Pier Paolo Pasolini e l’incontro con la Pro Civitate Christiana di Assisi
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Riflessioni di Luciano Ragusa
L’incontro tra Pier Paolo Pasolini e la Pro Civitate Christiana, dal quale scaturisce Il Vangelo secondo Matteo, è una “narrazione nella narrazione”, una parte di testo che, separato dall’intreccio, rivendica la propria autonomia. La Cittadella di Assisi (altro nome con cui è nota la PCC), associazione di volontari d’ispirazione cattolica, sorta nel 1939 grazie a don Giovanni Rossi, diventa, tra le tante attività, luogo d’iniziative legate alla “settima arte”. L’attività cinematografica è seriamente presa in considerazione dai membri, in quanto comprendono che, il XX secolo, reca l’indelebile impronta del cinema. Dunque, il sostegno all’audiovisivo a fini educativi, la promozione culturale attraverso congressi internazionali, pubblicazioni, ecc., si rivelano occupazione costante della Cittadella. I rapporti tra Lucio Settimio Caruso, l’allora direttore della sezione cinema della Pro Civitate, e il regista, cominciano l’8 febbraio 1962, quando, i protagonisti, concordano un’intervista, pubblicata poi sulla rivista Rocca, il cui esito possiamo così riassumere:
Grazie per la gentile accoglienza e per quanto mi ha detto. Solo quando avrà visitato il nostro Osservatorio e visto il nostro metodo di studi cristologici si potrà rendere conto della mia gratitudine e del piacere che ci ha fatto ricevendomi. […] Se lei crede alle possibilità di stima al di là della divergenza di alcune idee e alla possibilità d’intendersi conversando senza toni polemici, sarcastici né assiomatici, La prego di credere anche nella mia leale e disinteressata amicizia.
(pubblicata in T. Subini, curatore, Pasolini e la Pro Civitate Christiana. Un carteggio inedito, «Bianco & Nero», n. 1-3, inverno 2003, pag. 253).
Gentile Caruso, grazie per il seguito epistolare della Sua dolcezza. Non ho avuto tempo di fermarmi ad Assisi, stavolta. La mia vita è il contrario della vostra, benché la vostra sia in fondo il mio ideale. Ma spero di trovare il modo di venire a trovarvi, tra un film e l’altro, tra un processo e l’altro!
Molti cordiali saluti, Pier Paolo Pasolini.
(A. Giordano, N. Naldini, curatore, Pasolini. Le lettere, Garzanti, Milano, 2021, pag. 1233).
L’idea del Vangelo secondo Matteo
Considerando che la lettera di Caruso è datata 8 marzo, non passerà molto tempo affinché al poeta friulano venga offerta l’occasione di fermarsi ad Assisi: a fine settembre del 1962 è in programma l’annuale convegno che fa seguito al Gran premio OCIC (Organisation Catholique Internationale du Cinéma, associazione fondata a L’Aja nel 1928, nel quale si premiano film dall’indiscusso profilo umano, religioso, cinematografico), e, Pasolini, invitato al meeting, concorda la sua presenza a patto di non dovervi partecipare, perché in disaccordo con quei colleghi che usano la religione per i propri interessi personali. La permanenza alla Cittadella sarà “galeotta”, in quanto le circostanze consentiranno la rilettura del Vangelo di Matteo, e la decisione di trasporlo in sequenze sceniche. La genesi del film è raccontata da lui stesso in un’intervista su nastro rilasciata a Nazareno Fabbretti, giornalista, presbitero, membro dell’Ordine dei Frati Minori, che, il 19 novembre 1984, su Stampa Sera (quotidiano che, l’8 novembre 1975, pubblica l’ultima intervista a Pasolini rilasciata poche ore prima della morte, “Siamo tutti in pericolo”, con la firma di Furio Colombo), ne divulga il contenuto:
… Era il 2 ottobre 1962, stava per arrivare da Loreto Giovanni XXIII, il primo Papa che era uscito dal Vaticano e che veniva a pregare sulla tomba del Poverello per il destino del Concilio imminente. Ero sdraiato sul letto, mi piaceva ascoltare la città che ferveva di voci e passi, che bolliva di curiosità e felicità. Sentivo scalpicciare migliaia di piedi per le strade verso la grande basilica, tutte le campane stavano cominciando a suonare. Pensavo a quel dolcissimo Papa contadino che aveva aperti i cuori a una speranza che sembrava allora sempre più difficile, e al quale si erano aperte anche le porte di Regina Coeli, dove era andato a “guardare negli occhi” ladri e assassini, armato solo di un’immensa e arguta pietà. Sentii anch’io per un momento, il desiderio di alzarmi e andargli incontro, di vederlo da vicino e di guardarlo negli occhi. Ma mentre ormai le campane rombavano anche sulla mia testa, di colpo il desiderio di vederlo svanì. Mi resi conto che sarei stato un’irritante distrazione per molta gente; mi avrebbero accusato di cercare una facile pubblicità. Non mi sentivo il figliol prodigo e per molti quel gesto sarebbe stato soltanto una sceneggiata di cattivo gusto. D’istinto, allungai la mano al comodino, presi il libro dei Vangeli che c’era nella camera e cominciai a leggerlo dall’inizio, cioè dal primo dei quattro Vangeli, quello secondo Matteo… L’idea di un film sui Vangeli m’era venuta anche altre volte, ma quel film nacque lì, quel giorno in quelle ore… L’unico dunque al quale potevo dedicare quel film non poteva essere che lui, Papa Giovanni. E a quella cara “ombra” l’ho dedicato. L’ombra che è la regale povertà della fede, non il suo contrario.
(P.P. Pasolini, «dal nastro di una lontana intervista» pubblicata in N. Fabbretti, Quello che mi è rimasto di Pasolini fra incontri, paure, dolorosa poesia, «Stampa Sera», 19 novembre 1984).
L’idillio tra il cineasta e Caruso è scoccato, ma, diffusasi su scala nazionale la notizia della sua presenza ad Assisi, s’infiamma la polemica. Accende la miccia “La Nazione”, che, il 6 ottobre 1962, si chiede se il regista, in virtù della sua rabbia e del suo stile di vita, non cercasse nella città del poverello conforto e chiarezza. Pasolini taglia i ponti con la Pro Civitate Christiana, perché non accetta di passare per un convertito, ma, l’escalation violenta, cresce prima su “Il Secolo d’Italia”, nel quale, si parla di “un diavolo che si fa frate” (12 ottobre 1962); poi “Il Borghese” (25 ottobre 1962), che rincara criticando direttamente don Giovanni Rossi:
in passato […] questi signori erano molto meno numerosi di oggi, quelli che lo erano cercavano di nascondere tale “vergogna” e, infine, i pastori d’anime d’allora non li invitavano ai convegni indetti per la costruzione di una “cultura cristiana”.
Nello specifico la polemica si placa, anche perché, nell’immediato futuro, il bersaglio diretto contro cui pontificare diventa La ricotta, episodio di Rogopag (acronimo di Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti), girato dai quattro registi tra novembre e dicembre 1962 e distribuito nelle sale due mesi dopo. Il putiferio è immediato: in un cinema di Roma la polizia irrompe a proiezione in corso e sequestra la pellicola, e Pasolini, nel frangente, è accusato di “vilipendio alla religione di Stato” (la prima volta che accade nella storia del cinema). Il processo, celebrato per direttissima, si svolge il 1° marzo 1963, e si conclude con la colpevolezza dell’imputato a quattro mesi di reclusione con la condizionale; in più, il film, è sequestrato sull’intero territorio nazionale. Un anno dopo la Corte d’Appello di Roma, a cui Pasolini è ricorso, lo assolve perché “il fatto non costituisce reato”.
Malgrado tutto, l’amicizia profonda tra don Giovanni e il poeta di Casarsa della Delizia si rafforza, anche perché, nel frattempo, l’idea di girare il Vangelo si trasforma in un’esigenza sia estetica che spirituale:
[…] Col passare dei giorni e poi delle settimane, questa idea si è fatta sempre più prepotente e esclusiva: ha cacciato nell’ombra tutte le altre idee di lavoro che avevo nella testa, le ha debilitate, devitalizzate. Ed è rimasta solo lei viva e rigogliosa intorno a me.
(A. Giordano, N. Naldini (a cura di), Pasolini. Le lettere, Garzanti, Milano, 2021, pag. 1239).
Il progetto reca con sé una serie di criticità di cui il regista è pienamente cosciente: Alfredo Bini, suo storico produttore, dopo l’esperienza de La ricotta, chiede garanzie precise sul risultato finale, le quali, possono essere date solo dagli amici della Cittadella di Assisi.
L’idea di fondo del film è di trasferire su pellicola il Vangelo di Matteo con stringente aderenza filologica, senza introdurre licenze artistiche che si discostano dal testo. Don Giovanni e “i suoi candidi seguaci di Cristo” diventano i consulenti tecnici di Pasolini, che, ad ogni avanzamento di sceneggiatura, si confronta con loro sulla correttezza interpretativa, e dunque scenica, del film. Don Andrea Carraro, biblista della PCC, diventa il riferimento principale con cui il cineasta dibatte gli approfondimenti teologici necessari alla realizzazione:
Caro don Andrea,
[…] Avrei bisogno cioè, di una serie di piccoli appunti, telegrafici, sulle figure degli apostoli, (età all’epoca della predicazione di Cristo, caratteristiche biografiche e psicologiche, ecc.): bastano poche righe per ognuno.
(A. Giordano, N. Naldini (a cura di), Pasolini. Le lettere, Garzanti, Milano, 2021, pag. 1242).
Epico è il viaggio che i due compiono in Palestina, su richiesta di Bini, alla ricerca di luoghi e personaggi da inserire nel film, ma, la modernizzazione delle città visitate, spogliate del loro carattere antico, dirottano la sensibilità cinematografica di Pasolini su altre geografie incontaminate, come per esempio alcune regioni del Sud Italia come la Basilicata, i cui Sassi di Matera, assumono l’onere di sfondo privilegiato della storia. Il girato del viaggio si trasforma nel docu-film Sopraluoghi in Palestina, proiettato per la prima volta nel 1965 al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Naturalmente, la ricerca di scenari e volti in Italia per il Vangelo, avvenuta prima della trasferta palestinese, si concretizza nella lavorazione dei Comizi d’amore (cfr. scheda), che diventa, a causa di una campagna denigratoria, elemento d’attrito tra Pasolini e la Cittadella, superato solo dalla grande stima e sincerità reciproca:
Caro Caruso, capisco le perplessità che le può aver causato l’apparato, diciamo così, “esterno”, del mio “DON GIOVANNI”, (è questo il titolo forse definitivo dell’inchiesta), e quindi la sua facile pretestualità, per le solite esasperanti, inumane speculazioni della gente posseduta dal Demonio: ma, mi creda, anche questa volta si tratta di illazioni infondate. Il mio film-inchiesta, non solo sarà privo di tutti quegli elementi di comportamento erotico o scandaloso (nel senso facile della parola) di cui viene accusato: ma sarà addirittura un film severo, e assolutamente rigoroso nel non concedere nulla, nulla, al pubblico qualunquista e superficiale. […] Ad ogni modo […] le prometto che appena finito io lo farò vedere, prima di ogni altro, a lei e ai suoi colleghi della “Pro Civitate”. […] Se il film vi piacerà […] benissimo: Bini lo potrà far uscire quando vorrà. […] È assolutamente mio dovere, data la collaborazione così cara, sincera e veramente cristiana, che voi mi avete dato finora per il Vangelo. […] Riceva, caro Caruso, il più affettuoso saluto, e lo porga a tutti gli altri suoi colleghi della “Pro Civitate”, anche quelli più polemici.
Suo dev.mo, Pier Paolo Pasolini
(A. Giordano, N. Naldini (a cura di), Pasolini. Le lettere, Garzanti, Milano, 2021, pp. 1245-6).
È il momento del tanto agognato Il Vangelo secondo Matteo (1964), alla quale, sarà dedicata una scheda specifica. Concluso l’iter che sospinge il Vangelo di Pasolini a vincere il Premio speciale della giuria alla XXV Mostra del Cinema di Venezia, e il Premio OCIC, il poeta si ritrova, con sua madre Susanna Colussi, a trascorrere il Natale ad Assisi con i fratelli. Una lettera spedita a don Giovanni Rossi, scritta a Roma il 26 dicembre 1964, di straziante bellezza, che vale la pena riportare, testimonia il rispetto, la stima, l’amicizia tra le parti:
Caro Don Giovanni, La ringrazio tanto per le sue parole della notte di Natale: sono state il segno di una vera e profonda amicizia, non c’è nulla di più generoso che il reale interesse per un’anima altrui. Io non ho nulla da darle per ricompensarla: non ci si può sdebitare di un dono che per sua natura non richiede d’essere ricambiato. Ma io ricorderò sempre il suo cuore di quella notte. Quanto ai miei peccati… il più grande è quello di pensare in fondo soltanto alle mie opere, il che mi rende un po’ mostruoso; e non posso farci nulla, è un egoismo che ha trovato il suo alibi di ferro in una promessa con me stesso e gli altri da cui non mi posso sciogliere. Lei non avrebbe mai potuto assolvermi da questo peccato, perché io non avrei mai potuto prometterle realmente di avere intenzione di non commetterlo più.
Gli altri due peccati che lei ha intuito sono i miei peccati “pubblici”: ma quanto alla bestemmia, glielo assicuro, non è vero. Ho detto delle parole aspre con una data Chiesa e un dato Papa: ma quanti credenti, ora, non sono d’accordo con me? L’altro peccato l’ho ormai tante volte confessato nelle mie poesie, e con tanta chiarezza e con tanto terrore, che ha finito con l’abitare in me come un fantasma famigliare, a cui mi sono abituato, e di cui non riesco più a vedere la reale, oggettiva entità. Sono “bloccato”, caro Don Giovanni, in un modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. La mia volontà e l’altrui sono impotenti.
E questo posso dirlo solo oggettivandomi, e guardandomi dal suo punto di vista. Forse perché io sono sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata, ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio.La ringrazio ancora, con tutto l’affetto, suo Pier Paolo Pasolini
(A. Giordano, N. Naldini (a cura di), Pasolini. Le lettere, Garzanti, Milano, 2021, pp 1297-98, nel quale è ricostruito per intero il percorso di pubblicazione della lettera).
Uccellacci e uccellini
Conclusa l’epopea del Vangelo, e dopo un periodo di riposo, Pasolini elabora il progetto di Uccellacci e Uccellini: all’interno della sceneggiatura è previsto il racconto di Ciccillo e Ninetto (Totò e Ninetto Davoli), due frati francescani cui san Francesco intima di evangelizzare i falchi e i passeri. Vista la collaborazione proficua avuta con gli amici di Assisi, al cineasta balena l’ipotesi di sottoporgli il testo, soprattutto nella digressione scenica che riguarda i due frati francescani. Questa volta, l’intesa, sembra oltremodo difficile, perché sebbene il regista rivendichi la continuità con Il Vangelo secondo Matteo, non convince né don Andrea Carraro, né Lucio Caruso, che in una lettera del 7 ottobre 1965 così si esprimono:
Aderendo affettuosamente alla gentile Sua preghiera di suggerire modifiche alla sceneggiatura di “Uccellacci e uccellini” […] ci siamo trovati nell’incapacità assoluta di apportare correzioni e modifiche, […] Un film che da noi purtroppo non può che essere disapprovato. Anche tagliando le parti più irriverenti […] temo che questo film non potrà evitarLe dolorose conseguenze. Se Lei è tuttora dell’idea espressami l’altro ieri di voler parlare della “religione” (cioè quello che Lei intende: mistero e morte) senza attaccare o ridicolizzare il cattolicesimo, dovrà adottare delle decisioni radicali, togliendo tutte le parole e immagini che sono pertinenti al cristianesimo o anche lontanamente lo adombrano.
(pubblicata parzialmente in T. Subini, La necessità di morire. Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro, Eds, Frames, Roma, 2008, pag78-79; ripresa, nella sua interezza, in A. Giordano, N. Naldini, cit., pag. 1315).
In realtà, telefonicamente, Caruso istruisce Pasolini sulla missiva prima che questa giunga a destinazione, sicché, scioccato dal contenuto, il regista anticipa una lettera di risposta che vede don Giovanni Rossi come mittente. Il tono di essa è di supplica, compassione, richiesta di non essere escluso a priori: il cineasta rivendica la fiducia e la stima conquistata negli anni precedenti, e chiede l’intervento, anche robusto, sulla sceneggiatura, degli amici della Pro Civitate Christiana.
Purtroppo, l’accorata lettera, datata 8 ottobre 1965, è troppo estesa per poterne riportare anche una parte senza perdere contenuti ineludibili alla sua comprensione. Vale la pena, invece, riportare sprazzi delle risposte che Lucio Caruso e don Giovanni Rossi inviano al cineasta (13 ottobre 1965), ciascuno a suo nome, ma con una posizione concordata insieme:
Mio caro dottor Pasolini! Abbiamo lavorato per tre giorni e sono felice che si è giunti alla decisione della quale Don Giovanni Le scrive in pari data. La Sua lettera è stata determinante nel darci icasticamente conferma del Suo stato d’animo di poeta che si accinge a fare opera di alta poesia e della Sua sincerità alla quale abbiamo sempre creduto. […] In attesa di rivderLa domenica, si abbia tanti affettuosi saluti.
Suo Lucio
Mio carissimo Pierpaolo, la tua lettera mia ha veramente commosso. Voglio subito assicurarti che l’amicizia, la stima, la preghiera nostra per te non avranno mai un’attenuazione, e saranno sempre più cordialiCi domandi fiducia e pazienza, e te la diamo con molto cuore. Perdonami se non ti ho risposto immediatamente, ma qui per due giorni non abbiamo fatto che leggere e discutere sul tuo copione.
E abbiamo concluso che esso, per ora, come tu mi hai scritto, è in forma letteraria e non cinematografica, per cui, secondo la tua medesima indicazione, non è possibile giudicarlo, né in sé stesso né nelle singole parti. La tesi […] che la religiosità è un’esigenza imprescindibile dell’uomo e che né il razionalismo né il marxismo riescono a esaudirla, ma solo il Cristianesimo potrà soddisfarla nella sua missione di fraternità tra gli uomini, è ottima, ma sarà necessario che tu più chiaramente la faccia visibile. […] Ti bacio.
D. Gio. Rossi
(entrambe le lettere sono contenute in A. Giordano, N. Naldini (a cura di), Pasolini. Le lettere, Garzanti, Milano, 2021, pp. 1315-16).
Il progetto dunque va avanti, ed effettivamente, il poeta friulano, interviene sulle segnalazioni ritenute “critiche” dagli amici della Cittadella. A dimostrarlo è il confronto tra la sceneggiatura originale e quella adoperata per il film vero e proprio; oltre a delle missive spedite da don Andrea Carraro dove appunta pagine del copione difficilmente condivisibili (cfr. A. Giordano, N. Naldini (a cura di), Pasolini. Le lettere, Garzanti, Milano, pp. 1323-28).
Il 1966 è l’anno d’uscita di Uccellacci e uccellini e, sebbene la Pro Civitate Christiana non si pronunci sulla pellicola, ne avvalora la bontà invitando il film ad aprire il Convegno di cineasti alla Cittadella. Inoltre, piace molto alla critica cattolica, in particolare la Rivista del cinematografo, mensile di informazione cinematografica nato nel 1928, che, nel 1937, viene rilevato dal Centro cattolico cinematografico; negli anni 60’, la rivista, apre a pellicole di rottura come quelle di Pasolini.
Non poteva essere altrimenti, perché dietro il Centro c’è la figura di monsignor Francesco Angelicchio, il quale, senza devozionismi, dedica il suo sacerdozio alla “settima arte”, divenendo, per questo, interlocutore privilegiato sull’argomento di papa Paolo VI. A questo si aggiunge una voce, che circola ormai da tempo, che Pasolini ha in testa un film sulla figura di san Paolo, tema a cui “don Checco” è davvero interessato, ma che un profondo cambiamento, relativo alla totale sfiducia di qualsiasi istituzione terrena da parte del regista, non ne consentirà la realizzazione.
Teorema
C’è un altro momento, in questo complesso intreccio, in cui i destini della Pro Civitate Christiana e l’intellettuale friulano s’incrociano: nel 1968 Pasolini gira Teorema, opera nata idealmente in versi per il teatro, dopodiché sceneggiatura, il cui soggetto è l’irruzione del “sacro” all’interno di una famiglia borghese del Nord Italia. Quando può, il regista, partecipa ai convegni sul cinema e sulla letteratura organizzati ad Assisi, ma purtroppo, Teorema, mette fine, se non all’amicizia, alla possibilità di sviluppare progetti in comune. Cosa c’è dietro il film che spaventa il progressismo cattolico? Cos’è cambiato nell’autore da giustificare un dietrofront?
Se fino al 1966 l’antropologo Pasolini era parzialmente persuaso che un certo cristianesimo potesse operare una sintesi tra il senso religioso, insito negli uomini, e una razionalità che si manifesta nelle istituzioni, d’ora in poi non è più possibile. L’Italia è in stato di avanzamento, nel quale uno sviluppo senza costrutto, dominato da un capitalismo in grado orientare le coscienze verso l’abuso dei consumi, costringe il poeta alla spietatezza dei giudizi. Tra il 1967 e il 1970, l’intellettuale friulano si spende nella costruzione di opere in cui il ritorno al mito greco, e una rinnovata riflessione sul tema della morte, dominano la sua immaginazione creativa.
La terra vista dalla luna e Che cosa sono le nuvole? (cfr. schede), sono pellicole che precedono Teorema, e nelle quali la morte diventa occasione di riscatto della vita. Nella sua mente è già chiara la teoria della “morte come montaggio”, applicata perfettamente anche in Edipo re (1967), dove il trapasso è l’occasione per fare della vita una storia, così come i km di pellicola offrono al montaggio la possibilità del film stesso. In Edipo re c’è inoltre il recupero del mito greco, sebbene mescolato ad elementi autobiografici, che vedrà il pieno sviluppo in Medea (1969).
Ma come dicevamo poco sopra è Teorema (1968) a sconvolgere! Qui le riflessioni intorno al sacro, che hanno sempre caratterizzato il pensiero dell’autore, trovano quella formulazione teoretica che impedisce tentativi di mediazione: nella famiglia borghese protagonista piomba il mistero, cioè qualcosa che precede la grammatica con cui si racconta il mito, la religione. Ammesso che lo si percepisca, il sacro atterrisce, sbigottisce, e la sua mancanza lenisce solo a patto di eliminare tutto ciò che perturba il nesso irrazionale che instrada verso la sua percezione. Pasolini, supportato da Mircea Eliade ed Ernesto de Martino, antropologi e storici delle religioni, si avventura in una spiegazione classista della vicenda, tant’è, che solo la serva, dunque il sottoproletariato, ancora parzialmente immune dall’orrore consumista, può sciogliersi nella Grazia divina. Per tutti gli altri la connessione è interdetta, e vengono lasciati alle rispettive forme di follia individuale.
Se questo non bastasse, il cineasta individua nella sessualità il veicolo con cui entrare in contatto con il sacro, con una predilezione, dunque, per l’aspetto dionisiaco dell’esperienza, che mescola la rosa dei venti con cui ci orientiamo nel mondo.
Dentro il film, Pasolini, introduce elementi che appartengono al mito cristiano, motivo per il quale, chiede di nuovo aiuto agli amici di Assisi. La collaborazione, a causa della materia da maneggiare, è davvero scarsa, e per volere stesso del cineasta (non è più propenso a mediare). E può essere sintetizzata nell’aiuto di Lucio Caruso nel trovare il brano biblico con cui si apre la pellicola, Dio fece quindi piegare il popolo per la via del deserto (Es 13,18), assunto di fondo dal quale si struttura il teorema pasoliniano, ovvero, se Dio riconducesse il popolo nel deserto, che succederebbe?
Ascrivibile, dunque, all’ambiguità di fondo dell’opera, la rottura definitiva tra i cattolici progressisti e Pasolini: la pellicola concorre a Venezia e anche questa volta, come per il Vangelo, la giuria OCIC assegna il premio a Teorema; il 15 settembre 1968 “L’Osservatore Romano” pubblica, a firma del Centro cattolico cinematografico (ricordate don Checco?), una disarmante invettiva contro il film; e il 18 settembre, sullo stesso quotidiano, papa Paolo VI interviene intimando di bloccare la proiezione di film che dichiara “inammissibili alla linea ecumenica”. Alla giuria OCIC non resta che togliere il riconoscimento a Teorema, a cui Pasolini, il 31 marzo 1969, risponde così:
Che l’Ufficio cattolico internazionale del cinema si tenga il suo premio e possono riprendersi indietro anche quello che mi diedero per il Vangelo secondo Matteo. Sto preparando un film sulla vita di san Paolo, per cui naturalmente, continuerò il mio “dialogo” ma con preti indipendenti e colti e forse un giorno con preti separatisti.
(Italo Moscati, Pasolini e il Teorema del sesso, il Saggiatore, Milano, 1995, pag. 181).
Finisce qui il rapporto tra la Pro Civitate Christiana e Pasolini. Non sono a conoscenza di scambi epistolari tra Lucio Caruso, don Andrea Carraro, don Giovanni Rossi, posteriori al 1968. Non termina l’indagine sul sacro, che Pasolini prosegue con Porcile e Medea, prima di avventurarsi nel territorio della “trilogia della vita”, alla successiva abiura, fino a Salò.
Tanti sono i seminari, le giornate di studio, le proiezioni che si susseguono tuttora alla Cittadella, a dimostrazione che Pasolini è nel loro cuore; e che il cuore del poeta ha beneficiato di quel sentimento, l’amicizia profonda, in mancanza della quale, il peso dell’esclusione che il regista sentiva costante su di sé, sarebbe stata meno sopportabile.
Un’ultimissima cosa: don Giovanni Rossi muore il 27 ottobre 1975, cinque giorni prima dell’assassinio di Pasolini… Forse, all’idroscalo di Ostia, don Giovanni era presente… O forse, mi sono innamorato troppo di questa storia!
Bibliografia
Indispensabili per la ricostruzione del rapporto tra Pasolini e la Pro Civitate Christiana:
- Fabbretti, Quello che mi è rimasto di Pasolini fra incontri, paure, dolorosa poesia, «Stampa Sera», 19 novembre 1984.
- Giordano, N. Naldini (a cura di), Pasolini. Le lettere, Garzanti, Milano, 2021.
- Moscati, Pasolini e il Teorema del sesso, il Saggiatore, Milano, 1995.
- Pozzetto, Lo cerco dappertutto. Cristo nei film di Pasolini, Àncora, Milano, 2007.
- Subini, La necessità di morire. Il cinema di Pier Paolo Pasolini e il sacro, Eds, “Frames”, Roma, 2008.
- Subini (a cura di), Pasolini e la Pro Civitate Christiana. Un carteggio inedito, «Bianco & Nero», n. 1-3, inverno 2003.