L’omocausto di Pierre Seel. Una storia di sofferenza e passione
Articolo di Mario Kramp tratto dal sito Culture & questions qui font débat (Francia), primavera 1997, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Nell’ora in cui ci si è finalmente decisi a scrutare con maggiore obiettività la storia della Francia sotto l’Occupazione, noi speriamo che si sviluppi un autentico lavoro di ricerca sulla storia dell’omosessualità e degli omosessuali durante quel periodo. Il testo che segue è un estratto della postfazione dell’edizione tedesca di “Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel” (Io, Pierre Seel, deportato omosessuale), di Pierre Seel, scritto con Jean Le Bitoux, uscito nel 1994 per le edizioni Calman-Lévy.
“Avevo diciassette anni e sapevo bene che correvo dei rischi a frequentare quel giardinetto situato tra il liceo e la casa di famiglia…” Così comincia il racconto di Pierre Seel, che racconta tranquillamente, arrivato a settantatré anni, il cammino movimentato della sua vita – un’altra storia appassionante, assurda e crudele. […]
Cresciuto in Alsazia, in una “famiglia borghese come le altre”, si ritrova a diciassette anni, per caso e per ingenuità, schedato dalla polizia francese come habitué di un luogo conosciuto nella sua città per essere un punto di ritrovo di omosessuali. Al momento dell’invasione tedesca del 1940 questo sarà la sua sfortuna poiché le nuove autorità naziste intraprendono un “censimento degli omosessuali alsaziani”.
Come molti dei suoi compagni di sofferenza omosessuali, Pierre Seel percorrerà un lungo calvario nelle prigioni e nei campi di concentramento nazisti, tra interrogatori brutali e sessioni di tortura. Vedrà il suo amico selvaggiamente assassinato, fatto a brandelli e divorato, di fronte a centinaia di testimoni, dai cani delle SS. Alla fine avrà salva la vita e verrà trasferito al Servizio Nazista per il Lavoro Obbligatorio, poi inviato tra i “Malgré nous” alsaziani e lorenesi, una lunga odissea nell’esercito tedesco.
“La vera liberazione era riservata agli altri”, poiché la ragione del suo internamento e della sua deportazione, Pierre Seel ha dovuto nasconderla per quasi quarant’anni, i suoi “anni di vergogna”. Omosessualità e campi di concentramento restavano rigorosamente tabù nella sua famiglia. Si decise allora a cominciare una nuova vita nell’eterosessualità, sposandosi e fondando una “famiglia normale” nell’ambiente borghese cattolico. […]
Pierre Seel impiegherà molto tempo a uscire, dapprima timidamente, dal suo guscio, poi si deciderà a ingaggiare una vera lotta. Con il sostegno di Jean Le Bitoux racconterà la storia della sua esistenza e prenderà vigorosamente partito per le vittime dimenticate e contro una politica che non riconosceva quelle vittime a causa della discriminazione.
Uno studio di un celebre scrittore francese, apparso poco dopo la fine della guerra, nel settembre-ottobre 1945, diceva a proposito della “Collaborazione” (del regime francese di Vichy con la Germania nazista): “Il collaboratore parla a nome della forza, ma non è la forza. È la furberia che si appoggia sulla forza, è anche il sortilegio e la seduzione, perché si vanta di giocare con il fascino che attraverso di lui la cultura francese esercita sui Tedeschi. Mi sembra che qui ci sia una strana mescolanza di masochismo e omosessualità. Del resto, gli ambienti omosessuali parigini hanno prodotto una numerosa, nuova e brillante generazione.”
Questo testo sottintendeva che “gli omosessuali francesi” avessero avuto una parte importante nel gioco della marziale seduzione esercitata dagli occupanti tedeschi, e supponeva egualmente un legame intrinseco tra omosessualità e fascismo. Questo fu uno degli argomenti classici della critica “di sinistra” del fascismo in Germania e Francia a partire dagli anni ’20, poi nella stampa degli esiliati [tedeschi] degli anni ’30, e ancora a lungo dopo la fine della guerra. È vero che certi omosessuali si lasciarono irretire dalle fanfaronate machiste dei rituali nazionalsocialisti – non furono i soli, erano assieme a milioni di altri. Ma questo testo non dice una parola sugli omosessuali che furono vittime del nazismo.
L’autore era il filosofo Jean-Paul Sartre. Nella sua ultima intervista, il 23 febbraio 1980, alla domanda “Perché nei vostri scritti politici non si trova una parola sullo sterminio degli omosessuali da parte di Stalin e Hitler?”, rispose: “È perché ignoravo quel tipo di massacri, se fossero sistematici e quante persone fossero state coinvolte. Non ero sicuro. Gli storici ne parlavano poco…” Questo tema delle “vittime dimenticate” del nazionalsocialismo era rimasto tabù per decenni, dal 1945 agli anni ’80, in Francia come in Germania.
Le cause profonde risiedevano nella discriminazione praticata dalla società nei confronti degli omosessuali. L’omofobia si è espressa ovunque, nel fascismo, nello stalinismo, ma anche nelle democrazie borghesi, manifestando la sua esistenza e la sua intensità nel diritto penale. In Francia, l’eliminazione della repressione contro gli omosessuali fu una conquista della Rivoluzione. In Germania, il [famigerato] paragrafo 175 esisteva dal 1871 e puniva anche con la prigione l’omosessualità tra adulti consenzienti.
L’omosessualità femminile era oggetto di una analoga discriminazione ma non era soggetta a incriminazione penale, che invece le leggi naziste enunciarono esplicitamente. La persecuzione delle lesbiche sotto il Terzo Reich è un campo di ricerca particolare che ha dato vita a pochissimi lavori, come dimostra la memoria della storica Claudia Schoppmann (Politique sexuelle national-socialiste et homosexualité féminine, Pfaffenweiler 1991).
Nel 1930 il paragrafo 175 doveva essere soppresso, per effetto di una petizione [dovuta al medico Magnus Hirschfeld] alla quale si associarono dei prestigiosi movimenti per i diritti dell’uomo e del cittadino e quasi tutta l’élite intellettuale e artistica della Repubblica di Weimar. Ma l’ascesa del nazismo lo impedì, e la legge fu invece fortemente inasprita nel 1935, per punire con la prigione la semplice presunzione di omosessualità, il che spalancava la porta alla delazione. In seguito non ci fu solamente la prigione, ma anche i campi di lavoro e di concentramento, che erano situati anche nei territori occupati.
Nel 1942 la repressione penale dell’omosessualità venne ristabilita in Francia dal regime di Vichy, punendo con la prigione anche gli adulti consenzienti di sesso maschile. Dopo la guerra, quella repressione non fu riconosciuta né in Germania né in Francia come ingiustamente imposta dalle leggi naziste e le vittime omosessuali non ottennero alcun tipo di indennizzo. La Repubblica Federale Tedesca conservò fino al 1969 la redazione nazista del paragrafo 175, considerato una disposizione “normale”, mentre la DDR ne aveva ripreso il testo originale, in vigore fino al 1968.
Anche in Francia la legislazione antiomosessuale di Vichy venne mantenuta fino al 1982, quando fu abrogata grazie allo zelo legislativo dei primi anni del governo socialista, sotto la presidenza di François Mitterand. Certamente nei due Paesi l’omosessualità tra adulti non era di fatto più punita dal 1968/69, ma sussisteva una repressione penale particolare per le relazioni tra adulti e minori, con un limite di età più basso e pene più severe che per le relazioni eterosessuali. Nella DDR la legge fu abrogata nel 1988 e la Repubblica Federale fu obbligata a seguire a ruota: ma è solo dal 11 giugno 1994 che nella Germania riunificata non esistono più disposizioni penali specifiche contro gli omosessuali.
Nel 1945 “la vera liberazione era riservata agli altri” diceva Pierre Seel. Poiché per lui e per innumerevoli omosessuali cominciavano gli “anni della vergogna”. Minacciati di incarcerazione, talvolta condannati dagli stessi magistrati di prima del 1945, gli omosessuali dei due Paesi dovettero accettare un’esistenza intrisa di angoscia.
Per coloro che erano tornati dai campi nazisti fu ancora più dura. Si sa che numerosi sopravvissuti al terrore hitleriano – come ancora oggi degli Ebrei che vivono in Israele – non poterono uscire dal loro silenzio per vergogna dell’indicibile e per senso di colpa di fronte ai compagni scomparsi. Ma per gli omosessuali si aggiungeva il terribile fardello di figurare, nel loro sistema sociale quale che fosse, tra gli esclusi, tra coloro che non erano riconosciuti, quelli che ufficialmente erano stati “giustamente condannati”.
Gran parte di essi interiorizzarono quella posizione e quella scala di valori, il che li rese doppiamente vittime, oltre che colpevoli. Negli anni ’70 e ’80 si formarono in Francia e nelle due Germanie, in seguito all’evoluzione dei costumi, dei movimenti per i diritti degli omosessuali, decisi a spezzare i blocchi sociali che li stigmatizzavano.
Dopo il 1968 una nuova generazione era arrivata all’età adulta, assumendo una posizione critica sul comportamento del proprio Paese di fronte alla propria storia. Pierre Seel racconta con vivacità, nell’ultimo capitolo del libro, come si avvicinò a quei movimenti, prima nell’anonimato e pieno di esitazione, poi impegnandosi sempre più vigorosamente per rompere il muro di silenzio e reclamare il riconoscimento dei suoi diritti e di quelli dei suoi vecchi compagni di prigione e di campo.
Quando nel 1994 apparve in Francia l’autobiografia di Seel il tabù era rotto, doppio tabù delle sofferenze degli omosessuali come lui perseguitati dai nazisti tedeschi, e della storia del regime di Vichy e del suo retaggio nella Francia del dopoguerra. Vichy è rimasta, per molti Francesi fino a un’epoca recente, un trauma, un capitolo poco studiato della storia nazionale. Dopo il 1945 la versione ufficiosa era che i crimini dal 1940 al 1944 erano stati commessi dai Tedeschi o ordinati dai nazisti e che la maggioranza dei Francesi era stata contro Vichy, quando non erano stati degli attivi resistenti.
La sola autentica Francia era stata quella della Resistenza e dell’esilio, quella che, con gli Alleati, doveva nel 1944 liberare il Paese dall’occupazione tedesca. Non spetta a un Tedesco esprimere un giudizio su questo tema, e non è affatto questione di ridurre la portata di un gran numero di atti di solidarietà né i meriti della Resistenza francese. Ma Hannah Arendt ha posto molto presto la domanda se tale maniera di assimilare il passato non fosse, sotto certi aspetti, un po’ facile.
A partire dagli anni ’70 molti intellettuali francesi criticarono sempre più quella coscienza del passato nel loro Paese e additarono il silenzio che copriva i crimini commessi dai Francesi. Ancora oltre, le ricerche fatte dagli storici portavano a delle conclusioni che contraddicevano l’iconografia ufficiale, soprattutto in materia di antisemitismo e di persecuzioni antiebraiche.
Su questi due punti Vichy si rivelò essere stata un’ausiliaria anche troppo compiacente del regime nazista, sostenuta o perlomeno ben supportata da un numero di Francesi più grande di quanto si fosse voluto ammettere. Questo sconcertante stato di fatto fu messo in evidenza in occasione di diversi processi e scandali, per esempio negli anni ’80, attorno al processo del “boia di Lione” Klaus Barbie, o nel 1993 nell’affare Bousquet (ex capo della polizia parigina), o ancora nel 1994 a proposito di una supposta implicazione del giovane François Mitterand nel regime di Vichy.
Lo stesso presidente Mitterand aveva spezzato il tabù nel 1992, parlando del “crimine francese” in occasione del cinquantesimo anniversario della prima grande retata di Ebrei parigini. Ma sulle persecuzioni di omosessuali doveva regnare ancora a lungo il silenzio.
Solamente qualche mese dopo la comparsa del suo libro in Francia Pierre Seel fu riconosciuto ufficialmente come ex deportato, senza però esserlo come omosessuale vittima del nazismo. Come indennizzo per il lavoro obbligatorio e per la mobilitazione forzata nell’esercito tedesco dal 1942 al 1945 lo Stato francese gli versò un forfait di 9.100 franchi e gli assegna ormai una pensione mensile di 4.800 franchi. Seel vive molto modestamente in una casa popolare a Tolosa. Hanno già inciso le lettere PD [“pédé”, ossia “pederasta” n.d.t.] sulla carrozzeria della macchina, imbrattato la porta d’ingresso con la parola “Giudeo”, riempito la sua buca delle lettere di messaggi osceni.
Due anni fa venne attaccato una sera in una zona pedonale di Tolosa da dei giovani che l’avevano riconosciuto per via di una trasmissione in cui era comparso come testimone dell’epoca. Gli urlarono “sporco pedofilo”, lo picchiarono e lo costrinsero a inginocchiarsi davanti a loro. Malgrado le sue grida di aiuto i giovani non si allontanarono che quando il padrone di un negozio vicino corse verso di lui. Quello che ha particolarmente scioccato Pierre Seel è che non si trattava affatto di skinhead, ma di una ragazza della borghesia e di tre ragazzi in giacca e cravatta.
Lo studio della persecuzione degli omosessuali sotto il Terzo Reich cominciò timidamente solo verso la fine degli anni ’70 e fu oggetto di discorsi politici pubblici solo verso la metà del decennio seguente, quindi quarant’anni dopo la fine della guerra e la “liberazione”. Nelle università tedesche il tema non è ancora oggetto di alcuno studio, eccettuati qualche memorandum e tesi e un progetto pilota a Brema.
In mancanza di ricerche ufficiali l’avanzamento delle conoscenze dipende dall’impegno personale e dal lavoro volontario di un piccolo numero di specialisti che risiedono in diverse città come Berlino, Colonia, Amburgo o Hannover.
Se ancora molto poco è conosciuto su cosa è successo nelle altre regioni, questo dipende meno dallo stato degli archivi che dalle attività insufficienti sul terreno. Ma il riconoscimento pubblico dei fatti si allarga e progressivamente gli archivi si aprono. Tali ricerche costano tempo e denaro.
Ma fin da ora si delinea, grazie anche a dei contributi internazionali, un quadro pieno di contrasti delle persecuzioni di omosessuali all’epoca nazista, secondo la loro evoluzione o il carattere dell’ideologia soggiacente, o ancora confrontandole con quelle degli altri gruppi perseguitati, come gli Ebrei, gli oppositori politici, gli Zigani e altri Gitani, i “malati mentali”, i testimoni di Geova, per non citare che questi.
Gli “esecutori compiacenti delle volontà hitleriane” instaurarono un regno di terrore sempre più duro per gli omosessuali, con grandi differenze a seconda delle epoche e delle regioni: prime retate, poi irrigidimento della repressione penale, sperimentazione medica sull’essere umano, infine sterminio sistematico nei campi. Il contesto ideologico di quegli abusi fu un odio generalizzato contro gli omosessuali e uno sfruttamento dei pregiudizi regnanti per realizzare degli obiettivi politici, ma anche, come dimostra l’esempio personale di Himmler, una omofobia che aveva profonde radici in alcuni dei protagonisti.
Bisogna invece relativizzare – beninteso con molta prudenza – l’idea che ci sarebbe stata fin dall’origine una persecuzione sistematica di tutti gli omosessuali, con l’obiettivo finale dell’eliminazione fisica. Non si tratta affatto di negare la sofferenza individuale di migliaia di vittime perseguitate fino allo sterminio nei campi, né le torture morali del dopoguerra.
Si tratta di appuntare lo sguardo sulle strutture storiche del terrore e dell’ideologia nazista, ma anche su quelle della discriminazione applicata agli omosessuali da parte della società, compresa la triste continuità attuale. La storia personale dell’alsaziano Pierre Seel rende evidente ai nostri occhi tutto questo, molto meglio della banale descrizione amministrativa di una bestialità espressa da innumerevoli documenti d’archivio.
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Testo originale: La déportation homosexuelle : postface de l’édition allemande de « Moi, Pierre Seel, déporté homosexuel »