi LGBT nelle sceneggiature inglesi per il cinema è piuttosto tardivo. I primi film britannici, in cui sono rappresentati omosessuali risalgono al 1961 con Victime Sapore di miele, diretto da Tony Richardson (già segnalato come esponente del Free Cinema).
Al di là delle diverse forme di censura cinematografica che ciascun paese ha adottato nel corso della propria storia, nel Regno Unito è della Buggery Act a determinare l’esclusione di lesbiche, gay, trans dal grande schermo. Le pellicole riconducibili alla tematica LGBT, fino al 1967, data della cancellazione della legge contro la sodomia, sono infatti solo quattro.
Le altre due che si aggiungono a quelle appena citate sono: La stanza a forma di L (1962) di Bryan Forbes (film poco conosciuto in cui viene descritta la velata omosessualità di uno dei personaggi principali) e Il servo (1963) di Joseph Losey, tratto da una sceneggiatura di Harold Pinter, che vede come protagonista Dirk Bogart, già ammirato in Victim.
Due ottimi lungometraggi chiudono comunque gli anni sessanta: L’assassino di Sister George (1968) di Robert Aldrich, prima storia lesbica del cinema british dove, l’amore tra due donne viene restituito come dato di fatto, e non come ipotesi (realtà che, nel ’68, crea non pochi problemi alla critica); Donne in amore (1969) di Ken Russell, pellicola tratta da un romanzo di D. H. Lawrence, in cui si manifestano le diverse sfaccettature dell’amore, compreso quello declinato al maschile. Famosa la scena (presente peraltro anche nel romanzo di Lawrence) in cui Rupert (Alan Bates) e Gerald (Oliver Reed), lottano nudi davanti al caminetto acceso.
Ora, se è vero, come sottolineato prima, che il cinema d’oltremanica arriva in ritardo a rappresentare personaggi della nostra comunità, è altrettanto utile ricordare che ciò ha preservato la filmografia LGBT inglese da un certo numero di pellicole omofobe, dove il “frocio” è la femminuccia di turno, buono per fare il parrucchiere per signora, oppure un cinico milionario che usa il suo potere per circuire uomini, cosa che avviene, puntualmente in Italia, a partire dal 1945 (si veda a questo proposito la scheda sull’omosessualità nel cinema italiano degli anni cinquanta).
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Gli anni settanta
Due grandissimi registi aprono il decennio, trattando tematiche LGBT: Ken Russell, che torna ad affrontare l’argomento dopo Donne in amore; e John Schlesinger, gay dichiarato, già premio Oscar nel 1969 con Un uomo da marciapiede. Russell, con L’altra faccia dell’amore (1971), propone una personale visione della vita del musicista Čaikovskij, in cui l’omosessualità, diventa il fuoco attorno al quale orbitano fallimenti e successi del grande compositore, fino al tragico epilogo del suicidio, letto anche come incapacità di amare le donne.
Sempre nel 1971, Schlesinger firma Domenica, maledetta domenica, unanimemente considerata tra le pellicole gay più importanti del cinema inglese. Più che la trama, facilmente reperibile online, è interessante sottolineare, in questo contesto, come nel personaggio di Daniel (Peter Finch), medico ebreo cinquantenne, non ci sia nessuna rinuncia moralistica a un desiderio di felicità che può nascere solo da un rapporto significativo con un uomo.
Nessun vittimismo dunque, ma la consapevolezza che l’amore colma qualsiasi vuoto, etero, omo, bisessuale che sia. Schlesinger, con un tono poetico e introspettivo, porta Finch ad una candidatura all’Oscar come miglior attore protagonista: la prima per un ruolo gay.
Nel 1975 è la televisione a commissionare Il funzionario nudo un film biografico basato sulla vita di Quentin Crisp, icona gay negli anni settanta, che punta il dito contro l’ipocrisia vittoriana degli anni trenta e che descrive un protagonista che, stanco dell’intolleranza diffusa, decide di vivere senza mediazioni sociali e si guadagna lentamente la fiducia di tutti.
L’anno successivo (siamo nel 1976) entra in scena Derek Jarman (si veda la scheda che gli abbiamo dedicato in occasione della proiezione di Edoardo II) con Sebastiane, lungometraggio storico agiografico recitato in latino, che dispensa scene omoerotiche senza precedenti nella filmografia LGBT inglese. Fa dunque il suo ingresso il cinema indipendente di militanza, che vede in Jarman, il massimo propugnatore.
Concludo il decennio segnalando Nighthawks (1978) di Ron Peck e Paul Hallam: uno dei film più belli e più amati dal pubblico nella storia del cinema anglosassone a tematica gay. Molti i rifiuti per produrre l’opera, che vede la luce solo grazie ai registi Schlesinger e Gold, allo scrittore gay Robin Maughan e all’intervento della televisione tedesca ZDF. Perché tanta titubanza?
La vicenda narra le sorti di un insegnante londinese il quale, mentre di giorno adempie alla perfezione al suo ruolo, di notte gira per locali gay in cerca di un fidanzato.
Stanco della doppia vita decide di percorrere la via della visibilità, dichiarando il proprio orientamento sessuale, prima ad una collega sua amica, poi all’intero corpo docenti, infine ai suoi alunni. In classe nasce un dialogo profondo tra studenti e professore, che a sua volta accetta di rispondere a tutte le perplessità dei ragazzi.
A rischio di licenziamento per questo, l’insegnante si difende, rimbalzando sul preside la responsabilità di non parlare di omosessualità nella propria scuola ed estendendo questa accusa a tutte le scuole.
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Gli anni ottanta
Victoria Grant (Julie Andrews), una cantante squattrinata che si muove nella Parigi degli anni trenta, su suggerimento dell’amico gay Toddy (Robert Preston), si traveste da Victor per avere successo nel mondo dello spettacolo.
In un lampo Victor/Victoria diventa indiscussa celebrità del cabaret, situazione che solo l’amore per King (James Garner) saprà spezzare. Commedia molto vicina al musical, Victor Victoria di Blake Edwards (1982), remake di un film tedesco del 1933, cattura lo spettatore grazie ad una sceneggiatura spumeggiante ed ironica, che regge alla grande l’universo delle ambiguità su cui il film si sviluppa.
Nel 1983 arriva nelle sale Furyo, co-prodotto da Gran Bretagna, Nuova Zelanda e Giappone, che vede dietro la macchina da presa Nagisa Oshima, uno dei cineasti giapponesi più importanti di sempre. Film complesso, ruota attorno alle figure del maggiore britannico Jack Celliers (David Bowie), prigioniero in un campo di concentramento nipponico situato sull’isola di Giava; e del capitano Yonoi (Ryuichi Sakamoto), comandante del campo, che rimane fulminato e irretito dalla bellezza marziana di Celliers.
Le due culture si scontrano su più livelli, al centro dei quali, Oshima posiziona il suo pensiero sull’assurdità della guerra, sulla violenza della natura umana, e sulle finte ragioni che inducono sempre a combattere. Si tratta di un film dalla composizione cromatica affascinante di cui consiglio senz’altro la visione.
Ispirato alla vita di Guy Bennet, ex spia britannica al servizio del KGB, è Another Country – La Scelta di Marek Kanievska (1984) nel quale si ricostruisce il microcosmo dei college inglesi, dominati dall’ipocrisia e dal rispetto di desuete tradizioni.
L’omosessualità, praticata da tutti in segreto, diventa strumento di delazione e ricatto, a motivo del quale Guy sceglie di odiare il proprio paese fino a tradirlo politicamente. Con questo film inizia la carriera di due pesi massimi del cinema anglosassone: Rupert Everett e Colin Firth.
Tralasciando My Beautiful Laundrette di Stephen Frears (1985) a cui è dedicata un’apposita scheda, si approda al 1986, anno in cui D. Jarman raggiunge la celebrità internazionale con Caravaggio, film che vince l’Orso a Berlino per una fotografia che ripercorre fedelmente lo spazio cromatico caravaggesco (che comprende anche la passione erotica per i ragazzi) fatto di fondali scuri, contrasti luci/ombre, uno spettro visibile che si esprime tra il rosso, il ruggine e il marrone.
Il 1987 è un anno davvero importante, in quanto trovano spazio nelle sale e in televisione tre pellicole fondamentali: Maurice (tratto dal romanzo di Forster di cui abbiamo parlato nella scheda dedicata a The Happy Prince), diretto da James Ivory, celebra il lieto fine tra Alec, aiutante guardiacaccia della casa di campagna di Clive (Hugh Grant) e Maurice (James Wilby), i quali, in barba ad ogni possibile convenzione sociale e morale, decidono di vivere con serenità la loro storia d’amore; Prick Up – L’importanza di essere Joe (Stephen Frears), che narra l’ascesa letteraria di Joe Orton, troncata dall’omicidio/suicidio da parte del proprio compagno Kenneth, frustrato dal successo inaspettato di Joe (cast eccezionale con Gary Oldman nella parte di Joe, Alfred Molina nei panni di Kenneth e Vanessa Redgrave nell’agente di Joe); Two uf us (Roger Tonge), film prodotto per la televisione britannica a scopo educativo e destinato ad adolescenti e giovani adulti la cui trasmissione venne bloccata in orario diurno a causa della “Clausola 28” thatcheriana (solo nel 1990 si permette alla BBC di trasmetterlo in ore più consone).
Rispetto alle due precedenti, il lungometraggio, non ha pretese artistiche: si snoda soprattutto sulle difficoltà che un ragazzo omosessuale incontra nel destreggiarsi tra il bullismo scolastico e una famiglia completamente digiuna di orientamenti sessuali diversi dal precostituito. La sua importanza va dunque inserita in un progetto educativo antidiscriminatorio, per nulla scontato in un contesto anglosassone di fine anni ottanta, quando quella che veniva additata come “la propaganda LGBT”, veniva ostacolata in tutti i modi.
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Verso il nuovo millennio
Come accade in molti paesi del mondo occidentale l’approssimarsi del nuovo millennio coincide con le prime aperture socio-politiche nei confronti della comunità LGBT. Una sensibilità diversa, rispetto alle nostre rivendicazioni, e alcuni coming out da parte di investitori, attori, registi, diventano un fattore moltiplicativo non trascurabile per quanto concerne la produzione di film che parlano di omosessualità e di transessualità.
Il Regno Unito non si affranca da questo processo a seguito del quale il numero di pellicole in cui appaiono lesbiche e gay, diventa robusto. Non resta, per questioni di spazio, che elencare sommariamente i film più significativi, confidando, per l’approfondimento, nella pazienza di chi legge.
Nel 1992 escono: Orlando di Sally Potter, commedia brillante in cui il protagonista, per volere della regina Elisabetta I, naviga tra i secoli cambiando anche sesso; Il lungo giorno finisce, autobiografia dell’infanzia e adolescenza del regista gay Terence Davis, che non fa mistero, in alcune interviste, di odiare l’orgoglio LGBT e se stesso; La moglie del soldato di Neil Jordan, successo planetario in cui si intrecciano un piano strettamente politico, ed uno erotico, uniti da una ambiguità capace di ammantare entrambe le dimensioni.
Toccato da un significativo incasso al botteghino è Quattro matrimoni e un funerale di Mike Newell (1994), dove la relazione d’amore tra Gareth, che muore a metà film, e Matthew, appare la più significativa dell’intera vicenda, mossa da una sequela di matrimoni e di altrettanti divorzi. Dello stesso anno è Il prete, dove la regista Antonia Bird, avvalendosi di un cast di tutto rispetto, inscena i sensi di colpa di un giovane sacerdote, tra impulsi omosessuali e una fede autentica, in un contesto di conservatorismo nauseante.
Segue nel 1996 Beautiful thing, diretto da Hettie MacDonald, la cui trama ruota attorno all’amore tra due adolescenti cresciuti nella periferia sud-est di Londra. Raro caso di esperienza televisiva che, visto il successo viene riconfezionata per il cinema, è Mrs Dalloway (1997) girato da Marleen Gorris che inserisce tra i ricordi rievocati dalla protagonista anche una passione lesbica. Sempre del 1997 sono: Bent di Sean Mathias, che racconta la storia d’amore tra Max e Horst dentro il campo di concentramento di Dachau; e Wilde, diretto da Brian Gilbert, in cui si narra l’ascesa e il declino dello scrittore irlandese.
L’anno successivo è la volta di Get Real – Vite nascoste, diretto da Simon Shore, dov si narra del liceale intreccio amoroso tra Steven, studente introverso ma in cammino verso la comprensione del proprio orientamento sessuale, e John, l’atleta più bello della scuola, che rimane intrappolato nei cliché tradizionali. Sempre nel 1998 esce nelle sale Velvet Goldmine, in cui Todd Haynes tratteggia la storia del glam rock ispirandosi a David Bowie e infarcendo sceneggiatura e musica di riferimenti a Wilde e altre icone gay inglesi.
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E adesso?
Il millennio si apre con l’ultimo film girato da John Schlesinger (che muore nel 2003): Sai che c’è di nuovo? (2000), intricata commedia in cui due amici Abbie (Madonna) e Robert (Rupert Everett), arrivano a contendersi legalmente un figlio quando lei, innamoratasi di un etero, decide di seguirlo in un’altra città. Datato 2005 è Breakfast on Pluto, diretto da Neil Jordan (già citato per La moglie del soldato), viaggio alla ricerca di se stessa della trans Patrick/Kitten, figlia del parroco del villaggio nella quale è nata e decisa a ritrovare la madre. Little Ashes (2008) di Paul Morrison, orbita invece attorno alla storia d’amore tra Salvador Dalì e Federico García Lorca nella Spagna franchista.
Nel 2011 (ma in Italia solo nel 2016) esce Weekend, diretto da Andrew Haigh, dove l’attrazione fisica fra due ragazzi diventa occasione per attribuire un senso alle proprie esistenze. Nel 2013 Stephen Frears manda nelle sale Philomena, dove una sempre meravigliosa Judi Dench, indossa i panni di una madre costretta ad abbandonare il figlio dopo il parto e che, grazie all’aiuto di un giornalista, proverà a ritrovarlo cinquant’anni dopo.
Il 2016 è l’anno di Handsome Devil, scritto e diretto da John Butler, in cui l’amicizia particolare tra due collegiali molto diversi tra loro (uno è sportivo, l’altro amante della poesia e dello studio) viene osteggiata dall’allenatore di rugby a cui importa solo vincere partite per il proprio prestigio. Un ultimo suggerimento lo dedicherei a Francis Lee che, nel 2017, firma La terra di Dio, la storia di Johnny, un allevatore di pecore al quale il padre, dopo essere rimasto invalido a causa di un ictus, affianca, per la stagione dell’agnellatura, Gheorge un immigrato rumeno con cui, dopo un inizio difficile, instaura un rapporto molto intenso che gli cambierà la vita.
La sintesi termina qui con la consapevolezza che, in quanto tale, non può pretendere di essere esaustiva e definitiva e lascia quindi a chi legge il compito di integrare e di aggiungere altri film e altri autori.
Prima di chiudere occorre fare un’ultima precisazione: dall’itinerario che ho voluto mostrare sono state omesse le serie televisive inglesi a tema LGBT, che meriterebbero invece un robusto approfondimento che, però, è oggettivamente impossibile in questa sede.
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Bibliografia:
Domenico De Gaetano, Peter Greenaway: film, video, istallazioni, Lindau, Torino, 2008.
Roberto Lasagna, Il mondo di Kubrick. Cinema, estetica, filosofia, Mimesis, Milano, 2014.
Vincenzo Patanè, 100 classici del cinema gay, Cicero, Venezia, 2009.
Philippe Pilard, Breve storia del cinema britannico, Lindau, Torino, 1998.
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