Prigionieri tra due mondi! Essere una persona LGBT in Palestina
Articolo di Keegan O’Brien* pubblicato sul bimestrale My Kali (Giordania) di settembre/ottobre 2014, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Asem Khalil Abed Ammar, quattro anni, sua sorella Iman, nove anni, e suo fratello Ibrahim, tredici anni, sono solamente tre effetti collaterali dell’Operazione Margine di Protezione. Sono morti durante un attacco delle forze di difesa israeliane, il massacro di Shujaiya del 20 luglio [2014], nel quale decine di persone sono state assassinate e un’intera comunità è stata azzerata. Dal 7 luglio almeno 1.800 abitanti di Gaza sono stati massacrati. Ognuno di essi aveva un nome, un’età e una vita da raccontare.
Il grado di distruzione va però molto oltre. Più di 5.000 abitanti di Gaza sono rimasti gravemente feriti e centinaia di migliaia hanno dovuto abbandonare le loro case. La maggior parte dei bambini soffre di qualche forma di stress post-traumatico. Non sono state risparmiate né scuole, né ospedali, né case famiglia, né campi profughi e nemmeno i rifugi forniti dalle Nazioni Unite. Interi quartieri sono stati rasi al suolo; Israele ha portato le infrastrutture di Gaza sull’orlo del collasso e non c’è più un luogo sicuro.
Israele e i suoi sostenitori nel governo americano e nei mass media vorrebbero farci credere che questo conflitto assolutamente impari sia giustificato dal fatto che l’unica società democratica del Medio Oriente ha il diritto di difendersi. Le riforme riguardanti le persone LGBT in Israele vengono regolarmente citate per promuovere tale idea. Ma sebbene Israele riconosca le coppie omosessuali e permetta a gay, lesbiche e bisessuali di prestare servizio nell’esercito, tutto questo ha ben poca importanza quando si parla di guerra e occupazione.
In fin dei conti, la promozione di Israele a paradiso gay non è altro che un colpo pubblicitario, un tentativo di demonizzare i Palestinesi come retrogradi e omofobi e usarli come capro espiatorio, dipingendo Israele come paese progressista e tollerante per giustificare i suoi orrendi progetti.
L’esempio più recente di questo luogo comune razzista che Israele utilizza per salvare la sua immagine è l’omicidio di Muhammad Abu Khudair, il sedicenne palestinese torturato e bruciato vivo lo scorso luglio; inizialmente si accusò la sua famiglia di aver commesso un “delitto d’onore” perché il giovane era gay. Tuttavia, sono stati accusati del crimine tre giovani israeliani provenienti da famiglie ortodosse.
Sia la società israeliana che quella palestinese conoscono l’omofobia e la transfobia. In Israele esiste un’influente destra religiosa che sostiene una politica anti-LGBT e ha precedenti di violenza contro le parate del Pride. L’Israele “gay-friendly” non solleva alcuna obiezione all’alleanza e al sostegno a governi mediorientali brutalmente repressivi, illegittimi e omofobi come quello dell’ex dittatore egiziano Hosni Mubarak o la monarchia dell’Arabia Saudita.
Ma soprattutto, questa campagna di pubbliche relazioni ignora una verità semplice ed evidente: Israele è uno stato che pratica l’apartheid. Non prendetemi in parola, ecco cosa disse Suzanne Weiss, sopravvissuta all’Olocausto e attivista ebrea per la Palestina: “I Palestinesi subiscono apartheid e pulizia etnica… Le azioni del governo israeliano contro i Palestinesi risvegliano in me gli orribili ricordi della vita della mia famiglia sotto Hitler: i muri inumani, i posti di guardia, le umiliazioni quotidiane, le uccisioni, le malattie, il mancare di tutto”.
Allora perché Israele vuole promuovere se stesso come sostenitore dei diritti LGBT? A causa del grosso problema di immagine pubblica del paese. Per distrarre l’attenzione dalle orribili e vergognose violazioni dei diritti umani e delle leggi internazionali, che un numero sempre maggiore di persone comincia a riconoscere, Israele ha dovuto trovare altri modi per promuovere se stesso come “unica democrazia” del Medio Oriente.
In un’epoca in cui le persone LGBT sono sempre più accettate e visibili in molti paesi del mondo, quale modo migliore per promuoversi! Israele è stato capace di nascondere per un certo tempo i suoi crimini di fronte al resto del mondo, ma le sue azioni atroci e vergognose e l’avvio del boicottaggio, dei disinvestimenti e delle sanzioni a favore dei diritti dei Palestinesi hanno intaccato seriamente la sua immagine pubblica nell’arena internazionale. La sua posizione di ferro nella percezione comune ha finalmente cominciato a scricchiolare.
Nulla esemplifica la natura ipocrita e altamente selettiva del presunto carattere “progressista” di Israele in modo più chiaro dell’esperienza dei Palestinesi LGBT. Come ha fatto notare l’organizzazione LGBT palestinese Al Qaws, non esiste nessuno speciale percorso rosa che permetta ai Palestinesi LGBT di evitare l’umiliazione quotidiana dei checkpoint in Cisgiordania ed essere LGBT difficilmente garantisce la protezione dalla pioggia di missili che le forze di difesa israeliane spargono sulle loro case, scuole e ospedali a Gaza.
Gli attivisti della solidarietà queer in Palestina chiamano questa prassi – lo spudorato sfruttamento dei diritti LGBT per poter lavare le conseguenze delle azioni militari e della politica di apartheid israeliane – “pinkwashing”. L’implementazione di alcune riforme a beneficio delle persone LGBT in Israele non rende più razionale il suo orrendo e osceno comportamento nei confronti di tutti i Palestinesi, queer ed etero; in particolare non giustifica il recente, brutale bombardamento di Gaza, che ha trasformato il più grande carcere a cielo aperto del mondo in un autentico inferno in Terra.
La prima delegazione LGBT a visitare la Palestina nel 2012 aveva ragione: le persone queer palestinesi non potranno mai essere libere fino a che rimarranno intrappolate. Essere liberi dall’occupazione è il punto di partenza per ogni lotta di liberazione sessuale e di genere in Palestina.
Se ho imparato qualcosa dall’essere una persona queer in questa società, è un senso fondamentale di solidarietà: abbiamo costantemente la responsabilità di stare a fianco di chi vive sotto il tallone dell’oppressione, qualunque oppressione. Il meglio della nostra storia parla di lotte collettive contro l’ingiustizia e di solidarietà tra tutti gli oppressi. È un movimento, una storia che a nessun costo può essere usata al servizio del pinkwashing di Israele.
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* Keegan O’Brien è un attivista queer socialista e scrittore, laureato in scienze dell’educazione all’Università del Massachusetts di Boston.
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Testo originale: Every Stain Has a Beginning!