Perche nella chiesa cattolica non vogliamo usare i nomi corrispondenti all’identità di genere che alcune persone scelgono?
Riflessioni di padre Daniel P. Horan OFM* pubblicate sul sito del bisettimanale cattolico progressista National Catholic Reporter (Stati Uniti) il 13 ottobre 2021, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
I nomi hanno un ruolo importante nella tradizione cattolica. Durante la cerimonia del battesimo, la prima domanda che viene posta ai genitori è “Che nome volete dare a questo bambino?”; in occasione della Cresima, è uso scegliere e adottare il nome di un santo patrono.
I membri di molte congregazioni religiose adottano un nuovo nome in occasione della loro professione religiosa, che si sostituisce a quello “legale” (che rimane sui documenti ufficiali). Le persone consacrate adottano titoli e appellativi come “don”, “suor”, “fra”, “monsignor”, “diacono” e così via, e si aspettano che la gente rispetti tali titoli.
Il significato dei nomi, l’adottarne di nuovi e l’importanza di venire chiamati con il nome che si è scelto sono temi presenti dappertutto nella Bibbia: Abramo diventa Abraamo, Sarai diventa Sara, nei Vangeli leggiamo di rivelazioni angeliche sui nomi di Giovanni e Gesù, e negli Atti degli Apostoli vediamo Saulo diventare Paolo; il passare a una nuova identità, con il conseguente cambio di nome, è un fatto molto radicato nella nostra tradizione.
Allora, perché tanta resistenza, a volte anche aggressiva, da parte di molti ambienti cattolici (come le scuole), all’usare nomi e pronomi che riflettano l’identità di genere che alcune persone scelgono?
Chiamare le persone con i nomi e i pronomi di loro scelta mi pare un atto educato e rispettoso, coerente non solo con la “regola d’oro” di fare agli altri ciò che vorremmo fosse fatto a noi (vedi Matteo 7:12), ma anche con l’importante ruolo che i nomi hanno nelle Scritture e nella tradizione.
Di recente ho partecipato a un workshop sul sostegno che le università cattoliche possono offrire ai loro studenti LGBTQ. A un certo punto, durante la discussione, un partecipante ha fatto la semplice e profonda osservazione che un sempre crescente numero di persone vogliono che ci si rivolga a loro in un modo diverso dal nome che è stato assegnato loro alla nascita.
Per esempio, a me è stato dato il nome Daniel, ma in genere, nei miei rapporti con le persone, preferisco essere chiamato Dan. Forse non è la stessa cosa, ma penso che sarebbe molto irrispettoso se mi presentassi a qualcuno chiedendo di essere chiamato Dan, e quella persona invece insistesse nel chiamarmi con il nome che compare sul mio certificato di nascita, oppure con qualche altro nome che io non ho mai scelto.
Il partecipante al workshop ha fatto giustamente notare come insistere nel chiamare qualcuno con un nome che non ha scelto, e ancor più, rifiutarsi di chiamarlo come vuole essere chiamato, è un comportamento maleducato e ostile, e aggiungerei anche anticristiano e peccaminoso.
C’è un potere nei nomi, e dare un nome a se stessi e agli altri non è un atto da prendere alla leggera. Se guardiamo alla storia, troviamo molti esempi del rifiuto di riconoscere il nome e l’identità scelti da qualcuno, un atto usato per soggiogare e disumanizzare. Prendiamo per esempio gli Americani che rapivano e schiavizzavano gli Africani e li trattavano come fossero oggetti o bestie, privi di diritti, di cultura, di storia, della capacità di agire e del nome. Nell’aberrante sistema schiavista americano, la prassi comune dei proprietari era di dare dei nomi agli schiavi, nomi che essi non avevano scelto.
Un esempio contemporaneo è ciò che sta accadendo nell’ovest della Cina, dove la comunità minoritaria musulmana uigura non solo viene oppressa tramite i “campi di rieducazione”, ma le viene anche proibito di utilizzare i suoi nomi di origine araba e musulmana.
Non si può ragionevolmente mettere in dubbio che questi due esempi sono chiare violazioni dei diritti umani. E allora perché molti che si definiscono cristiani, e soprattutto la gerarchia cattolica, insiste nel fare lo stesso con le persone LGBTQ? Non ho una risposta a questa domanda.
A essere sincero rimango molto, molto perplesso, proprio come il partecipante al workshop, di fronte all’arroganza e all’audacia di chi disumanizza le persone in questo modo. Non solo è irrispettoso rifiutarsi di chiamare una persona con il nome o i pronomi preferiti, ma nel caso di molti cristiani che rifiutano di compiere questo atto di buona creanza, c’è per di più la negazione della stessa esistenza e dell’esperienza delle persone transgender e non binarie.
L’evidente transfobia che si riflette nel negare il fondamentale diritto umano all’identità personale e all’autodeterminazione non è compatibile con il messaggio del Vangelo, né con l’antica tradizione cattolica del mutamento di nome legato alla professione religiosa e all’assunzione di una nuova identità di fronte a Dio e agli altri.
Francamente non saprei che fare di fronte a coloro che ignorano scientemente la realtà e l’esperienza di chi è diverso da loro, per far loro capire i danni che causano. Forse qualche tipo di disobbedienza civile (meglio, ecclesiale) e non violenta potrebbe far sì che i cristiani (e soprattutto chi, nella Chiesa, detiene posizioni di autorità) abbiano un piccolo assaggio della vergogna, della mancanza di rispetto e della disumanizzazione che fanno sperimentare agli altri.
Come dovrebbe essere ormai evidente, sostengo pienamente il diritto di ogni persona a essere chiamata e identificata nel modo da lei scelto, e la mia fede cristiana mi insegna che questo si dovrebbe applicare anche nei confronti delle persone e delle comunità transfobiche e grette, anche quando non ne vogliono sapere di trattare con dignità e rispetto i loro fratelli e sorelle in Cristo.
Mi chiedo come si sentirebbero i vescovi che hanno raccomandato ai fedeli di non usare i nomi e i pronomi scelti dalle persone trans, o i presidi che hanno obbligato gli insegnanti, i dipendenti e gli studenti a fare la stessa cosa, o qualsiasi persona che abbia fatto qualcosa di simile, se venissero apostrofati dalla gente con nomi che non hanno scelto, e che potrebbero non piacere.
Dopo tutto, se questi autoproclamati maestri di fede stanno mettendo in pratica la regola d’oro, allora dovremmo fare a loro ciò che essi fanno agli altri, giusto? E se insistono nel dire che mancare di rispetto alle persone, e obbligarle a essere chiamate come non desiderano, fa parte della via “cristiana”, allora immagino che quel vescovo non avrebbe nulla in contrario se lo chiamassi con i pronomi e le desinenze femminili, oppure “suor Maria”, invece di “monsignor Tal-dei-Tali”, o che quella preside che vuole essere chiamata “signora” non avrebbe nulla in contrario se la chiamassi “Gianni”.
Ovviamente non penso che infliggere, a chi fa del male, lo stesso danno perpetrato su persone già vulnerabili nelle scuole, nelle parrocchie e nelle comunità sia un modo corretto di agire. Come diceva spesso mia mamma a me e mio fratello quando eravamo piccoli, “Due torti non fanno una ragione”.
Spero comunque che chi continua a mancare di rispetto in questo modo faccia un passo indietro, e rifletta su come si sentirebbe e come reagirebbe se si trovasse nei proverbiali panni degli studenti, dei fedeli e del prossimo trattati in quel modo.
La tradizione cattolica, che dà molto valore al potere dei nomi e dell’assegnare il nome, è anche una tradizione che riconosce un valore assoluto (come principio, almeno) alla dignità e al valore intrinseci di ogni persona umana.
È una cosa terribile che molti di coloro che si definiscono cattolici usino la nostra tradizione per rifiutare e cancellare l’identità scelta dalle nostre sorelle e fratelli in Cristo.
* Il padre francescano Daniel P. Horan lavora all’Università di Notre Dame, nell’Indiana, come direttore del Centro di Spiritualità e docente di filosofia, studi religiosi e teologia. Seguitelo su Twitter: @DanHoranOFM
Testo originale: Why Catholics should use preferred gender pronouns and names