Prima della natura, omosessuale o no, è importante la relazione
Relazione di Giannino Piana al Convegno “Le persone omosessuali nella Chiesa” (Milano, ottobre 1999) tratto da Noi Siamo chiesa.org
Negli ultimi anni c’è stata, io credo, un’involuzione nel magistero della Chiesa sulla questione omosessuale, giacchè il momento più alto pare a me ancora il documento “Persona humana” (del 1976, in cui si riconosceva l’esistenza di un’omosessualità che è parte della struttura fondamentale della persona, affermando, sia pur in modo limitativo, che anche i comportamenti espressione di tale modo di essere andavano giudicati con cautela.
La mia impressione è che i documenti successivi siano andati sempre di più nella direzione di una critica del fenomeno omosessuale e soprattutto siano risultati mossi dalla preoccupazione per la nascita anche nelle comunità cristiane di gruppi di persone omosessuali, che rivendicavano, come credo sia giusto, una presenza nell’istituzione ecclesiale in vista dell’accettazione da parte della Chiesa di alcuni loro diritti.
Tuttavia alcuni elementi della riflessione antropologica moderna ci aiutano a reinterpretare il fenomeno omosessuale. Prima di tutto le scienze umane evidenziano sempre più la relatività del dimorfismo sessuale: le differenze a livello di sesso genetico, gonadico e ormonale appaiono collocate all’interno di una fondamentale unità, poichè il maschile e il femminile risultano due dimensioni costitutive dell’umano in sè, che attraversano tanto l’essere uomo quanto l’essere donna, e non due realtà nettamente distinte, contrapposte o “complementari” (a partire dall’idea di un’incompiutezza dell’identità soggettiva), come in una certa riflessione presente anche nella Chiesa cattolica; senza contare che le differenze riscontrabili tra l’essere uomo e l’essere donna, per esempio nei comportamenti, sono spesso dovute a processi di carattere socioculturale collegati a diverse posizioni di potere nella società.
D’altro canto nell’interpretazione dell’umano si è assistito negli ultimi decenni allo sviluppo delle “teorie relazionali”, le quali tendono a superare tanto un “naturalismo radicale” – e la condanna dell’omosessualità da parte della Chiesa si basa proprio su una definizione molto circoscritta del concetto di “natura” – quanto un “riduttivismo culturale”, per cui, come teorizzato nel “Secondo sesso” di Simone de Beauvoir, uomo e donna non si nasce, ma solo si diventa.
Mi pare invece che andiamo sempre più verso una visione antropologica in cui centrale diventa la relazione, considerata l’elemento costitutivo ultimo dell’umano, prima ancora della “natura” e della “cultura”, all’interno delle quali essa poi si sviluppa o viene modulandosi.
Quindi l’influenza di dati prerelazionali o postrelazionali esiste, ma il porre al centro la relazione non vuol dire negare le differenze, quanto piuttosto collocarle in un contesto che concepisce l’essere uomo e l’essere donna come due modalità strettamente interagenti, in gran parte sovrapponibili dello stesso umano, perchè derivanti, in qualche modo, dall’unità originaria.
Questi dati delle scienze umane e della ricerca filosofica mi pare trovino una corrispondenza in una riattualizzazione e risignificazione del messaggio biblico-cristiano. Nei testi dell’Antico Testamento sulla creazione dell’uomo, prima della differenza, centrale è la relazione.
Il riferimento all’immagine di Dio è il riferimento a una relazionalità che come archetipo è quella uomo-donna, ma include ogni forma di relazione; è soprattutto la relazione che conta. Lo stesso vale per l’interpretazione che nel Nuovo Testamento si dà al mistero della natura di Dio come Dio trinitario – dove, tra l’altro, non esiste la sessualità e quindi la differenza non è legata a questa dimensione.
La relazionalità umana viene comparata (il tema della “immagine” nella Bibbia fa riferimento a questo paragone) a quella divina, per cui ciò che conta prioritariamente è la relazione, la quale trova poi sul piano umano una codificazione emblematica nel rapporto uomo-donna, ma si estende al rapporto uomo-uomo e donna-donna, in tutte le loro modalità.
Quindi la relazione è assunta come il dato più importante, prima e più ancora delle modalità secondo cui essa viene attuandosi, pur lasciando inalterata l’attenzione a quella modalità paradigmatica, che è caratterizzata dalla differenza sessuale.
Pure il fatto che nella Genesi si parta dall'”Adam” originario neutro, il quale contiene l’umanità e, in un certo senso, è prima e al di là delle differenze, conferma come l’essere umano sia un’unità che si realizza strutturalmente e originariamente in una differenza, dove l’unità ha il primato sulla differenza.
Mi pare poi importante la demitizzazione degli istituti tradizionali nei quali la differenza sessuale si sviluppava fatta da Gesù nella sua predicazione: a chi gli dice “Beato il grembo che ti ha portato”, Gesù replica: “Beato piuttosto colui che crede” (Lc 11, 27-28). E a chi gli annuncia “tua madre e i tuoi fratelli sono qui fuori e vogliono vederti”, Gesù risponde: “Mia madre e i miei fratelli sono coloro che fanno la volontà del Padre mio” (Lc 8, 20-21).
Ciò non significa negare l’esistenza di istituzioni come la famiglia o di rapporti privilegiati, ma affermare che di fronte alla logica del Regno, che è prevalente, essi vanno relativizzati. La relazione fondata sulla differenza sessuale non va assolutizzata come unico modello e fatta diventare il principio in base al quale valutare i comportamenti, considerando devianti tutti quelli che non la rispettano.
Pensiamo, sempre in ambito neotestamentario, alla rilettura del testo paolino della Lettera ai Galati: “Non c’è più nè giudeo nè greco, nè schiavo nè libero, nè uomo nè donna” (Gal 4, 28).
Qui c’è il superamento non solo delle differenze radicalizzate in senso religioso o sociale, ma anche sessuale, in una prospettiva di avvento del Regno e realizzazione della salvezza che in qualche modo le trascende e stimola a superarle per stabilire possibilità di incontro che vanno al di là degli schemi tradizionali o delle paratie tracciate sul piano “naturale” o sociologico quando si definiscono comportamenti “normali”, perchè quantitativamente più diffusi, e devianti.
Quali sono le conseguenze etiche di queste riflessioni per l’omosessualità?
La prima è la necessità di superare radicalmente l’approccio naturalistico, il “secondo natura” che per molto tempo è stato l’elemento determinante per la condanna della Chiesa nei confronti della condizione omosessuale.Bisogna abbandonarlo perchè è impossibile oggettivare questa natura.
Esistono certo anche elementi biologici, ma le scienze umane hanno sconfessato la pretesa di ricondurre l’omosessualità a disfunzioni ormonali o ghiandolari, e anche altre visioni della natura, più legate a fattori psichici o perfino allo strutturarsi dell’elemento spirituale, risultano poco definibili, perchè proprio a questi livelli emerge con forza il condizionamento culturale, spesso legato a logiche di potere, che determinano poi la diversità delle funzioni e quindi suscitano differenze di comportamenti, atteggiamenti, modi di sentire e di essere.
Il superamento del modello naturalistico implica l’assunzione del modello relazionale. Se è vero che la relazione è il fondamento e il centro, allora l’orientamento e la valutazione etica dei comportamenti trova il suo parametro fondamentale nella capacità di vivere le relazioni in modo profondo, autentico, coinvolgente sul terreno interpersonale, rispettoso della soggettività dell’altro, che non è ridotto a oggetto, ma trattato da persona.
Si tratta di riprendere il famoso principio kantiano secondo cui l’etica si costruisce sul “tratta l’altro come fine e mai come mezzo”. Questo parametro porta anche a non mitizzare le possibilità espressive della relazionalità umana, facendola divenire il luogo della comunicazione e della comunione totale. Io sono convinto che la vera comunicazione tra le persone si ha là dove esse accettano in partenza l’impossibilità di una comunicazione totale, che comporterebbe la scomparsa delle differenze.
La diversità – non quella sessuale, ma quella personale – è la vera ricchezza, che favorisce nel rapporto il reciproco arricchimento. Bisogna fare molta attenzione a questa idealizzazione delle relazioni perchè essa molto spesso – e ciò è evidente nel magistero della Chiesa, soprattutto in quello di Giovanni Paolo II – è funzionale poi a tabuizzare qualsiasi comportamento che non vi risponda perfettamente.
Ma la relazione si realizza tra luci e ombre, quello che conta è la capacità di vivere con livelli di comunicazione sempre più profondi, sapendo che esiste sempre un grado di incomunicabilità o di solitudine mai radicalmente superabile.
Ciò naturalmente ripropone la domanda: ma la relazionalità non si sviluppa soprattutto nella relazione eterosessuale, dove l’umano si presenta nella dualità che in qualche misura lo connota originariamente?
Certo in molte relazioni eterosessuali non ci sono le condizioni di relazionalità autentica, e, d’altro canto, esistono limiti connaturati alla relazione omosessuale, per esempio l’impossibilità di una espressione di sè in una fecondità procreativa. Essi però non vanno assunti, io credo, come criteri ultimi, decisivi, di valutazione dei comportamenti.
Io credo che per affrontare dal punto di vista etico la questione omosessuale bisogna collocarsi sul terreno della ricerca e dello sviluppo della vera identità. Ciascuno di noi è chiamato a trovare la sua identità, attraverso forme di pacificazione interiore che avvengono nella misura in cui ci si riconosce davvero fino in fondo nella propria condizione, sia essa eterosessuale od omosessuale, abbandonando ogni forma di colpevolizzazione.
Quello che conta è alla fine l’accettazione della propria identità e lo sviluppo di una sessualità matura, che è tale nella misura in cui non si va nella direzione della strumentalizzazione dell’altro nei rapporti, ma si privilegia – naturalmente non in senso esclusivo, poichè nell’ambito umano non esiste la pura gratuità, altrimenti saremmo Dio – l’atteggiamento di donazione, di rispetto, di attenzione all’altro e alle sue dinamiche soggettive e la ricerca di forme di linguaggio che sappiano dare contenuto espressivo autentico al rapporto comunque esso si realizzi, purchè sia incentrato su prospettive di crescita relazionale e obiettivi, anche ideali, di comunicazione.