Perché il blog “Lev”? Alla scoperta del “cuore” della lingua ebraica
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*
Il mio approccio è innanzitutto quello di un lettore attento alla lingua originale, l’ebraico. Ne consegue che la finezza di un testo risiede nelle sfumature linguistiche che la traduzione tende a cancellare. Affrontare un testo nella sua versione originale permette anche di porre in evidenza le strutture particolari delle parole, delle frasi, una struttura colma di insegnamenti.
Una delle grandi funzioni dello studio è la consapevolezza che non percepiamo mai il mondo com’è. Lo vediamo unicamente attraverso una o più interpretazioni. Il mondo è detto attraverso le peculiarità fonetiche e grammaticali di ciascuna lingua. Il fatto che in ebraico non esista il verbo essere al presente, o che in tedesco il verbo sia posto alla fine della proposizione, incide sulla percezione del mondo.
Ogni lingua e ogni scrittura sono altrettante maniere di dargli un significato. Per questo leggere la Bibbia in ebraico apre sentieri imprevisti, come la Grazia di Dio che è un dono particolare e inaspettato, così leggere la Bibbia in siffatta modalità è di una ricchezza straordinaria, d’una novità impensata.
E’ nello studio del testo biblico nella lingua originale, posto come punto di premessa, che si possono capire meglio la tradizione laica e soprattutto quella cristiana. In nessun’altra lingua, forse, come nell’ebraico, un alfabeto è così intriso di storia, il cui codice espressivo è così denso di carne e di sangue, di interrogazione filosofica e teologica. L’antico problema che soprattutto da Platone e Aristotele in poi ha diviso i filosofi, se cioè il linguaggio si fondi su una convenzione (comunicazione ed espressione verbale) o sulla natura interna degli esseri umani, ha sempre avuto sullo sfondo un aspetto indecifrabile del linguaggio.
Se consideriamo il suo lato interno sorge allora la domanda: che cos’è questa dimensione “segreta” del linguaggio sulla quale da sempre i mistici concordano, da quelli dell’India e dell’Islam fino ai cabalisti? La risposta potrebbe essere: questa dimensione è determinata dal carattere simbolico del linguaggio. Nel definire questo aspetto simbolico le teorie mistiche percorrono sovente vie divergenti. Il mistico scopre nel linguaggio una dignità, una dimensione immanente, che mira non tanto a comunicare qualcosa di comunicabile, quanto piuttosto, e su questo paradosso si fonda ogni simbolismo, a comunicare qualcosa di non-comunicabile, qualcosa che rimane inespresso e che, se mai si potesse esprimere, non avrebbe comunque un senso pienamente comunicabile. È piuttosto difficile far comprendere, soprattutto a chi non conosce l’ebraico la particolarità di questa lingua sacra.
La Tradizione Orale chiama le lettere avanìm, ossia pietre, il materiale di base con cui Dio creò il mondo. Ogni lettera ha tre livelli: forma, suono e valore numerico che corrispondono a: olàm (mondo), neshamà (anima), Elokùt (Divinità). È necessario divenire consapevoli di ognuna di queste dimensioni per poter accedere al significato interiore delle lettere (…).
Fin da ragazzo sentivo il desiderio di una sempre maggiore elevazione spirituale, nell’intento di raggiungere il potenziale divino. Questa mia attrazione così forte per il misticismo e la cultura ebraica credo che dipenda da una sua peculiarità: essi parlano direttamente all’anima, e rappresentano il riconoscimento della vera spiritualità.
Sotto questo aspetto, l’influenza del misticismo ebraico (kabbalah) in altri campi ha avuto effetti positivi. D’altro canto, però, oggi giorno il misticismo ebraico, anziché essere considerato una fonte di metafore di profondo significato e risposte a questioni antiche quanto l’uomo quali il dolore, la sofferenza, il male e il senso della vita, è stato oggetto di sfruttamento.
Una volta estrapolati dal contesto della spiritualità ebraica, concetti e pratiche cabbalistici finiscono facilmente per mischiarsi non solo con aspetti estranei al giudaismo, ma persino con alcuni elementi nettamente in contrasto con l’insegnamento biblico.
Un esempio può essere il tatuaggio di uno dei Nomi sacri di D*o, azione che viola diverse Mitzvot riguardanti la sacralità del corpo, oltre alle proibizioni volte a proteggere e onorare i Nomi sacri di D*o. Vivere secondo la Derek ha-Shem (la via di Dio), significa coltivare una duratura consapevolezza della Presenza di Dio.
Di tutto ciò ebbi l’intuizione, all’età di vent’anni, dopo la lettura del libro di Gershom Scholem, Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio. Un saggio, che acquistai durante la mia esperienza lavorativa, come operaio agrifloricoltore in Toscana, al costo di dodicimila lire, e che lessi con voracità intellettuale.
Vi sono numerosi approcci e metodi di lettura dei testi: letterari, psicologici, strutturalisti, antropologici, politici etc…Ma quello più importante è incontestabilmente l’approccio storico.
La Storia è necessaria, senza di essa numerosi elementi dei testi sarebbero incomprensibili, se non inaccessibili, ma l’approccio storico tende a considerare il passato come appartenente irrimediabilmente alla storia passata. Il rischio è quello di perdere tutto il peso della vita e del senso; tutta la forza dinamica del testo, la sua potenza esistenziale sia rispetto al suo tempo che per noi oggi. La nostra sarà una lettura per vivere. E tal proposito potremmo citare, per definire l’approccio esistenziale, un celebre testo del Midrash che commenta il versetto 13 del capitolo 29 del Deuteronomio:
“Non solo con voi sancisco io sancisco questa alleanza e pronunzio questa imprecazione, ma con chi oggi sta qui con noi davanti a Dio e con chi non è oggi qui con noi. Tutti quelli che nasceranno, fino all’ultima generazione, erano presenti con loro sul monte Sinai” ( Pirqè di Rabbi Elizier, capitolo 14).
L’approccio esistenziale che darò nella rubrica si fonda sull’idea che ogni epoca deve interpretare il testo tramandato. Il significato di un testo non dipende da fattori occasionali quali: l’autore e il suo primo pubblico, il contesto sociale, culturale, economico etc… Almeno non ne è esaurito. I rabbini insegnano che il significato di un testo oltrepassa sempre il suo autore e che la comprensione del lettore è sempre un’attitudine creatrice. Non si tratta di comprendere meglio, ma di comprendere altrimenti.
Il lettore-traduttore-interprete, che si confronta esistenzialmente con i testi, non cerca, di primo acchito, di risalire verso una vita passata, e verso un significato passato. Comprendere significa, per il lettore, essere partecipe, ora di ciò che dice il testo. In realtà, non è il testo a essere compreso, ma è il lettore che si comprende.
Comprendere un testo, significa, applicarselo a sé. Egli può e deve ancora essere compreso altrimenti da altri, in altri tempi e luoghi. Non si tratta di ripetere e parafrasare il testo di partenza, ma, letteralmente, di decollare, andare, “al di là del versetto” di passare dal testo al proprio testo. Attraverso questa lettura creatrice, il lettore nasce veramente a sé stesso e ad altri.
Cominciamo la nostra avventura nel dire che l’ebraismo insegna:
“Ciascuno è nuovo e importante e deve imparare a essere sé stesso”
“Un discepolo fece visita al suo maestro che gli chiese: – Cos’hai imparato?
Il discepolo rispose: – Ho attraversato tre volte il Talmud!
Il maestro disse: – Ma il Talmud ti ha attraversato?”
Una delle idee principali del metodo di lettura e di comprensione, ereditata dal Talmud e della tradizione chassidica, è quella della responsabilità creatrice conferita a ciascuno di noi. Attraverso l’interpretazione personale, l’uomo si costruisce e si oppone al pericolo dei pensieri prefrabbricati. Siccome la nuova interpretazione è sua, egli prende coscienza, in maniera responsabile, del cammino individuale e collettivo che occorre costruirsi.
Il filosofo e teologo ebreo Martin Buber lo ha detto mirabilmente:
“Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro, fosse pure la persona più grande, ha già realizzato. La stessa idea è stata espressa con maggiore acutezza da Rabbi Sussja in punto di morte: “nel mondo futuro non mi si chiederà: Perché non sei stato Mosè? Mi si chiederà invece: Perché non sei stato Sussja?”.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’associazione AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità di Charles Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.