Sembro gay? Psicologia dell’omofobia interiorizzata
Articolo del dottor Kevin L. Nadal* e del dottor E. J. R. David** pubblicato sul sito Psychology Today (Stati Uniti) il 20 luglio 2015, liberamente tradotto da Federica Ottaviano
“Do I Sound Gay?” (Sembro gay?), uno dei documentari da non perdere dell’estate 2015 secondo l’Entertainment Weekly, è il nuovo film diretto da David Thorpe, uno scrittore bianco americano e gay di Brooklyn, New York. Il film esplora il disprezzo di Thorpe per la sua voce, che egli stesso definisce nasale, acuta e sgradevole. Lui crede che la sua voce abbia danneggiato molti aspetti della sua vita, come la sua autostima, il suo successo e addirittura le sue relazioni sentimentali. Difatti il film inizia con Thorpe che si chiede come sia possibile trovare un uomo che lo ami a causa della terribile voce che pensa di possedere.
Attraverso una serie di interviste e confronti con gli amici e con i familiari di Thorpe, con alcune celebrità, e varie opinioni raccolte dalla strada, ascoltiamo un ventaglio di punti di vista su cosa “sembra gay” e perché qualcosa che lo sembra sia percepito in modo così negativo. Molti degli uomini gay nel film ammettono di sentirsi a proprio agio col suono della loro voce, e non riescono a comprendere perché Thorpe voglia cambiare la propria voce, a tal punto da voler consultare un logopedista e un vocal trainer per celebrità per sbarazzarsi della sua “voce gay”. In ogni caso, molti degli uomini gay nel film parlano dell’insicurezza derivante dall’avere una voce effeminata, e qualcuno ricorda i tempi in cui la propria voce “da gay” (e in generale l’”identità gay”) li abbia portati ad essere bullizzati, o peggio.
In generale, il film fa un buon lavoro nell’esplorare un problema psicologico reale, ma ampiamente ignorato, e che molti uomini gay avvertono.
Omofobia interiorizzata: un problema psicologico sconosciuto e invisibile
In qualità di professori e ricercatori di psicologia, la prima cosa che salta all’occhio durante la visione del film è il concetto dell’oppressione interiorizzata, soprattutto per ciò che riguarda l’omofobia interiorizzata (1), che potrebbe essere definita come la considerazione negativa che gli individui LGBTQ hanno verso se stessi a causa del loro orientamento sessuale.
Noi crediamo che l’omofobia interiorizzata sia il motivo del perché un uomo gay odi “sembrare gay”. Crediamo che l’omofobia interiorizzata sia la ragione per cui “sembrare meno virile” permetta a un uomo gay di vedere se stesso inferiore e indesiderabile, anche agli occhi (e alle orecchie) di altri uomini gay.
È importante osservare che le persone non nascono con delle considerazioni negative sul proprio conto, o con la percezione di essere inferiori o indesiderabili; il disprezzo per se stessi è insegnato e appreso.
A proposito dei nostri fratelli e sorelle LGBTQ, la ricerca suggerisce che le persone sviluppano un’omofobia interiorizzata perché imparano che essere diversi o gender non-conforming sia sbagliato (da parte delle loro famiglie, degli amici, della società in generale), e così imparano anche a non amarsi.
In altre parole, le persone interiorizzano, accettano o credono ai messaggi omofobi che la società impone loro. Così, sentirsi infastiditi e psicologicamente disturbati a causa del “sembrare gay”, al punto che la propria autostima e altri aspetti della propria vita sono condizionati negativamente, è un chiaro “sintomo” di omofobia interiorizzata.
Molti altri intervistati nel film condividono altri concetti comuni che sono relazionati all’omofobia interiorizzata, inclusi il “passing” (“passare per” essere un membro del “gruppo dominante”) e il “code-switching” (cambiare comportamento in base ai diversi ambienti o alle varie situazioni in cui ci si trova).
Per esempio, l’autore David Sedaris ha parlato delle circostanze in cui altri hanno pensato che fosse eterosessuale, e col senno di poi nota come molti uomini gay avrebbero potuto pensare: “Perché passare per etero mi fa sentire bene?”, e altri segni simili di omofobia interiorizzata.
Il film, inoltre, ci introduce alla consapevolezza di come altre forme di oppressioni interiorizzate (per esempio, il razzismo interiorizzato) potrebbero danneggiare altre comunità emarginate. Don Lemon, un reporter afroamericano della CNN, ha descritto il modo in cui ha modificato il suo accento del Sud in modo da poter in avere più risalto in TV. Margaret Cho, una comica americana di origini coreane, ha parlato di come i suoi genitori abbiano imparato l’inglese perfettamente, così da poter essere considerati “veri” americani. Questi esempi iniziano a porre l’attenzione sulle dinamiche di alcune comunità emarginate che hanno vissuto esperienze comuni e problemi psicologici.
Identità incrociate e oppressioni multiple interiorizzate
Uno dei momenti più interessanti del film è la discussione di come queste identità incrociate danneggino le persone in ogni aspetto della loro vita, in particolare per quanto riguarda la loro voce. Come afferma un americano di origini filippine, tutti noi sappiamo che ciò che uno di noi desidera di più è sembrare (e apparire, agire, pensare, essere accettato come) “americano”, dunque si comprende bene quale sia il prezzo da pagare se si vuole appartenere ad un gruppo dominante, e, in questo processo, come ci si avvicini pericolosamente al perdere (se non rifiutare) una parte importante della propria identità.
Come se non bastasse, da uomo gay, il primo autore (Kevin) sa bene cosa voglia dire sentirsi emarginati a causa della propria voce alta, acuta e squillante. Questa diffusa emarginazione sociale della “voce gay” e di tutto ciò che è considerato “gay” è reale, soprattutto se si è stati socialmente educati o istruiti ad associare negatività, inferiorità e “diversità” all’essere gay.
Come uomo eterosessuale, che è cresciuto in un contesto di forte “machismo” nelle Filippine e di patriarcato negli Stati Uniti, il secondo autore (E. J.) può invece confermare questa omofobia diffusa, come lui stesso ha potuto constatare –ed anche prenderne parte-, sono tante le circostanze di alterità, di presa in giro e di bullismo nei confronti degli uomini gay, specialmente verso coloro che parlano con un tono di voce acuto, molto effeminato e vistosamente “gay”.
Inoltre, il code-switching di cui le persone LGBTQ potrebbero aver bisogno per cavarsela e per sopravvivere in un contesto di repressione totale (e dolorosa!) può diventare qualcosa di così radicato e automatico che loro stesse spesso neanche ne sono consapevoli. Senza dubbio è estenuante!
Ora, parliamo delle persone LGBTQ di colore: le loro identità multiple e intersecanti, e il costante destreggiarsi che deriva dall’avere questo tipo di identità, insieme alla possibilità di sviluppare molteplici repressioni interiori, aumenta esponenzialmente i fattori di stress che percepiscono?
Combattere l’omofobia interiorizzata e ri-definire la “voce gay”
Alla fine del film, Thorpe proclama di essere riuscito a sentirsi a proprio agio con la sua voce effeminata. Crediamo, in ogni caso, che due delle celebrità che vengono intervistate, Dan Savage e Tim Gunn, riassumano perfettamente la condizione di ciò che molti uomini gay provano quando affrontano il problema della loro voce.
L’autore Dan Savage afferma che le loro voci sono l’ultimo tassello di un’omofobia interiorizzata, con cui molti uomini gay hanno a che fare. Ed effettivamente molti di loro sono apertamente gay, in ogni aspetto della loro vita. Hanno stretti legami di amicizia con omosessuali, e anche relazioni sentimentali più solide. Marciano nelle sfilate del Pride e lottano per i propri diritti civili come il matrimonio, la non discriminazione sul luogo di lavoro, l’immigrazione, i diritti delle persone transgender. Eppure, forse molti di loro non accettano il suono della propria voce, e in alcuni contesti, anche solo per un secondo, pensano di rendere più virile le loro voci così che possano suonare “normali”.
Queste esperienze sono importanti per la ricerca che il secondo autore (E. J.) ha condotto sull’oppressione interiorizzata. La ricerca suggerisce che l’oppressione, in questo caso l’omofobia o l’eterosessismo, possano essere radicati così profondamente che anche coloro che sono i più attenti, i più critici, e i più liberi (o “decolonizzati”, come li definirebbero alcuni individui emarginati) potrebbero esserne affetti.
Ancor di più, la ricerca suggerisce che l’oppressione interiorizzata ha una componente “implicita” e automatica, e sebbene si possa manifestare apertamente orgoglio per la propria identità, si potrebbe avvertire un senso di inferiorità che potrebbe influenzare la propria consapevolezza, le proprie intenzioni o il proprio controllo di sé.
Dunque, fratelli e sorelle LGBTQ: potrete sempre amare voi stessi ed essere orgogliosi delle vostre identità, ma quel piccolo pezzetto di omofobia interiorizzata potrebbe esistere sempre. E perché non dovrebbe, in fondo? Molti si trovano ad affrontare decenni o una vita intera di messaggi di odio, da cui hanno imparato che essere LGBTQ sia brutto, o addirittura sbagliato.
Ciononostante, ci piace pensare che potremmo almeno iniziare a combattere l’omofobia interiorizzata, semplicemente cambiando la definizione di “normale”. In questo caso, invece di considerare sgradevoli le voci nasali o acute, cambiamo la nostra prospettiva e consideriamole favolose. Una delle celebrità intervistate nel documentario, Tim Gunn, il presentatore di Project Runaway, ha detto: “Adesso, quando le persone dicono ‘Sembri gay’, semplicemente rispondo loro con un ‘grazie!’”.
(1) Nota: invece di “omofobia”, alcuni usano il termine “eterosessismo”, e in questo caso “eterosessismo interiorizzato”, in quanto sostengono sia il termine più appropriato per esprimere che il pregiudizio anti-LGBTQ non giace solo su un livello individuale, non è solo un problema clinico (come il termine “fobia” indica), ma anche una forma diffusa di oppressione, che basa le sue origini nella nostra cultura, nella società e nelle istituzioni. Per questo articolo, in ogni caso, usiamo il termine “omofobia” nell’accezione più generale, ed è il termine più ascoltato nel film.
* Kevin L. Nadal, Ph. D., è professore associato di psicologia alla City University di New York, direttore esecutivo di CLAGS: The Center for LGBTQ Studies e autore di “That’s So Gay! Microaggressions and the Lesbian, Gay, Bisexual, and Transgender Community” (È così gay! Microaggressioni e comunità LGBTQ). Per saperne di più sul suo lavoro cliccate qui o seguitelo su Twitter
** E. J. R. David, Ph. D, un professore associato di psicologia all’Università dell’Alaska di Anchorage. Il suo lavoro sulle esperienze psicologiche degli emarginati ha generato due libri, “Internalized Oppression: The Psychology of Marginalized Groups” (Oppressione interiorizzata: la psicologia dei gruppi emarginati) e “Brown Skin, White Minds: Filipino American Postcolonial Psychology” (Pelle scura, menti bianche: la psicologia postcoloniale dei filippino-americani). Per saperne di più sul suo lavoro cliccate qui o seguitelo su Twitter
Testo originale: “Do I Sound Gay?”