Perché le coppie gay vogliono sposarsi, l’obiettivo? La normalità
Riflessioni di Maria Laura Rodotà pubblicate sul sito del Corriere della Sera 1l 13 luglio 2015
Siete mai stati a un matrimonio tra due uomini o due donne? Forse no, in Italia è vietato. E’ un peccato, per chi ama andare alle feste di nozze: le cerimonie sono commoventi, l’atmosfera è spesso euforica, la sensazione – anche dove è legale da tempo – è di partecipare a un evento pionieristico. Di contribuire a furia di brindisi a gettare le basi per un futuro migliore. Sono usate di rado, di questi tempi e in contesti ottimisti, espressioni come “gettare le basi” e “futuro migliore”. Ma servono a capire di cosa si parla quando si parla di uguaglianza matrimoniale.
La maggior parte degli sposi gay, lesbiche, bisessuali vuole festeggiarsi ma soprattutto scambiarsi promesse, accettare diritti e doveri, creare una famiglia. Essere elementi integrati e normali della società in cui vivono. Non più individui marginali, e, come si dice ancora, tollerati. Esempio. «Da quando ti frequento sono diventato molto più tollerante», spiegava tempo fa un noto giornalista a una compagna di lavoro convivente con una donna. La quale obiettava: «Cosa c’è da tollerare? Il rischio che mi baci al bar in orario protetto turbando bimbi benpensanti? L’idea che io mi sottragga alle logiche relazionali tradizionali mettendo tutti in imbarazzo?».
E invece: c’è il caso che chi ha un forte legame non etero voglia avere una relazione tradizionale. Per avere e dare sicurezza. Per usufruire delle agevolazioni sia burocratiche che fiscali di cui beneficiano coppie sposate e famiglie regolari, anche (e insomma (a) la reversibilità delle pensioni per le coppie stesso sesso non sarebbe onerosa per l’Inps; e (b) provate voi da genitori non coniugati a fare il passaporto alla prole). Per fare, finalmente, una cosa seria, da adulti.
Per tanti etero vissuta come un incubo (anche a ragione), per molte persone Lgbt, da sempre tagliate fuori, un traguardo, anche di pubblica dignità. E molti italiani/e vanno all’estero, anche se in Italia le nozze non sono riconosciute.
Ci sono B. e F. che si sono sposate in Spagna, è stato bello ma «pure il funzionario comunale iberico sudatissimo ti guarda come una poveraccia che arriva da un Paese arretrato». C’è Claudio Rossi Marcelli, che col marito Manlio ha una figliolanza tipo famiglia Bradford. Claudio scrive libri divertenti sulla sua famiglia (“Hello daddy” e l’ultimo “E il cuore salta un battito”, Mondadori) e si è unito civilmente in Comune a Ginevra, con famiglie emozionate e amici incravattati.
C’è il nostro collega Stefano Bucci, autore anche lui di un bel libro autobiografico, «I veri amori sono diversi» (Marsilio), e protagonista, dopo le nozze a New York, di una battaglia legale per la registrazione in Italia. Stefano scrive sul matrimonio parole alte. Da sentirsi inadeguati, da buttarla con lui sul frivolo e sulle di liste di nozze. E’ un battibecco che da’ tutto il senso della battaglia per la «marriage equality». Tra chi ha fatto un matrimonio «normale» e ricorda con angoscia il negozio, l’imbarazzo nelle scelte, la sensazione di essere parte di un vuoto scambio simbolico.
E chi, come Stefano, lo racconta come l’elemento allegramente materialista di un evento importante. E poi ci sono i figli. I bambini con due papà e due mamme, da noi, sono tuttora ufficialmente strani. C’è chi non manda i figli a giocare nelle case di peccatori/trici (succede); chi così costringe a cambiare scuola (succede anche questo); chi proibisce nelle scuole innocenti libri per bambini più possibilisti della media (succede a Venezia, grazie al neosindaco Luigi Brugnaro). Ci sono mille problemi perché una delle mamme o dei papà non è genitore ai sensi di legge. E, se l’unione finisce male, e il genitore naturale è arrabbiato con l’ex, chi si è sentito madre o padre fino a quel momento magari non può più vedere quelli che sente suoi figli.
Anche in questo, il matrimonio – e la conseguente possibilità di dirsi addio con delle regole – aiuta. Basta, per capire, vedere la fenomenale serie americana in onda in queste settimane, Transparent: una lesbica divorziata viene travolta dall’arrivo della figlia adolescente, che ha litigato con l’ex moglie/madre biologica. E, come tutte le figlie di separati, va a stare dall’altro genitore. La scena in cui sta la madre facendo l’amore con la nuova compagna ed è interrotta da una telefonata della pupa imbufalita ha valore universale per chiunque abbia prole, diciamo.
Diciamo, pure, che chi pensa al matrimonio è in genere grandicello/a (ha senso: negli Stati Uniti, dove da pochi giorni c’è il matrimonio per tutti, la maggioranza degli under 30 è favorevole; ma come principio, non perché puntino a prossime nozze, etero o lgbt che siano). E che – forse – le lunghe adolescenze di molti sono finite. E chi trova la sua persona (cit. Grey’s Anatomy), vorrebbe sposarsi.
E vorrebbe il celebrante con fascia tricolore, e la lista, e la festa, e le zie accaldate con i ventagli, e una promessa di vita rispettabile e rispettata (a pensarci, in Italia il problema non è solo l’omofobia; è lo scarso rispetto in generale, di alcune leggi e del prossimo; forse ci si dovrebbe pensare su, qualunque sia lo stato civile). ] L’obiettivo? La normalità.