Per una pastorale inclusiva delle persone omosessuali nelle comunità cristiane
Riflessioni di Emanuele Macca del Guado di Milano tratte dal blog ‘Nipoti di Maritain’ del 16 agosto 2012
In questi anni la ricerca di una pastorale specifica per le persone omosessuali sta prendendo un risalto sempre maggiore almeno nelle principali diocesi italiane per merito di alcuni gruppi di omosessuali cristiani sia con taglio ecumenico che prettamente cattolici.
Trattandosi ancor oggi di un tema spesso tabù nelle comunità parrocchiali questi gruppi son dovuti nascere spontaneamente o, talvolta, con l’appoggio più o meno visibile di alcuni sacerdoti abituati ad intervenire in situazioni di emarginazione e disagio sociale.
Non a caso colui che ha dato origine in Italia al movimento degli omosessuali credenti, Ferruccio Castellano, prima del suo drammatico suicidio, ha trovato in Don Luigi Ciotti una persona accogliente che ha aperto le porte del Gruppo Abele agli aderenti al gruppo di Torino “Davide e Gionata”1.
Indubbiamente rispetto agli Stati Uniti e ad altri Stati dell’Europa Occidentale, il dibattito sulle varie prassi pastorali qui in Italia è più timido e restio e così assumono più visibilità i gruppi più radicali. Ciò a mio avviso è dovuto due fattori : al diretto controllo del Vaticano sulle Diocesi italiane ed alla mancanza in Italia di quartieri gay così come succede in altre metropoli del mondo occidentale (si pensi a Castro per Los Angeles e a Soho per Londra) che ha costretto le parrocchie site in tali quartieri a porre al centro la questione dell’accoglienza delle persone omo e transessuali.
Oggigiorno il dibattito si è arenato sul tema dei diritti civili e del ruolo dei politici cattolici che si pongono come fermo argine allo sviluppo di tali diritti seguendo le direttive provenienti da Roma. Ovviamente la questione dei diritti ha la sua importanza, ma questa estrema politicizzazione sta mettendo pericolosamente in secondo piano la dinamica relazionale che credo sia più legata alla sfera religiosa cristiana.
Quando si parla di “comunità cristiana” ci si sofferma sempre ad analizzare il portato dell’aggettivo “cristiana” e molto meno si pone al centro del confronto cosa implica il fatto di essere “comunità”. Come ho detto prima, tutto ciò che è inerente all’omo e alla transessualità sono temi tabù in gran parte delle parrocchie e di conseguenza ci si limita a citare quanto su queste tematiche è espresso nei testi sacri e nel Catechismo senza mai approfondire i vissuti delle persone e le specificità del vissuto di ognuno.
Se io in quanto omosessuale cristiano mi sento accolto finché nascondo la mia omosessualità e di colpo divento un “tollerato” se non un “allontanato” quando invece la dichiaro, allora mi pare che l’essere comunità scricchioli nella sua autenticità di struttura integrante ed accogliente e diventi una comunità di facciata più che di sostanza. Come mai una comunità che si basa sull’universalità del messaggio – tanto universale da integrare nel suo seno giustamente anche i carcerati -, fatica ad interagire col mondo degli omosessuali?
L’esortazione che molti omosessuali ricevono a non dichiararsi nel seno della propria parrocchia è un’esortazione che impoverisce sia la persona che l’intera comunità. Impoverisce la persona perché la tiene legata alla paura del giudizio altrui, al sentirsi intrinsecamente sbagliata per le pulsioni attrattive e le dinamiche affettive che prova contro la sua volontà; impoverisce la comunità perché per quanto costi talvolta lacrime e sudore, la capacità di coinvolgere al suo interno una variabile non prevedibile e non prevista la rende più matura ovvero con più strumenti per gestire la realtà e non per eluderla.
Del resto lo stesso filone dei gruppi di omosessuali credenti legati alle “teorie riparative” usa alcune discutibili teorie psicologiche per eludere la propria incapacità ad accogliere una variabile non auspicata in quanto peccaminosa; così si fa cadere sulla Bibbia e sul messaggio cristiano la responsabilità dell’accoglienza che è invece del credente e della comunità cristiana.
Si noti come qui non si parla di riconoscimento dei diritti della coppia omosessuale, ma del diritto della singola persona di esprimersi, di raccontarsi e di testimoniare. Credo sia inevitabile che attraverso le plurime testimonianze, le comunità al loro interno e la Chiesa stessa nei suoi piani alti si sentiranno impegnate a definire una mediazione propositiva e piena tra le necessità civili delle persone e il Magistero anche in ambito matrimoniale o in qualsivoglia altre forma giuridica il politico cattolico individui.
Obiettivo centrale della mia proposta è quello di definire per i cattolici omosessuali – a qualsiasi vocazione siano essi chiamati – una prassi di accoglienza piena anche in quanto omosessuali. Senza dubbio non si deve pensare che l’orientamento sessuale possa essere la caratteristica totalizzante della persona, ma neanche si può usare questa evidenza come scusante per costringerla a nascondere un’ aspetto di sé così importante quale la dinamica attrattiva e affettiva.
Dato di cronaca recente è la polemica seguita ad un intervento al convegno dell’AGESCI sull’omosessualità, nel quale si esortavano i capi-scout a non dichiararsi. Se questo vale per i capi scout, vale anche per i catechisti e gli educatori degli oratori, gli insegnanti di religione (e qui si parla di un posto di lavoro!),fino naturalmente ai sacerdoti stessi.
Non bisogna dimenticare che in questo discorso sono compresi anche i genitori del ragazzo omo/transessuale, i suoi parenti e i suoi amici. In una dinamica comunitaria vanno tenute in piena considerazione le persone legate al soggetto con diverso orientamento sessuale.
E allora leggere il fenomeno dell’omosessualità in ottica comunitaria ci fa capire come esso tocchi indirettamente ben più di una persona eterosessuale. Non vale più il gioco del “divide et impera”; che ognuno si assuma la propria responsabilità, gli omosessuali la loro e la comunità cristiana la sua. Nel dibattito politico mi sembra sentire voci che si accusano reciprocamente : ognuno ritiene di aver fatto il suo e che la colpa sia sempre dell’altro e invece credo che come in ogni separazione la responsabilità sia di tutti e due i partner. Mi colpì l’episodio del giovane Florian Stangl che fu eletto nel consiglio parrocchiale, ma il parroco Don Gerhard Swierzek aveva deciso che Florian non poteva far parte del consiglio perché impegnato in maniera pubblica in un’unione con una persona dello stesso sesso.
Così facendo Don Gerhard ha seguito in modo ortodosso le indicazioni magisteriali; tuttavia il cardinale di Vienna Christoph Schönborn ha rovesciato la decisione del parroco dopo aver incontrato a pranzo Florian e il suo partner. Il Cardinale ha motivato la sua scelta ricordando che Gesù non è venuto per la legge, ma per l’uomo e nel colloquio con Florian ha avuto modo di incontrare una persona con un percorso di fede ricco. In questa storia in sintesi cosa è successo? Da un lato la Chiesa, pur consapevole delle norme, ha dato il giusto peso all’accoglienza nell’ascolto come mezzo per conoscere sempre meglio una persona; dall’altro è stata responsabilità del giovane Florian il mostrarsi degno del ruolo per cui era stato designato dai parrocchiani.
Un percorso virtuoso che è partito dalla libertà di Florian di raccontarsi e di testimoniare e dalla saggezza dell’arcivescovo nell’approfondire la conoscenza della persona andando oltre la sua omosessualità (rilevandola certo, ma in una visione d’assieme con tutte le altre caratteristiche della persona stessa).
1 http://it.wikipedia.org/wiki/Omosessualit%C3%A0_e_cattolicesimo; http://it.wikipedia.org/wiki/Ferruccio_Castellano