Perchè per molte persone LGBT i locali gay sono il luogo dove essere se stessi
Articolo di Arwa Mahdawi pubblicato sul sito del quotidiano The Guardian (Gran Bretagna) il 14 giugno 2016, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Mi ci è voluto molto tempo per sviluppare la fiducia necessaria per farmi vedere in giro con Ellen. Era il 2001, avevamo 18 anni e studiavamo a Oxford. Eravamo allo Zodiac, un locale male in arnese. Ballavamo goffamente e goffamente ci baciammo. Il mio primo bacio lesbico in pubblico. Pochi secondi dopo, un’altra pietra miliare: la mia prima aggressione omofobica. Una ragazza mi afferrò scuotendomi, fece il gesto di vomitare, il volto abbrutito dall’odio. Abbandonai immediatamente il locale; era del tutto sfumata la fiducia che avevo quando ero entrata. Provavo vergogna.
Perché vi dico questo? Perché vi sto raccontando di una ragazza che si è comportata male con me quindici anni fa, quando 49 persone sono morte ammazzate un sabato sera ad Orlando e più di 53 sono rimaste ferite?
Vi dico questo perché la violenza, la violenza fisica e mentale, è la regola nella vita delle persone LGBT. Se siete fortunati, è una cosa banale – una ragazza che vi scuote e fa il gesto di vomitare – ma è comunque corrosiva. Non sottovalutate la sua potenza corrosiva. A un certo punto cominciate a corazzarvi con un’armatura. Indossate le vergogna come una seconda pelle. Vi sentite fuori posto ovunque.
Vi dico questo perché, quando ho sentito dell’attacco di Orlando e ho letto gli articoli online, metà delle fonti non dicevano nulla del club gay. Perdio, il New York Times in prima battuta non ha detto che il Pulse è un locale gay.
Per molte persone un locale è solo un locale. Ma non per gli omosessuali. Pochi mesi dopo l’incidente allo Zodiac presi l’autobus per Londra per incontrarmi con spacebabe07, una ragazza con cui avevo chattato. Andammo al Candybar, un bar lesbico di Soho. La buttafuori, visti i nostri capelli lunghi e il nostro nervosismo, inizialmente non voleva lasciarci entrare. Dovemmo rispondere a domande in codice per “dimostrare” che non eravamo etero. Questo pochi anni dopo che l’Admiral Duncan, un bar gay poco lontano, era stato oggetto di una bomba. Questo succedeva quando il Pride era un corteo di protesta, non un festival supersponsorizzato. La comunità LGBT era sul chi va là e proteggeva i suoi spazi.
Poi la buttafuori ci lasciò entrare. Quella prima volta passai la maggior parte del tempo a guardarmi i piedi. Il Candybar non era il posto più accogliente del mondo: non ci trovavi ragazza sedute per terra a cantare Kumbaya, pronte a riceverti nella sororità lesbica. Eppure non ho mai provato un tale senso di sollievo ed euforia. Per la prima volta in vita mia mi sentivo normale, come se un’invisibile pressione fosse sparita e potessi respirare. Sviluppai un’ossessione per i bar omosessuali.
Passai i seguenti dieci anni sballottata tra il Candybar, il Ghetto, il Trash Palace, il G-A-Y bar, lo Heaven, in una sorta di adolescenza lesbica. Stessa cosa quando andai a vivere a New York, sempre avanti e indietro tra il Cubbyhole e lo Stonewall. Due luoghi in quella città, che non fa altro che confonderti, dove mi sentivo davvero a casa mia. Metà delle persone che amo di più al mondo l’ho incontrata in quei locali. Sono loro la mia vita.
A proposito, se avete notato il mio nome arabo e vi aspettate un tragico coming out con tanto di scontro di civiltà, mi spiace deludervi. Ho fatto coming out con i miei genitori poco dopo la visita al Candybar, a 19 anni. Mio padre è palestinese, mia mamma inglese, e ambedue hanno reagito sostenendomi con amore e gentilezza. Non è mai stato un problema. Sono più fortunata di molte. Nonostante tutto questo amore, però, nonostante il fatto che casa mia sia sempre stata un luogo sicuro, non posso sopravvalutare l’importanza dei locali omosessuali per la mia fiducia e la mia salute mentale.
I locali omosessuali sono degli ospedali che mettono una pezza sulla ferite invisibili che abbiamo accumulato. Sono lo studio dello psicologo. Sono centri comunitari. Sono spazi sacri. I locali omosessuali sono tutto ciò che gli etero danno per scontato, tutto tra quattro mura spesso piuttosto sporche.
Di recente, tuttavia, ho deciso di abbandonarli. Di abbandonare le etichette in generale. Non volevo essere lesbica, bisessuale, queer o LGBTQ, volevo solo essere una persona. Finalmente mi trovavo a mio agio con me stessa, non avevo più bisogno dei locali omosessuali. Il mondo è cambiato, pensavo. Ora potevo baciare la mia ragazza allo Zodiac senza che nessuno battesse ciglio. Essere omosessuale non era più una tragedia, pensavo, perlomeno non in America. E forse c’erano altri che la pensavano così. I locali che frequentavo una decina di anni fa sono quasi tutti spariti. Il Candybar ha chiuso pochi anni fa: ora a Londra di bar per sole lesbiche non ce n’è nemmeno uno. I bar lesbici hanno chiuso anche in America: perché preoccuparsi degli spazi riservati alle persone omosessuali quando il mondo è più inclusivo?
Be’, le ultime 48 ore ci hanno spiegato il perché. Non solo perché ci sono persone piene d’odio che vogliono eliminarci fisicamente, ma perché ci sono altre persone che vogliono glissare sulla nostra esistenza, fare finta non esistiamo. Insistono sul fatto che la nostra tragedia è una tragedia qualunque.
Secondo loro un locale gay è solo un locale. È bello far finta che le etichette non contino nulla, però contano eccome. La gente muore per le etichette. In questo mese del Pride forse troverete buona parte della comunità LGBT stretta attorno a quelle etichette di cui a lungo abbiamo tentato di liberarci.
Testo originale: Kissing my girlfriend at the Zodiac: gay bars are everything straight people take for granted