Quale catechismo? L’eredità di Ratzinger per i credenti LGBT+
Riflessioni di Antonio De Caro*, parte terza
Come prefetto per la Congregazione della Dottrina della Fede Ratzinger ha certamente avuto un ruolo di primo piano nella stesura del vigente Catechismo della Chiesa Cattolica, il cui par. 2359 recita: «le persone omosessuali sono chiamate (vocantur) alla castità».
Cioè impone a tutte le persone omosessuali, senza eccezione e senza lasciare loro la libertà di interrogare la propria coscienza, una vocazione, un destino di vita che incide profondamente sulle loro scelte affettive e relazionali e sul loro equilibrio psicofisico.
Trovo estremamente pericoloso un magistero che stabilisca a priori quale sia la vocazione dei figli e delle figlie di Dio e che li costringa senza appello a tale vocazione (che invece, in ogni altro caso, è un dono libero di Dio e spetta alla libertà della persona accoglierlo e coltivarlo, come nel caso della vocazione matrimoniale o sacerdotale).
Il punto, però, è che non sono solo io a trovarlo pericoloso, ma lo stesso Codice di Diritto Canonico (promulgato da Giovanni Paolo II nel 1983), che infatti al §219 recita «Tutti i fedeli hanno il diritto di essere immuni da qualsiasi costrizione nella scelta dello stato di vita».
Ancora una volta mi chiedo: il prefetto Ratzinger, futuro sommo pontefice, aveva dimenticato che la legge della Chiesa tutela la libertà dei cristiani, o scientemente preferiva censurare tale legge perché l’unico obiettivo non negoziabile era sacrificare le persone omosessuali sull’altare della Tradizione, cioè per non dovere ammettere che tale Tradizione era ed è discutibile?
La vulgata è che il nemico di Ratzinger fosse il relativismo: la verità deve essere una, assoluta, la stessa, uguale per tutti; l’Europa e il mondo devono inchinarsi a questa verità che solo la Chiesa Cattolica Romana detiene ed insegna, al di fuori della quale non vi è salvezza. Ritengo che la storia (innanzitutto cristiana ed europea) abbia ampiamente e sanguinosamente dimostrato i rischi di questa intollerante presunzione. Ma il punto è un altro. Ragionando in maniera manichea, Ratzinger ritiene che o si aderisce alla verità cattolica (sul piano ontologico e morale) o si è destinati alla dissoluzione e alla dissolutezza morale (quindi, in ultima analisi, all’errore e alla dannazione), poiché la «dittatura del relativismo… non riconosce nulla come definitivo e lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Il fatto è che sono esistite ed esistono persone non cattoliche o non cristiane dotate di profonda moralità, che hanno speso la loro vita per gli altri e sono stati grandi esempi di coerenza e di integrità. Il bene può esistere anche extra Ecclesiam, come già riconosceva Agostino nella Città di Dio.
La visione estremista di Ratzinger e dei suoi seguaci non salva chi, con umiltà, pazienza e imperfezione, cerca di avvicinarsi al bene e a Dio imparando ogni giorno di più a vivere secondo l’amore.
Da ragazzo, chiedevo ai sacerdoti «sono gay: posso sperare di innamorarmi, di vivere in pienezza una vita di relazione con un altro uomo, di costruire seriamente un progetto di amore? Posso sperare che Dio mi ami e mi accolga come sono, poiché mi ha creato così? Posso affidare a lui il mio sogno di formare una famiglia da omosessuale, posso chiedere la sua benedizione, perché questa famiglia viva l’amore come dono di sé nelle sue molteplici possibilità? La Grazia di Dio aiuterà me e il mio partner a superare le difficoltà e a costruire una casa sulla roccia? Quando avrò un compagno, potrò continuare a frequentare la parrocchia, a fare il catechista, ad insegnare in una scuola cattolica, a vivere e celebrare la fede con voi, come ho sempre fatto?».
Quando facevo queste domande, e la risposta era quasi sempre un NO più o meno gentile (un NO che accentuava smarrimento, disperazione, senso di colpa, odio per me stesso), tale NO dipendeva proprio da questo estremismo etico. Grazie a Ratzinger e al senso morale (?) da lui infuso nella Chiesa nessuno è stato in grado di incoraggiarmi rivelandomi quello che ho scoperto faticosamente in anni di dolorosa ricerca, e cioè che essere omosessuali e credenti non vuol dire sottomettersi alla dittatura del relativismo, non vuol dire costruire una fede falsa ed opportunista per obbedire alle voglie perverse dell’io.
Piuttosto, senza rinnegare la mia identità, e forte della Parola e della Grazia di Dio (quella che il magistero di Ratzinger riteneva di dovermi negare), posso e possiamo orientare la nostra vita di coppia e di famiglia ad un amore serio, adulto e oblativo, alimentato dal vangelo, in cui ciascuno dei due è chiamato al dono di sé e alla cura dell’altro.
Questo non è relativismo, non è egoismo, non è errore, non è eccessiva indulgenza verso le proprie passioni peccaminose: è sforzo autentico, onesto, sincero, di puntare in alto, verso i migliori valori umani e cristiani, verso l’abbraccio di Dio, senza rinnegare la nostra coscienza e la nostra identità. È credere che siamo salvati dalla speranza (spe salvi) in un Dio che è amore (Deus caritas est), proprio come ha insegnato Ratzinger. Solo che mentre lo insegnava negava risolutamente (e in spregio alla verità biblica e morale) che io e quelli come me fossimo invitati alla festa.
*Antonio De Caro è autore dell’ebook teologico “Cercate il suo volto. Riflessioni
teologiche sull’amore omosessuale” (edito da Tenda di Gionata, 2019, 48 pagine, scaricabile gratuitamente) e del libro “La violenza non appartiene a Dio“, editore Calibano, 2021.