Prayers for Bobby. Dal libro al film
Articolo di Gary Goldstein tratto dal Los Angeles Time (STati Uniti), 24 gennaio 2009, liberamente trodotto da Silvia Lanzi
Le cose belle accadono a quelli che aspettano… aspettano… e aspettano. Ho appena parlato a David Permut, Daniel Sladek e Chris Taaffe, che insieme hanno lottato per quasi 12 anni per portare in televisione “Prayers for Bobby” – un dramma famigliare ad alto contenuto emotivo.
Il risultato, per il quale il trio detiene i crediti della produzione esecutiva (insieme a Stanley M. Brooks), è una prima mondiale (ndr il 24 gennaio 2009) alle 21 sul canale tv Lifetime.
Il progetto di questo lungo viaggio inizia nel 1996 quando Taaffee, un attore che lavora anche in produzioni televisive, trovò in una libreria a West Hollywood il libro di Leroy Aarons sul quale è basato il film per la televisione.
Venne immediatamente trascinato nel racconto della trasformazione di una madre della California di periferia da una religiosissima zelota a un’attivista gay di primo piano dopo il suicidio del figlio ventenne Bobby. Taaffe raccomandò il libro a Sladek, un produttore cinematografico e già produttore esecutivo, che lo lesse e ne fu altrettanto entusiasta.
Prevedendo un lungometraggio, Sladek portò il libro a Permut, un produttore di alto profilo con crediti di vari Studios (“Dragnet,” “Face/Off”).
“Ho pensato fosse un libro magnifico. Mi riecheggiava dentro a così tanti livelli” disse Permut durante un’intervista al gruppo nel suo ufficio al Century City, insieme a Sladek and Taaffe. “Essendo un inguaribile ottimista, ho pensato che saremmo stati in grado di produrlo entro un anno”.
Non funzionò proprio così. Dopo quasi una decina di anni persi, durante I quali Aarons morì, il film trovò definitivamente casa alla Lifetime. Al tempo stesso, un altro obbiettivo era quello di darci da fare per finanziare un lungometraggio, “Bobby”, di meno di due milioni di dollari.
Ma la Lifetime garantì un ampio spettro di spettatori, incluse le cosiddette madri medie americane le quali, pensavano i produttori, avrebbero avuto molti benefici dalla conoscenza dall’esperienza e dall’insegnamento di Mary Griffith, cosa che avrebbe fatto vincere la corsa, molto rischiosa, sulla strada del cinema indipendente.
Finalmente, con il semaforo verde, la produzione si trovò a scontrarsi con la fine dello sciopero degli sceneggiatori (americani). “Velocità” divenne la parola d’ordine e la prima cosa fu scegliere un’attrice per il ruolo, di primo piano, di Mary.
Durante questi prime tappe dello sviluppo del progetto, la parte doveva essere interpretata in un primo tempo da Susan Sarandon (che aveva da poco vinto l’Oscar per “Dead Man Walking”), Sela Ward e Christine Lahti.
“Era un bel passo, fare un film sui diritti dei gay e i suicidi degli adolescenti – per non parlare della questione della sensibilità religiosa – specialmente su un canale televisivo,” disse Taaffe.
Ma fortunatamente i produttori furono in grado di attirare anche un’altra grande attrice: Sigourney Weaver, tre nomination agli Oscar e due volte vincitrice del Golden Globe.
“Ho sentito che era una storia universale, e, specialmente come madre, volevo farne davvero parte” ha detto l’attrice al telefono, da Manhattan. La Weaver viaggiò fino alla casa dei Griffith a Walnut Creek, in California – la stessa casa dove era cresciuto Bobby – per incontrare Mary e avere la “benedizione” della famiglia.
“Ho molte domande” disse la Weaver. “Volevo essere sicura che avrei potuto raccontare la storia di Mary, e dovevo capirla. Avevo bisogno di sedermi con lei e chiederle ‘Chi eri tu, che hai potuto chiudere occhi e orecchie davanti a quel che soffriva Bobby?’. È stata davvero generosa con me e davvero disponibile”.
Non di meno, la Weaver aveva lo scoraggiante compito di rendere umano qualcuno che alcuni avrebbero considerato detestabile, data la reazione di Mary all’omosessualità di suo figlio e alle sue tragiche conseguenze. “Non era compito mio giudicare Mary, renderla simpatica o antipatica. Ero lì per raccontare la storia il più accuratamente possibile” disse la Weaver.
“Si parlava di una madre che cerca di trovare la sua strada, che amava molto suo figlio ma che era vittima della disinformazione – dei libri e della chiesa”. Una visione negativa, era quella che riguardava la Mary Griffith reale, che ora ha 74 anni.
“Non ho mai capito, prima di vedere il film, quanto fossi sopra le righe” dice la Griffith “La mia giustificazione e il fatto che, prima di ciò, non sapevo cosa stavo facendo”.
Il film per la TV, girato in un Michigan in una ventina di giorni, vede come cooprotagonisti Ryan Kelley (“Mean Creek”) nel ruolo di Bobby, l’attore di “The Tudors’ ” Henry Czerny nel ruolo del padre di Bobby e Dan Butler (dal telefilm “Frasier”) nel ruolo di un prete gay disponibile all’aiuto. E il versatile cineasta Russell Mulcahy (“Highlander,” “Swimming Upstream”)
La Weaver spera che specialmente i giovani gay che guarderanno il film saranno “rassicurati che l’omosessualità è qualcosa di naturale, che è una parte della propria vita, che debbono combattere per essere ciò che sono, ma che devono anche combattere per educare noi (eterosessuali)”
La Griffith persa che il film offra una conferma anche per i genitori di gay e lesbiche. “Devono sapere che va bene mettere in dubbio le proprie credenze religiose e la dottrina della loro chiesa, specialmente quando è in gioco la salute e il benessere dei loro figli” dice.
Sladek fa ancora un passo avanti: “Spero in cuor mio che se questo film fosse esistito – e fosse passato alla TV – e Bobby Griffith, che si sentiva drammaticamente in trappola e isolata, avesse potuto vederlo, oggi sarebbe ancora vivo”.
Testo originale: ‘Prayers for Bobby’ profiles the making of a gay activist
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