“Perché mi percuoti?”. Sul dialogo mancato tra il vescovo di Parma e i genitori cattolici con figli LGBT
Riflessioni di Antonio De Caro pubblicate sul settimanale La voce di Parma, anno 18, numero 27 del 10 luglio 2018, seconda parte, pag.4
Il Vescovo (ndr di Parma) ha partecipato per mesi ai nostri incontri (ndr del gruppo Davide per genitori cattolici con figli e figlie LGBT e i loro amici): e se avesse ravvisato in ciò che ha sentito idee da correggere, perché non lo ha detto subito, con paterna e pastorale franchezza? Perché tacere, ed affidare i suoi dettami solo alle colonne dei giornali (Avvenire, Vita Nuova), evitando un confronto leale e autentico con i fedeli in cerca di risposte? È facile scrivere solo comunicati ufficiali, meno facile è accettare il dialogo.
La parola impersonale e scritta, i freddi pronunciamenti burocratici, la comunicazione soltanto verticale e univoca non creano confronto, comprensione, fiducia, anzi alimentano l’idea di una Chiesa insincera, solo gerarchica ed autoritaria, in cui non c’è da discutere ma solo da obbedire; e chi osa esprimere opinioni difformi da quelle ufficiali (anche se plausibili e fondate su fonti teologiche cattoliche) è gentilmente “scomunicato“: da questo punto di vista, il silenzio di chi detiene ed esercita un’autorità non appare più come segno di delicatezza e rispetto, ma come strategia per mantenere ed alimentare un potere fine a se stesso ed un modo per dire al proprio interlocutore “tu per me non esisti“. Perché la Chiesa Romana, quando affronta i temi legati alla questione LGBT, non sa mai motivare le proprie posizioni, ma continua solo ad imporle senza appello?
Certo, mettere in discussione il Magistero significa anche essere pronti all’eventualità che esso possa rivelarsi erroneo e nocivo. La Chiesa Romana è disposta a correre questo rischio? E se la risposta fosse no, non è forse evidente che a questo punto l’obiettivo reale non è cercare la verità, ma conservare il potere? Qualche volta ci è stato risposto che la Chiesa Romana desidera, sì, accogliere tutti; ma che, se appoggiasse troppo apertamente la causa LGBT, rischierebbe di perdere consensi da parte dei cattolici conservatori, di disorientare alcuni fedeli e di incrinare la comunione ecclesiale. Quindi la sua “prudenza” sarebbe un segno di cura pastorale per i sensibili cattolici non ancora pronti ad affrontare un deciso mutamento di prospettiva. Questa risposta è assurda.
Quando la Chiesa Romana per secoli ha alimentato l’ostilità verso le persone LGBT attraverso un Magistero disattento o disumano, non si è mai preoccupata di “perdere” (in tutti i sensi) le persone vittime della discriminazione; non ha mai avuto scrupolo di ferire la sensibilità di alcuni fedeli, di esporli alla derisione o alla persecuzione, pur di affermare verità discutibili, anche sulla base della Scrittura, e pericolose per l’integrità psicofisica della persona umana. Se la Chiesa fosse sinceramente convinta di un valore, essa dovrebbe insegnarlo con dolcezza e fermezza, come Gesù, senza temere di urtare la sensibilità dei “farisei” di turno.
Mi dispiace, ma non posso che ravvisare, ancora una volta, una contraddizione con il Vangelo, in cui Gesù dice che il buon Pastore conosce le sue pecore, ed esse conoscono Lui. Io non mi sento conosciuto dalla Chiesa e, a causa del pervicace ed enigmatico silenzio con cui essa mi risponde, non posso dire di conoscere lei; posso solo formulare delle ipotesi che non mi piacciono affatto.
Nel novembre 2017 mons. Solmi ha inoltre pubblicato un articolo su Avvenire, poi riproposto quasi identico su Vita Nuova, che – in assenza di altre indicazioni – può aiutarci a capire in che senso il gruppo Davide non risponda secondo lui alle esigenze pastorali della Diocesi. Vi si legge, tra l’altro, che il Vescovo sconsiglia la formazione di gruppi non omogenei, che cioè comprendano sia persone LGBT sia genitori di persone LGBT.
Non sono chiare le ragioni di questa scelta pastorale (ancora una volta, affermata ma non adeguatamente motivata): la mia esperienza mi dimostra che quando genitori e persone LGBT dialogano e si confrontano, molte paure vengono dissolte, molte ferite vengono sanate, molte speranze rinascono. Dall’incontro nascono conoscenza, fiducia, comunione.
Separare invece di unire, dal mio punto di vista, rievoca scenari di segregazione: certo, sarebbe molto più difficile, per un sacerdote o un vescovo, continuare a ripetere che l’omosessualità è una condizione “intrinsecamente disordinata” e che va vissuta nel più assoluto riserbo, se tale annuncio venisse rivolto a cristiani adulti, istruiti, critici, capaci di porre serie domande di senso e soprattutto perfettamente convinti che anche la condizione e le relazioni omosessuali possono essere luogo di amore e generare famiglia.
La segregazione non abbatte le barriere, non cambia l’approccio pastorale, anzi è un valido sistema (divide et impera) per mantenere lo status quo pur manifestando un’esteriore benevolenza verso le persone coinvolte. Segregare significa togliere alle persone LGBT e ai loro genitori uno dei benefici più fecondi di questa stagione etica e spirituale, cioè la visibilità: che non significa esibizione, ostentazione o provocazione, ma il sereno dono della propria identità, individuale e familiare, insieme con l’invito autentico ad un cammino insieme per rivedere la dottrina e non negare l’amore dove esso è presente.
Il gruppo Davide e il gruppo Spiritualità Arcobaleno pagano, forse, il prezzo di questa scelta di annuncio palese, di questa testimonianza a viso aperto, di questo coraggio responsabile che non teme le autorità umane – anche e soprattutto quando esse presumono di parlare a nome di Dio. Esattamente come avvenne a Gerusalemme dalla Pentecoste in poi. Il gruppo Davide ha accompagnato con gioia due uomini gay alla loro unione civile, celebrata da uno dei genitori del gruppo, e ha così rafforzato (qualora ce ne fosse stato bisogno) la propria fiducia in un progetto di amore che aspira alla dignità morale e spirituale senza offendere in alcun modo la bellezza della tradizionale famiglia eterosessuale.
Forse anche per questo la diocesi di Parma ha preso le distanze, perché non poteva permettere che parlasse a nome della Chiesa un gruppo in cui due uomini si sono assunti con responsabilità e amore l’impegno di diventare famiglia. Ma, ripeto, tutto questo è solo un insieme di illazioni, poiché il Vescovo ha rimandato a data da destinarsi le spiegazioni sui motivi per cui il gruppo Davide va considerato ecclesialmente inaffidabile.
Una volta mons. Solmi intervenne durante uno degli incontri del gruppo, esprimendo il suo plauso per un’idea che vi era stata proposta: cioè che la dottrina vaticana è chiamata a rivedere, certo, le proprie posizioni e i propri linguaggi sull’omosessualità, anche perché i pastori si trovano spesso gravemente impreparati su questo tema (anche questo è strano: se io ammetto di essere impreparato, non mi permetto di formulare giudizi radicali di condanna ed esclusione; se io non sono un medico, non mi azzardo a formulare diagnosi nel caso in cui qualcuno si rivolga a me perché sta male); e, nell’attesa che questa revisione venga compiuta, consigliò sempre mons. Solmi, è opportuno sospendere il giudizio ed evitare qualunque formulazione eccessiva ed imprudente. Giusto.
Se però occorre “sospendere il giudizio”, si tratta di un gesto di saggezza e di rispetto dell’altro che ha senso solo se reciproco: la Chiesa Romana non può chiedere alle persone LGBT di stare in silenzio e nell’ombra, evitando fare troppo rumore e di porre domande imbarazzanti, se nello stesso tempo essa continua nella sua azione di condanna, disprezzo e denigrazione delle persone LGBT.
È quanto accade a Parma, quando spazi diocesani (le parrocchie o il Seminario minore), vengono concessi per ospitare interventi di “esperti” come Amato, Gandolfini, Povia, che affermano che l’omosessualità è una perversione o una malattia, che da essa si può e si deve guarire, magari attraverso le pericolose “terapie riparative”. Ritengo che dare spazio a queste voci, contraddette dalla scienza moderna, significhi non solo venire meno al gesto conciliativo di sospendere il giudizio, ma alimentare false verità e soprattutto un odio autentico verso le persone LGBT.
Se la Curia promuove le conferenze di questi personaggi e dei movimenti che li sostengono (Popolo della Famiglia, ProVita…), vuol dire che non è equidistante ed equanime sul problema, ma che prende nettamente posizione, ed è una posizione che rischia di danneggiare – psicologicamente e fisicamente- soprattutto i giovani e le loro famiglie. Immaginiamo che una coppia di genitori cattolici vada a sentire proclami del genere; che poi torni a casa, dove un ragazzo o una ragazza potrebbero fare coming out.
Come pensate che reagirebbero quei genitori, il cui amore rischia di essere inquinato dall’odio omofobico? Se il Vescovo concede spazio a queste voci, perché poi bandisce il gruppo Davide, impedendogli de facto di intervenire nelle parrocchie, di presentare una visione diversa della realtà, di porre altre domande alla comunità dei fedeli, di offrire conforto e speranza? L’esclusione, ripeto, a fronte del favore concesso fattivamente ad altri maîtres á penser, non ha bisogno di molte spiegazioni, ed equivale già ad una chiara ammissione sulle proprie reali convinzioni.
Anche se Papa Francesco suggerisce rispetto, comprensione, delicatezza, preferiamo concedere pulpiti e microfoni a chi ci insegnerà a odiare i nostri figli e fratelli perché sono chiamati ad amare in un modo diverso. Nel suo s-comunicato, mons. Solmi invita i fedeli della Chiesa Romana a rivolgersi ad altri gruppi, da tempo presenti nel territorio ed operanti con l’approvazione della Curia; gruppi che possono, a suo dire, offrire informazione, formazione e sostegno sui temi dell’orientamento omosessuale in rapporto alla fede cristiana. Questo vuol dire che anche la Chiesa di Parma intende praticare una pastorale per le persone LGBT. Ma in che modo? Il gruppo che viene segnalato dal Vescovo, anche se ha cambiato nome (prima “Arco”, adesso “Uno in Cristo”), opera in continuità da diversi anni.
Esso organizza incontri di preghiera e di riflessione, in cui però trovano poco spazio programmatico temi legati al’identità LGBT in quanto tale. Si tratta di preghiera, meditazione biblica e riflessioni certo bene organizzate, lineari, sobrie, senza sbavature: ma anche senza slancio, senza sogni, senza un’intenzione forte di cambiare prospettiva sui rapporti fra orientamento LGBT e fede cattolica o cristiana. Come se la Chiesa Romana fosse disposta ad accoglierci e a “prendersi cura” di noi solo a patto che rimaniamo nascosti e silenziosi, a patto che non denunciamo le sofferenze (materiali e morali) che nel tempo il Magistero ha provocato alle persone LGBT attraverso le sue affermazioni discriminatorie, i suoi comportamenti e le sue omissioni incoerenti con il Vangelo.
“Non denunciare” significa rimanere silenti e non avanzare alcuna richiesta di rinnovamento pastorale e dottrinale. Come se bastasse semplicemente chiedere ed ottenere una zona franca in cui vivere “in deroga” al Magistero. Come se di quel Magistero e della sua violenza nessuno debba essere ritenuto responsabile. Come se non fosse nostro diritto e dovere, da cristiani battezzati, porre alla Chiesa Romana domande forti di senso e soprattutto chiedere di essere ascoltati prima che sbrigativamente giudicati o zittiti, in nome della Tradizione. Il gruppo approvato dalla Diocesi, questa la mia impressione, ha il permesso di esistere a patto di non mettere in discussione il Magistero; di non fare alcuna dichiarazione ufficiale; di non avere alcuna visibilità esterna.
Il gruppo non organizza, in maggio, la Veglia annuale per commemorare le vittime dell’omofobia e della transfobia (cosa che in altre città italiane avviene nelle parrocchie, con il patrocinio delle diocesi e, in alcuni casi, con il diretto coinvolgimento del Vescovo); non si affilia alle realtà nazionali che intendono costruire ponti fra i credenti LGBT e la Chiesa Romana (come “Cammini di Speranza” o “Gionata”); non leva alcuna voce di protesta contro la discriminazione all’interno della società o della Chiesa.
Quando ho chiesto, tempo fa, le ragioni di tale scrupolosa inerzia, mi è stato risposto, in maniera vaga e con un certo fastidio, che si trattava della scelta migliore per rispettare la sensibilità di tutti. Forse ci sono, in quel gruppo, persone che svolgono ruoli attivi in parrocchia o nella diocesi, e che temono quindi di danneggiare la propria immagine o perdere i propri incarichi qualora dichiarassero di essere gay e di impegnarsi come tali all’interno della Chiesa.
Forse si tratta di un gruppo realmente utile a quegli omosessuali credenti che, per motivi personali ed assolutamente degni del massimo rispetto, riescono a vivere la loro identità solo in un contesto protetto ed anonimo. In tal modo, tuttavia, essi alimentano in se stessi la vergogna di essere omosessuali, la paura di essere scoperti e l’incapacità di vivere con libertà la propria condizione, soprattutto in rapporto alla fede in Gesù e alla comunità cristiana. Un gruppo così è molto comodo, perché permette alla diocesi di poter dichiarare “Parma si occupa della pastorale per le persone LGBT”, senza però promuovere autentiche istanze di rinnovamento circa la libertà delle persone LGBT: libertà di essere se stesse, senza avere paura o doversi nascondere; libertà di vivere una vita di fede e di comunità piena e ricca senza dovere rinunciare alla propria chiamata all’amore e alla famiglia.
È davvero pastorale, mi chiedo, questa dimensione che ama le pecore a patto che non escano mai dal recinto o dalla stalla? Che rimangano prigioniere e sconosciute? Cristo ci ha liberato perché restassimo liberi e vivessimo una vita resa piena e significativa dall’amore. Non perché fossimo ancora schiavi della legge, che oggi si chiama Magistero, nasce dall’uomo e come tale non è infallibile. Se lo fosse, infatti, non si comprende come nel corso della storia la Chiesa Romana abbia “cambiato idea” su questioni (la schiavitù, il celibato dei sacerdoti, la guerra, la pena di morte, il sistema solare, il potere territoriale del Papa, il ruolo della donna, i rapporti con gli Ebrei, la lingua liturgica…) che un tempo sembravano immodificabili.
Se esiste un cambiamento, all’interno del Magistero, vuol dire che esso non è né esente da errori né fissato una volta per tutte: e Gesù stesso, promettendo lo Spirito Santo, ha preannunciato che molte cose andranno comprese solo col tempo. Una volta, durante una confessione in una parrocchia parmigiana, il sacerdote mi disse che avrei dovuto affidarmi alla saggezza materna della Chiesa e dei suoi insegnamenti; e che, quindi, avrei dovuto accettare le limitazioni sacramentali (im)poste a me in quanto gay unito civilmente. Lo interruppi, chiedendogli seriamente di non offendere mia madre. Mia madre non mi direbbe mai “puoi venire a trovarci, ma devi rimanere sulla soglia”; né “puoi sederti a tavola con noi, ma non puoi mangiare”.
Questa Chiesa non può essere mia madre, che mi ama infinitamente di più e proprio per questo può essere metafora dell’amore di Dio. Alla fine il sacerdote era anche disposto a darmi l’assoluzione, che io però ho rifiutato. Non voglio il perdono di un Dio che non riconosco; perché il Dio in cui credo mi ha fatto a sua immagine e somiglianza, e mi chiama a rispecchiarne la bontà nella condizione di vita che ha voluto per me, e nell’amore che in essa sono capace di esprimere.
Come individui e poi anche come coppie gay, che vivono serenamente un progetto di famiglia, siamo consapevoli che la nostra dignità deriva non solo dal nostro essere umani, ma anche dalla nostra disponibilità ad amarci e ad amare, rendendo ogni giorno un po’ più limpido il nostro pezzo di mondo, a cui vogliamo essere utili con gentilezza, onestà e responsabilità. Mi assumo la piena responsabilità di quello che ho scritto, soprattutto perché non ho mai avuto risposte. Se qualcuno, dalla Diocesi, fosse disponibile a dialogare con me su questi temi, ne sarei solo felice.
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