Questione di cuore. Perchè molti gay non hanno il coraggio di uscire dalle catacombe
Lettera inviata da Domenico (Roma) a Natalia Aspesi* tratta da Il Venerdì di Repubblica, 18 Gennaio 2006, p.102
Certe volte ho l’impressione di vivere in un paese completamente differente dal suo. Lei scrive di un paese dove un gay può vivere tranquillamente la sua condizione, diciamo tipo quella vista nel film di Ligabue ‘Da zero a dieci’, in cui il gay va in vacanza con gli amici etero, pienamente accettato. Io mi vedo attorno un nuovo Medioevo.
Ho 44 anni, da 25 ho preso coscienza della mia condizione e da allora è stata una lotta continua fuori e dentro di me.
Indubbio che i movimenti gay hanno portato a faticose conquiste. Anche a Roma mi capita di vedere due ragazzi mano nella mano, cosa impensabile ai tempi dei miei 16 anni.
Lei sponsorizza giustamente i casi alla Niki Vendola, che sono una realtà. Io invece conosco coppie più o meno giovani, più o meno agiate, costrette a vivere nelle catacombe, che preferirebbero morire piuttosto che venire allo scoperto.
Io stesso che lavoro in un quartiere borghesissimo e perbenista, in un ambiente rigorosamente macho ed etero, per sopravvivere mi sono costruito una campana di vetro, anzi di cemento armato.
Ho imparato a starmene da solo, a non lasciarmi andare mai. La mia timidezza, forse dovuta al mio spiacente aspetto fisico, mi ha reso refrattario anche al giro gay che ti avvicina solo se sei bello e griffato.
Una morte sociale che però reggo bene grazie ai miei favolosi fratelli e amici (esclusivamente come me). Da quasi 8 anni vivo nella castità quasi totale e credo di non essere l’unico.
Non si nasce tutti guerrieri e scafati come i militanti dell’arcigay, non siamo tutti Platinette o Aldo Busi. A volte, giuro, non ci si può permettere di venire allo scoperto.
Temo tanto che il popolo italiano, così tollerante nei sondaggi, dentro le mura di casa la pensi diversamente, temo che la platea che applaude i gay famosi proposti in tivù quando si ritrova un gay come vicino di casa o sul lavoro applauda ben poco.
Domenico (Roma)
Risponde Natalia Aspesi…
Lei ha ragione quando dice che anche in un paese dove si vota Niki Vendola la realtà quotidiana di chi non è famoso o molto sicuro di sé è ben diversa.
E anche vero che i tempi sono peggiorati, che c’è stata un’involuzione sociosessuale molto avvilente: alle donne si chiede soprattutto di mostrare il sedere, ai gay di rinchiudersi nei loro liberi ghetti.
C’è da noi una società più aperta, più laica, in cui le persone vengono valutate per quello che sono e non per le loro scelte sessuali, e ce ne è un’altra come la descrive lei, in cui le persone vengono definite, con una morale distorta, secondo i loro amori e non per quello che sono.
Però lei dice: ci sono coppie che preferirebbero morire piuttosto che venire allo scoperto. Certo, nessuno è obbligato a essere coraggioso, però forse qui il coraggio non c’entra, c’entra il modo in cui ci valutiamo: se ci si vergogna di sé, perché gli altri dovrebbero accettarci?
Io penso che non sia necessario sbandierare le proprie scelte, ma si può anche non nasconderle: piuttosto sforzarsi di viverle semplicemente, apertamente, con convinzione e serenità.
Vendola, e tanti altri, sono amati e rispettati perché hanno faticosamente vinto ogni timore e sono riusciti a imporre la loro forza e i loro ideali, in modo da essere giudicati per il loro valore di persona e non altro.
Le ragioni della sua castità derivano, credo, dalla poca fiducia che lei ha in sé, perché è lei a non volersi bene sino in fondo.
Mi chiedo, e me ne scuso: ma è così difficile per un gay non vedersi soprattutto come tale, per sentirsi semplicemente un uomo?
* La giornalista Natalia Aspesi conduce da anni, su Il Venerdì di Repubblica, la rubrica ‘Questioni di cuore”.