Qual è il peccato di cui dobbiamo liberarci? (Luca 3:3.10-14)
Restituzione* a cura di Mariella Colosimo dell’incontro di riflessione biblica del gruppo PAROLA… E PAROLE** di Roma del 15 gennaio 2019
Ci confrontiamo con il testo di Luca 3:3.10-14 e affrontiamo un tema difficile, quello del peccato. Qual è il peccato di cui, secondo Giovanni Battista, dobbiamo liberarci? Qual è il cambiamento di vita che Giovanni chiede a coloro che vanno da lui per battezzarsi? Il cambiamento di vita di cui parla non ci sembra qualcosa di clamoroso, riguarda la vita di tutti i giorni. Chiede di condividere ciò che si ha con gli altri. E poi si rivolge agli esattori delle tasse ed ai soldati, per chiedere agli uni di non approfittare della propria posizione per esigere più del dovuto, e agli altri di accontentarsi delle proprie paghe e di non usare violenza con nessuno per ottenere vantaggi e ingiusti profitti.
Riflettiamo su cosa hanno in comune i pubblicani ed i soldati. Hanno degli strumenti in più rispetto agli altri, ed il loro peccato è di usarli per fare prepotenze. Cambiamento di vita, per Giovanni, è mettersi in un rapporto di condivisione con gli altri, è mettere al servizio degli altri gli strumenti che abbiamo in più, e non usarli per creare distanze, per metterci un gradino sopra gli altri, per ottenere vantaggi. È non usare la nostra intelligenza per correre più in fretta e lasciare indietro chi non ce la fa, è non usare la capacità di parlare per ferire, per intimidire, per mistificare, imbrogliando i più semplici.
Può essere più facile condividere le cose materiali che mettersi a nudo condividendo la propria fragilità, e ancora più difficile può essere condividere e mettere a disposizione degli altri il proprio tempo, in un mondo dove ci è richiesto di andare sempre più veloci, per farcela, per essere vincenti.
E gli strumenti che abbiamo in più forse non ci appartiene utilizzarli per opprimere, ma per fare “intelligenti” manipolazioni, magari sì, questo ci può riguardare. Può riguardare il rapporto adulto-bambino, insegnante-alunno, amico-amico… Quello che abbiamo in più, la nostra posizione nella società e nel rapporto con l’altro possono essere usati come strumenti di potere. Il potere attraversa la nostra vita quotidiana.
Non esigete nulla più di quanto vi è stato fissato, dice Giovanni nel brano evangelico letto. Ma che cos’è quello che è stato fissato per noi? Qual è il limite?
Qualcuno parla di talenti. Dovremmo gioire dei nostri talenti, e insieme di quelli degli altri. Forse rapporto di amore significa proprio questo: trovare la propria gioia nella gioia degli altri. L’amore è la sintesi dell’insegnamento di Gesù. Gesù mette insieme due comandamenti (contenuti in parti diverse della Bibbia): ama il Signore Dio tuo e il prossimo tuo come te stesso. È di prossimo che parla Gesù, di chi ci sta vicino, di quello in cui, come il samaritano, “inciampiamo”. Ricondurre tutto a questo forse ci aiuterebbe a far cadere l’ossessione che ci portiamo dentro per tanti peccati, e a rivolgere il nostro sforzo verso la costruzione di rapporti d’amore tra le persone: l’unica cosa che per Gesù conta. Ama il prossimo tuo come te stesso. Come, non più di te stesso. Quanto è difficile da vivere questo comandamento, per chi non riesce ad amarsi.
Nel brano letto c’è un crescendo di richieste da un lato, e dall’altro non sembrerebbe esserci nessuna richiesta per chi non ha niente. È perché chi non ha niente non ha bisogno di cambiare vita? O perché tutti abbiamo qualcosa da condividere, fosse anche solo un sorriso o una smorfia di dolore? Poco o tanto che sia, ognuno/a ha qualcosa da condividere e mettere al servizio nella vita di tutti i giorni. Ma perché per qualcuno è così difficile avere la consapevolezza dei propri talenti, consapevolezza legata più ai riconoscimenti degli altri, che non alla convinzione profonda di possederli davvero? Ed emerge anche la tentazione di lasciare ad altri quello che non facciamo noi, il rischio di non nutrirli, di non farli crescere, i nostri talenti, di non metterli in gioco, magari nascondendoci dietro l’idea che i talenti di altri arrivino meglio laddove non arriviamo noi: non restare fermo nella tua debolezza, non lasciare che parli di te solo la tua parte che è stata esclusa.
È un cambiamento di vita che riguarda la quotidianità quello che ci chiede questo brano del Vangelo. Spinge a rimettere in discussione la “stabilizzazione” che di volta in volta raggiungiamo nella nostra vita, ad assumersi fino in fondo la propria responsabilità nella posizione in cui si è, mettendo in gioco i propri talenti, mettendoli al servizio, rifuggendo da atteggiamenti di potere. La sfida di essere nel mondo senza essere del mondo: un interrogativo quotidiano. C’è in questo il rischio di uscirne come perdenti? Sì, forse c’è, anche a Gesù è successo, ma il Signore ha vinto in un altro modo. E c’è chi di noi si infuria al solo pensiero che Gesù possa essere considerato un perdente!
Ci soffermiamo su quello che nel testo non è scritto. Non è una più assidua frequentazione del tempio, né riti o sacrifici particolari che chiede Giovanni per convertirci (tra l’altro, il suo battesimo non avviene né ad opera di sacerdoti, né dentro le pareti del tempio, ma sulla riva del Giordano!). E non parla di relazioni sessuali, non in modo specifico. Nessuna casistica, nessun elenco di divieti o prescrizioni. Non sappiamo cosa Giovanni pensasse in proposito; probabilmente, come uomo del suo tempo, aveva un pensiero molto diverso dal nostro. Ma non sembrerebbe che sia sull’adesione ad un elenco di comportamenti sessuali “consentiti” che si giochi il cambiamento di vita di cui parla Giovanni. Vale anche per questo ciò che il testo dice di tutte le relazioni umane: il peccato da cui liberarci è la prevaricazione, la prepotenza e la violenza, non altri.
E, parlando di peccato, ci arriva forte la sofferenza espressa da una di noi. Ci attraversa. Crollano le barriere che spesso alziamo per non consentire agli altri di farsi prossimi alle nostre ferite, di vederci nella nostra nudità. Vivere nel peccato significa per me vivere di compromessi, in una condizione di non autenticità. Senza venire davvero allo scoperto. Rimanendo coperta con un vestito che non voglio, che non mi appartiene, ma che seguito ad indossare. Doloroso. Tanto, troppo… ma anche comodo? L’accettazione sociale a scapito dell’autenticità può risultare intollerabile, perché la posta in gioco è la propria identità. Rimanere scissi e sentirsi in difetto rispetto a chi è uscito allo scoperto, facendo scelte radicali. Restare nel “calduccio” rassicurante della propria vita, che in verità tanto caldo e rassicurante non è. Dispiacere ed amarezza, tanto più grandi e profondi quanto più sembra impossibile condividere questo sentire con la persona che si ama.
Ma dietro tutto questo c’è forse una sorta di confusione? Quella di sentire e confessare come proprio il peccato della società, che costringe ad indossare una maschera?
Anche Gesù, ci racconta il Vangelo, si unì al gruppo di peccatori che, sulla riva del Giordano, chiedeva a Giovanni il battesimo. Perché? Anche Gesù si sentiva un peccatore? Gesù vedeva nel suo popolo le divisioni, i muri eretti tra ricchi e poveri, puri e impuri, sani e malati, peccatori e coloro che si sentivano “a posto”, e si guardavano bene dal mischiarsi con i peccatori e gli impuri. Quello era il peccato in cui vedeva immerso il suo popolo; non sappiamo come Gesù si sentisse, ma sappiamo che di quel peccato si fece carico, ne sentì il peso tremendo sulle sue spalle e cercò in tutta la sua vita di far cadere quei muri, perché il suo popolo si liberasse e rinascesse a vita nuova.
Pensiamo ai muri e ai discriminati del nostro tempo. C’è chi ricorda l’esodo drammatico a cui assistiamo: una moltitudine di persone che subiscono torture, muoiono annegate o sotto il sole rovente del deserto, e, una volta vicini alla meta, trovano porti chiusi. E pensiamo a chi costruisce le sue fortune politiche erigendo muri e mettendo gli ultimi, i diseredati della terra, contro i poveri del nostro Paese. Discriminati contro discriminati, nel nome di priorità da rispettare. Non è nuovo il trucco. Scorretto, ma funziona!
Ma può succedere che stabilire priorità tra i discriminati riguardi anche chi è sensibile alle discriminazioni? C’è chi può pensare che, di fronte alla strage di innocenti che si sta consumando sotto i nostri occhi, questa sia la priorità assoluta su cui concentrare tutti gli sforzi. Le altre discriminazioni possono aspettare, hanno una priorità più bassa. Discriminati contro discriminati. Stavolta non per tornaconti personali o di partito, ma per “buoni motivi”, magari in nome del “politicamente corretto”.
E ci chiediamo: subire discriminazioni come persone LGBT, o sentire il peso delle discriminazioni che possono subire i nostri figli e le nostre figlie, ci mette al riparo dal rischio di discriminare?
Il peccato che Gesù vedeva nel suo popolo ci riguarda, anche la nostra società in quel peccato è immersa. Non possiamo chiamarci fuori, e solo insieme possiamo uscirne. Seguire l’esempio di Gesù? Non ci siamo nascosti le difficoltà e i rischi.
Tra i discriminati del suo tempo Gesù non ha mai stabilito priorità, né strumentali al potere, né giustificabili per buoni motivi e opportunità politiche. Poteva concentrarsi sui poveri, che peraltro non hanno nessuna colpa per la loro povertà; perché si è andato a infognare con i peccatori, con persone di cattiva reputazione? Esponendosi a critiche da parte del potere religioso del suo tempo, creando scandalo e perdendo così quella reputazione che avrebbe potuto utilmente spendere dalla parte dei poveri. Era questa la cosa “politicamente corretta” da fare? Forse sì, ma Gesù non l’ha fatta. E ha perso. I muri che dividevano il suo popolo sono rimasti lì. In quanto a lui, è stato arrestato, deriso, torturato, umiliato, ed è uscito dalla storia come uno sconfitto. Un manipolo di persone che non contavano niente, pescatori e donne, hanno poi raccontato di averlo visto vivo. Ma questa è un’altra storia…
Luca 3:3.10-14
Allora Giovanni cominciò a percorrere tutta la regione del Giordano e a dire: «Cambiate vita e fatevi battezzare, e Dio perdonerà i vostri peccati».
Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
* La restituzione è una sorta di resoconto di quanto è stato detto nel corso dell’incontro. Come in un collage, sono messi insieme frammenti significativi degli interventi dei singoli partecipanti, parole e pensieri espressi da ciascuno e ciascuna.
** PAROLA… E PAROLE è un gruppo di incontro esperienziale cristiano per genitori di persone LGBT e genitori LGBT di Roma. Ci incontriamo per percorrere e tracciare insieme il cammino verso una società ed una chiesa inclusive, dove nessuno sia messo ai margini. Lo facciamo seguendo le orme di quel Gesù di Nazareth, che, sulle strade della Palestina, ha condiviso la sua vita con gli esclusi e le escluse del suo tempo. Ci incontriamo una volta al mese, normalmente il primo venerdì, alle ore 20 presso un locale attiguo alla chiesa di Sant’Ignazio. Coloro che sono interessati, possono contattarci a questi recapiti: Alessandra Bialetti 346 221 4143 – alessandra.bialetti@gmail.com; Dea Santonico 338 629 8894 – dea.santonico@gmail.com