Perchè non si può parlare di ”amore” tra due persone omosessuali?
Lettera e risposta tratta da Famiglia Cristiana n.8 del 20 febbraio 2005
"La fecondità d’amore non è data dal numero dei figli – scrive una lettrice a Famiglia Cristiana –, ma dalla capacità di trasmettere quelle ricchezze interiori che sono in ogni uomo, prima che in ogni coppia".
Caro padre, sono una fedele lettrice, sposata da quarant’anni, madre di due figli, profondamente cattolica. E, certamente, eterosessuale. Ho letto con attenzione la lettera di Corrado e, soprattutto, la sua risposta, pubblicate nei "Colloqui" (FC n. 30/2004 ). Mentre Corrado espone i suoi dubbi con pacatezza e serenità, non mi riesce di vedere altrettanto nella sua replica.
Non voglio addentrarmi in sterili polemiche, ma proporle una semplice "parabola". Prendiamo due ragazzi nati, cresciuti e formati in ambienti cattolici, ed essi stessi profondamente osservanti: uno è eterosessuale, l’altro no (che omosessuali si nasca o si diventi è una realtà psicologica, medica, genetica, chimica: insomma, tutto meno che religiosa).
Nel pieno della maturità sessuale, il ragazzo etero trova una compagna, la sposa e, finalmente, insieme "consumano" il matrimonio.
Anche l’altro ragazzo trova un compagno, col quale intreccia una relazione amorosa. Ma, per restare fedele ai princìpi della religione, non può manifestare la propria sessualità. Perché solo alle persone che nascono con determinate inclinazioni è consentito vivere una piena attività sessuale? Perché gli altri, i "diversi", devono stare a guardare? La vita è una, unica e irripetibile.
Se, come lei scrive, gli omosessuali sono riusciti a creare un modello originale di relazione, non le sembra che i termini «rispetto, fedeltà, indissolubilità, fecondità e apertura al mondo» possano essere gli ingredienti (magari non con le stesse proporzioni) di qualsiasi rapporto interpersonale e, quindi, non strettamente legati alla vita matrimoniale? Perché non possono essere adeguati per descrivere una relazione tra persone dello stesso sesso?
Ma concentriamoci su una parola tanto speciale quanto lisa, così cara ai cristiani da essere usata sempre, dovunque e comunque (forse è un po’ inflazionata): mi riferisco all’amore. La religione ci insegna che Dio è amore, che la creazione è un atto d’amore, che dobbiamo amare Dio e il prossimo, che la generazione di una nuova vita è un gesto d’amore…, e via amoreggiando.
È desolante che una parola dal significato così ampio e ricco di sfaccettature non possa essere usata per descrivere il rapporto affettivo – e perché no, anche sessuale (siamo carne, dopo tutto!) – che lega due persone dello stesso sesso.
Ancora più incredibile è la giustificazione che si porta: «l’amore omosessuale non è amore perché non è fecondo». Se essere fecondi vuol dire fare figli, mi creda, di bambini ce ne sono già tanti, frutto di fecondità volute e non volute.
Anche lei è chiamato "padre", ma non credo che abbia mai generato alcuna creatura, o no? La fecondità d’amore non è data dal numero dei figli, ma dalla capacità che abbiamo noi cristiani di trasmettere loro – ma anche ai familiari, agli amici, ai colleghi di lavoro, a tutte le persone che incontriamo… – quelle ricchezze interiori che sono in ogni uomo, prima che in ogni coppia.
Un’ultima provocazione: anche le coppie eterosessuali sterili, cioè biologicamente non feconde, non sono portatrici di un amore originale?
Nel problema dell’omosessualità dobbiamo prendere in considerazione anzitutto la persona, poi l’inclinazione e il comportamento, infine il riconoscimento giuridico di un eventuale rapporto. Alla persona è dovuto il massimo rispetto, perché fatta a immagine di Dio e depositaria, quindi, di tutti i diritti. Su questo punto c’è ancora molto da fare, sia da parte degli eterosessuali, che devono essere accoglienti e rispettosi, sia da parte degli omosessuali, che sbagliano ad esibire il loro "orgoglio gay".
Quanto all’inclinazione, l’omosessuale prova in sé una tendenza che non si è data, e deve chiedersi come viverla. Ma questo vale per qualsiasi inclinazione. L’uomo sente, infatti, il bisogno di conoscere, amare, giocare, mangiare, bere, relazionarsi…
Ma tra l’inclinazione e il comportamento c’è la ragione, che ci dice come comportarci, se vogliamo crescere e far crescere la comunità. L’uomo, a differenza degli animali, è libero e può decidere come vivere le diverse inclinazioni della sua vita, compresa quella omosessuale: deve soddisfarle? E come?
Prima, però, val la pena chiedersi che cosa intendiamo per sessualità. Purtroppo, ancora oggi, molti la identificano con la genitalità. Quando si parla di relazione sessuale, si pensa solo e sempre alla relazione genitale, e dimentichiamo che la sessualità è una realtà molto più ampia. Che qualifica tutta la persona, dà origine a un diverso modo di amare e di aprirsi alla vita e al trascendente.
Tutta la persona, in ogni sua espressione, è segnata dalla sessualità, cioè della sua maschilità e dalla sua femminilità. Quando, invece, si pensa e si vive la sessualità solo come genitalità, la si mortifica. Ci si dimentica del potenziale di affettività, tenerezza, accoglienza, disponibilità, solidarietà, cura, attenzione… che è capace di generare.
Può esserci un rapporto sessuale basato su tutti questi aspetti, senza coinvolgere la genitalità. Nel rapporto tra un fratello e una sorella, ad esempio, entra in gioco anche la sessualità (cioè il fatto di essere uomo o donna), ma non viene coinvolta, in alcun modo, la fisicità. E lo stesso può avvenire tra due persone omosessuali, che stabiliscono un rapporto di profonda affettività.
Dobbiamo, però, costatare che in questo tipo di rapporto omosessuale mancano due elementi importanti. Il primo è la "diversità di genere", che conferisce una particolare coloritura di vita a ogni rapporto tra uomo e donna (o anche tra fratello e sorella, amico e amica, padre e figlia, madre e figlio). Infatti, in una famiglia dove i figli non sono tutti maschi o tutte femmine, c’è una dinamica più ricca. Il maschile è ricchezza per il femminile, e analogamente vale l’inverso. Chi se ne priva, resta impoverito.
Ma al rapporto omosessuale viene mancare un secondo elemento: la "fecondità procreativa". Qui è necessario intenderci bene. La procreazione è il più grande miracolo che avviene in natura. È come un "big bang" che irradia energia e vita in tutta la comunità, e non solo in coloro che generano questo fatto straordinario.
Nell’uomo e nella donna il rapporto coniugale cresce per il fatto che entrambi godono della presenza del figlio, e insieme diventano responsabili della sua vita. Il figlio dà origine a una fitta rete di nuove relazioni, che rende tutti più ricchi e più responsabili verso la vita. E, soprattutto, apre l’umanità al futuro.
Il rapporto omosessuale, anche se crea una relazione che sviluppa affettività, cura dell’altro, fedeltà, solidarietà…, non produce nelle persone e nella comunità quei beni che nascono dalla differenza di genere e dalla fecondità procreativa. Non svilupperà mai tutto il potenziale di vita contenuto nella sessualità, cioè nell’essere persone umane in modalità maschile o femminile.
Bisogna, allora, concludere che ogni comportamento omosessuale è illecito? Certamente no, se l’inclinazione omosessuale viene educata a esprimersi come affettività, aiuto, cura, solidarietà, disponibilità reciproca. Sono espressioni di vita che fanno crescere le persone. E fanno esistere anche nella comunità sentimenti umani costruttivi.
Ma, in ogni caso, è del tutto fuori luogo parlare di matrimonio e di famiglia. Sono termini lontanissimi dall’esperienza tra due persone dello stesso sesso.