Qual è il posto delle persone LGBT+ nella Chiesa cattolica?
Articolo tratto dal sito della Katholische Jugend (Gioventù cattolica) della Diocesi di Vienna (Austria), liberamente tradotto da Michele D’Adamo
Circa due anni fa, una volontaria di Katholische Jugend (Gioventù cattolica) mi parlò di come si era resa conto di essere lesbica. Se inizierà una relazione, non vuole nasconderla, ma piuttosto parlarne apertamente. Pensava che non avrebbe avuto problemi dal punto di vista personale, ma si è offerta di interrompere il suo lavoro di volontariato per non danneggiare l’immagine della Katholische Jugend se la sua relazione fosse venuta alla luce. Questa conversazione mi ha sconvolto: non per l’identità sessuale menzionata, ma per la supposizione che per via del suo orientamento non potrebbe (più) avere posto nella Chiesa.
Come vivono le persone omosessuali nella Chiesa, nei nostri gruppi e nelle nostre parrocchie? E come reagiamo noi della Chiesa alle persone che fanno coming out dichiarando la loro omosessualità?
Don’t ask, don’t tell
A volte si ha l’impressione che nella Chiesa prevalga ancora la politica del Don’t ask, don’t tell (non chiedere, non dire), come era consuetudine fino a poco tempo fa nell’esercito americano: basta non parlarne. Questo atteggiamento non può giovare alle persone omosessuali e alla loro comunità, ma neanche alle nostre parrocchie e ai nostri gruppi. La necessità di nascondersi non può essere un atteggiamento cristiano o spirituale! Così afferma anche il Magistero ecclesiastico nel Catechismo della Chiesa Cattolica: le persone omosessuali “[…] devono essere trattate con rispetto, empatia e tatto. Non bisogna farle sentire ingiustamente lasciate da parte in alcun modo. Queste persone sono anch’esse chiamate a compiere la volontà di Dio nella loro vita e, se sono cristiane, a unire le difficoltà che possono derivare dal loro essere al sacrificio della croce del Signore”. (KKK 2358)
A prescindere dal fatto che le sezioni immediatamente precedenti e successive del Catechismo descrivono l’omosessualità come una “aberrazione”, e affermano che gli atti omosessuali sono “intrinsecamente sbagliati” e che le persone con orientamento omosessuale sono quindi chiamate alla castità, va sottolineato che il Magistero invita al “rispetto, all’empatia e al tatto” nei confronti di esse. Un trattamento così rispettoso esclude la “discriminazione ingiusta”; in altre parole, le persone che hanno deciso di essere aperte sul proprio orientamento sessuale dovrebbero trovare ovviamente un posto nelle nostre parrocchie, gruppi e organizzazioni ecclesiali.
Il Consiglio pastorale della diocesi di Linz, ad esempio, nel 1999 ha dichiarato: “La discriminazione delle persone a causa del loro orientamento omosessuale non può basarsi su principi cristiani. Queste donne e questi uomini, come tutti gli altri, sono invitati senza riserve a vivere, celebrare e collaborare nelle nostre congregazioni e organizzazioni ecclesiali”.
Tuttavia, ciò solleva la questione di quanto siamo andati avanti nella nostra pratica quotidiana. Il clamore (in gran parte mediatico) suscitato da un consigliere parrocchiale omosessuale eletto lo scorso anno ha dimostrato chiaramente che un comportamento rispettoso è ancora lontano dall’essere la norma.
Le persone omosessuali si difendono dall’essere ridotte dalla Chiesa alla peccaminosità delle espressioni fisiche del loro amore e della loro relazione a causa della propria identità sessuale, e sono regolarmente chiamate al pentimento e alla rinuncia:
“Non vedo alcuna necessità di pentimento o conversione per quanto riguarda il rapporto con la mia ragazza. Mi sforzo di vivere in accordo con la mia interiorità più profonda e di stare dalla parte di me stessa e di Dio.
Grazie a questa relazione, il mio cuore è più aperto e più ampio, la mia vita è più viva. Se non è disturbata da fattori esterni, la mia anima trova riposo, pace e sicurezza in questa relazione, e il
fatto è che la mia ragazza è giusta per me, e io sono giusta per la mia ragazza. Entrambi beneficiamo molto l’una dell’altra, non so quanto sia innato o ereditato o quanto io sappia, ma so che c’è amore”. (cit. da una lettera di una giovane donna a un vescovo austriaco)
Prosegue scrivendo che la relazione persiste e che le due donne condividono la vita di coppia, con tutte le sue sfaccettature.
Segnale di speranza
Tuttavia, ci sono alcuni segnali di speranza, ovvero: anche i rappresentanti della gerarchia ecclesiastica stanno cambiando idea. Ciò è dovuto non solo grazie all’intervento personale del cardinale Schönborn nel già citato caso del consiglio parrocchiale di Stützenhofen, ma anche grazie alle dichiarazioni rilasciate dall’arcivescovo di Berlino al Katholikentag dello scorso anno. Qui il cardinale Rainer-Maria Woelki aveva esortato a un atteggiamento positivo nei confronti degli omosessuali; facendo esplicito riferimento al catechismo, ha sottolineato che tra loro ci sono molti che si assumono una responsabilità duratura gli uni verso gli altri e promettono di essere fedeli. Pertanto, “non bisogna considerare le relazioni omosessuali una ‘violazione della legge naturale'” (citazione dal giornale Die Welt, 27 giugno 2012).
A prescindere dalle speculazioni su come si sviluppa o nasce l’omosessualità, gli omosessuali vivono il loro orientamento sessuale come una parte della loro personalità che forma la propria identità. A questo proposito, le speculazioni sulle possibili “cure” (che si basano sulla natura patologica dell’identità sessuale e puntano a un cambiamento del comportamento che va contro la personalità) non hanno senso e non rendono giustizia alla realtà della vita di molte persone omosessuali. Naturalmente, le affermazioni dei vescovi austriaci (nell’ordinanza quadro “La verità vi farà liberi”) non si applicano soltanto alle persone eterosessuali: “Ogni persona vive la propria identità sessuale come parte costitutiva della propria personalità. La sessualità come esperienza amorevole e piacevole del corpo, proprio e del partner […] appartiene all’essere più intimo della persona umana, che secondo la visione cristiana è intesa come unità di carne e anima, di corpo e spirito”.
Anche se non cambiasse nulla nell’insegnamento della Chiesa – secondo cui il matrimonio sacramentale è possibile solo tra un uomo e una donna – sarebbe già possibile per la Chiesa stessa riconoscere la nascita di una “unione registrata” come espressione di due persone che si assumono la responsabilità l’una dell’altra e che promettono di essere fedeli, e accompagnarla, ad esempio, con le proprie benedizioni. In ogni caso, nelle nostre parrocchie dovrebbe essere possibile per gli omosessuali sostenere la propria identità senza essere ostacolati o discriminati, che si tratti del consiglio parrocchiale, dei gruppi parrocchiali, del capogruppo di un gruppo giovanile, della Caritas parrocchiale, ecc. ecc.
Non c’è posto per la discriminazione
È fuor da ogni dubbio che nelle comunità e nei gruppi cristiani non ci debba essere spazio per il pregiudizio profondamente offensivo e ingiusto fondato sul sospetto generale che le persone omosessuali abbiano maggiori probabilità di commettere abusi contro i bambini e i giovani. Il quadro di riferimento della Chiesa “La verità vi farà liberi” afferma inequivocabilmente: “È sbagliato e ingiusto supporre che le persone di orientamento omosessuale abbiano una maggiore tendenza alla violenza sessuale. L’equiparazione delle persone omosessuali ai ‘molestatori di ragazzi’ deve essere categoricamente respinta. Non deve trovare spazio nella pratica ecclesiastica “. Se tali affermazioni discriminatorie dovessero ancora verificarsi sporadicamente, coloro che sostengono questa opinione devono essere contraddetti con fermezza. Se le persone che si occupano di pastorale fanno commenti al riguardo, i rispettivi superiori devono essere informati.
In particolare, gli adolescenti e i giovani adulti che si identificano omosessuali dovrebbero sentirsi in buone mani nei gruppi ecclesiali e dovrebbero essere motivati (anche attraverso l’incontro con “modelli”) ad aprirsi sul loro orientamento. Alla luce dei numerosi casi di discriminazione e denigrazione nell’ambiente scolastico, ad esempio, la loro fiducia in sé stessi dovrebbe essere rafforzata nei gruppi ecclesiali e dovrebbero vivere l’esperienza di essere accettati.
Purtroppo, nell’accompagnamento pastorale delle persone omosessuali e della loro comunità c’è ancora molto rifiuto e sofferenza, spesso dovuti a ignoranza e pregiudizio. Per fornire un sostegno competente in questo ambito, molte diocesi hanno creato centri specializzati per la pastorale degli omosessuali in collaborazione con gli uffici di consulenza per i partner, il matrimonio, la famiglia e la convivenza. Già nel 1998, il leggendario don Joop Roeland era stato incaricato della cura pastorale delle persone omosessuali nella arcidiocesi di Vienna; purtroppo, dopo la sua morte nel 2010, il dipartimento non è rimasto in funzione.
Mentre le Chiese protestanti e vetero-cattoliche in Austria hanno ampiamento riconosciuto le unioni omosessuali, la Chiesa cattolica romana ha ancora molte difficoltà a farlo. In particolare, la definizione che le relazioni omosessuali sono “intrinsecamente disordinate” rende improbabile il riconoscimento degli omosessuali nel prossimo futuro.
I ripetuti interventi della Chiesa contro le leggi volte ad equiparare i diritti (e i doveri) delle unioni omosessuali ed eterosessuali hanno portato anche a una grande perdita di fiducia nella Chiesa da parte della comunità lesbica e gay. Nonostante tutte le riserve e tenendo conto del benessere del bambino, la possibilità della cosiddetta stepchild adoption (l’adozione di un bambino biologico che uno dei due partner ha “portato” nella relazione) sarebbe possibile anche nelle unioni omosessuali senza grandi difficoltà.
L’opinione della Chiesa è ancora decisiva sulla questione di considerare l’omosessualità un ‘peccato o’ se questo pregiudizio categorico debba essere ridimensionato. Ancora una volta, la giovane donna che ho citato all’inizio ha l’ultima parola:
“Credo che Dio voglia la vita in abbondanza per ogni singola persona, per ogni singola persona nella sua unicità. Per alcuni questo significa una relazione eterosessuale, matrimonio, figli. Per altri, una vita celibe. E per altri ancora, significa vivere con un partner dello stesso sesso. Non vedo alcun male nell’unione tra persone dello stesso sesso, nessun danno per la società e nessuna distanza da Dio (che sarebbe un segno di peccato).
- Nessuno oltre a me stessa può giudicare la mia vicinanza a Dio.
- Diverse persone mi hanno detto che sono cambiata da quando ho iniziato questa relazione: sono diventata più rilassata, più morbida, più umana.
- E poiché sono cambiata in meglio, questo è anche un beneficio per la società, soprattutto per tutte le persone che incontro.
Piuttosto, vedrei come un peccato il fatto che qualcuno non segua ciò che sente essere la sua verità più intima“.
Testo originale: „Ich weiß, es ist Liebe da …“. Zum Platz Homosexueller in der katholischen Kirche