Il teologo Vito Mancuso: “Quale dialogo tra le religioni?”
Trascrizione della relazione tenuta dal teologo Vito Mancuso*, non rivista dall’autore, all’Abbadia di Fiastra il 26 maggio 2012
Buonasera a tutti. Io ho preparato questo incontro, ho i fogli davanti a me ed esordisco col dire che vengo da un dibattito con il filosofo della scienza Giulio Giorello, un dibattito tenuto questa mattina a Fabriano. Pochi giorni prima avevo avuto un altro dibattito, sempre su fede e scienza, religione e scienza con un altro scienziato anche lui ateo, come il Giorello, che è Edoardo Boncinelli.
Perché dico queste cose se devo parlare dell’equilibrio delle religioni? Per fare un passo preliminare che non è nei fogli che ho preparato, che poi andrò a vedere, e che è sostanzialmente capire perché noi esseri umani abbiamo inventato, e uso volutamente questo termine un po’ provocatorio “abbiamo inventato” le religioni. Perché abbiamo escogitato questa modalità di stare al mondo, di vedere il mondo, questo prisma mediante cui guardiamo la vita?
La mia risposta è la seguente, sì, è una risposta che si rifà a una celebre pagina della Critica della Ragion pura di Immanuel Kant, uno dei testi filosofici a cui la coscienza moderna e contemporanea è debitrice. Ebbene, Kant, verso la fine della Critica alla ragion pura dice che: “tutto il pensare, l’essere, l’agire degli uomini si può riassumere mediante tre domande: che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? Che cosa mi è lecito sperare?”.
La prima domanda genera la conoscenza, l’impresa scientifica, desiderio di sapere.
La seconda domanda genera l’etica, come mi devo comportare? Come devo utilizzare le varie conoscenze che mi provengono dalla mia ricerca, dalla ricerca degli altri? Che cosa devo fare, che cosa devo non fare?
E in fine la terza domanda, che per Kant è assolutamente decisiva come le altre, perché tutte e tre giungono a formare l’anfiteatro dell’anima umana: che cosa mi è lecito sperare di me, del mio vivere, della mia fine, della fine dei miei cari? Quale speranza è lecito nutrire, di fronte a questo girotondo o danza della morte, commedia, tragedia, a questo mondo di fantasmi e di poesia, quali speranze sono lecite?
Ecco! Le religioni, se esistono, è perché ritengono che si possa dare una sintesi armoniosa tra conoscenza (primo momento), tra etica, l’agire (secondo momento) e lo sperare, la speranza.
E’ il terzo momento in base al quale un uomo, un essere umano si compie in tutte le sue dimensioni, dimensione razionale e fredda e nella sua dimensione chiamiamola emotiva-calda e vedete, siccome si parla dell’equilibrio, io sono convinto che la grande scommessa del nostro tempo è quella di riuscire ad armonizzare proprio la dimensione conoscitiva con la dimensione sapienziale, la dimensione scientifica con la dimensione umanistica, che sono state unite all’inizio, in principio, in tutte le grandi civiltà.
Sono sorte dalla medesima tensione ma che poi, per una serie di motivi a cui non c’è tempo di accennare, si sono separate, sono anche diventate nemiche e per questo quando si parla di fede e scienza spesso c’è inimicizia, polemica. Ebbene, il compito del nostro tempo è quello di armonizzare. Più si trova armonia più si trova equilibrio fra le varie dimensioni dell’essere umano, meglio è.
Ora, fatto questo cappello che a me sembra importante, chiediamoci: perché dobbiamo parlare delle religioni, cosa c’entrano le religioni, da dove sorgono? Ecco, in qualche maniera spero di essere riuscito a spiegare che la dimensione religiosa è veramente costitutiva della dimensione umana. Adesso verrò ad affrontare il tema dell’equilibrio tra le religioni, che è un problema antichissimo e nuovissimo. È antichissimo perché da sempre quella ricerca di speranza si è modulata in diversi modi. Da sempre le religioni sono state plurali, non c’è stata mai una unica religione. Da sempre abbiamo avuto le religioni, come da sempre abbiamo avuto le filosofie. Quindi è un problema antichissimo, però è un problema al contempo nuovissimo.
Nuovissimo, perché? Ma perché prima, in un certo senso il problema dell’accordo e dell’equilibrio tra le religioni poteva essere solo una disputa tra dotti, tra pochi teologi che conoscevano le altre religioni, che avevano a che fare con gli appartenenti e i fedeli di altre religioni. Oggi la dimensione è radicalmente mutata, oggi tutti quotidianamente a partire dalle aule dove i nostri bambini e i nostri nipotini vanno a scuola o all’asilo, abbiamo a che fare con il pluralismo religioso, a partire dalle strade delle nostre città e dei nostri Paesi. Quindi è un problema nuovissimo ed è un problema che tocca da vicino anche la teologia cattolica, alla quale io appartengo e che tento di esercitare alla mia maniera.
È un problema che la teologia cattolica deve affrontare, per due motivi: primo, perché i tempi lo richiedono, cioè, per essere fedele al proprio tempo, alla condizione del proprio tempo non si può oggi fare legittimamente teologia cattolica senza, da subito, pensare in termini di pluralismo religioso, da subito, cioè impostando da subito per esempio l’idea della teologia morale, per esempio l’idea della teologia della salvezza per esempio o la preghiera e le modalità di pregare. Gli stati della vita, insomma, tutti gli stati della vita, tutti, tutti i temi, diciamo così, teologici tradizionali devono essere impostati dal punto di vista del pluralismo, cioè da subito si deve dire: “Bene! E i buddisti che cosa pensano al riguardo? E gli ebrei che cosa pensano al riguardo? E gli indù?”.
Il secondo motivo è ancora più importante: la teologia cattolica deve capire che affrontare il tema del pluralismo religioso è, non solo una concessione ai tempi, ma è un dovere per essere fedele al proprio statuto. Voi tutti sapete che cosa significa cattolico. Tutti voi sapete che cattolico significa universale e il grande dilemma della teologia cattolica, così come si è andata sviluppando lungo i tempi è che probabilmente è tanto romana e ben poco cattolica.
Questo è il vero problema. Non so se è evidente lo stimolo, cioè cattolico-romano, che è come dire “la curva dritta” in un certo senso.
Essere cattolico è di tutti, è apertissimo a tutti e romano è necessariamente particolare. Come può una cosa essere cattolica e romana? Ora, senza naturalmente venir meno all’identità storica del cattolicesimo, tuttavia oggi è importante prendere sul serio la sfida del dialogo interreligioso perché la teologia cattolica – ecco qui la cosa importantissima che sto dicendo – diventi se stessa, diventi veramente se stessa e pensi Dio così come il fondatore del cristianesimo parlava di Dio, cioè come del Padre di tutti gli uomini, di tutti i tempi.
Quindi torno a dire – e chiudo il primo punto – questo problema è antichissimo ma è nuovissimo, per le ragioni dette ed è così nuovo e così antico al contempo, così importante e strategico da riuscire, se lo affronti veramente, a fare in modo che la teologia cattolica diventi finalmente e veramente se stessa. E’ una sfida enorme questa ed è una sfida destabilizzante. Proprio perché la teologia è riuscita a pensare tanto la romanità e poco la cattolicità, noi oggi abbiamo una situazione di questo genere.
Questo compito di pensare il pluralismo religioso e di pensare tutti gli argomenti tradizionali della teologia e della spiritualità alla luce della pluralità delle religioni, questo compito è estremamente destabilizzante per la dottrina tradizionale. In un certo senso il fatto che la cattolicità teologica sia riuscita a pensare Dio come il Padre di tutti gli uomini e di tutti i tempi, destabilizza la cattolicità ecclesiastica, che ritiene invece di possedere lei solo la supremazia, la solutezza della verità.
Sto dicendo che pensare Dio dal punto di vista autenticamente cattolico significa mettere in crisi il pensiero di Dio dal punto di vista del cattolicesimo ecclesiastico ed è per questo che teologi contemporanei che oggi si stanno sforzando di pensare Dio dal punto di vista cattolico, universale, vengono spesso condannati dal magistero pontificio, non perché il magistero pontificio sia cattivo, attenzione bene – non è neanche buonissimo, ma insomma non è un problema moralista – ma perché fare veramente quel lavoro universalistico, significa necessariamente destabilizzare i fondamenti in base i quali la verità ce l’abbiamo solo noi, in base ai quali “extra ecclesiam nulla salus”, l’assioma del grande Henri De Lubac (uno dei teologi più importanti del 900, che ha contribuito al Vaticano II, padre della Teologie Nouvelle), persino lui diceva il venerabile assioma che fuori della chiesa cattolica non c’è salvezza e cioè per giungere alla salvezza devi entrare nella Chiesa, cioè devi farti battezzare, devi ricevere i sacramenti della Chiesa, sennò sei fuori, fuori non dalla Chiesa ma dalla salvezza.
Ecco! Tutto è stato impostato sulla base di questa concezione e quindi voler fare quel lavoro che i tempi impongono e che lo stesso statuto ontologico del Dio cristiano impone, significa necessariamente destabilizzare la dottrina tradizionale. È per questo che il magistero è in crisi, è per questo che dei teologi che tentano di fare questo lavoro, per esempio Anthony De Mello, per esempio Jacques Dupuis, per esempio Roger Haight, per esempio Raimon Panikkar, per esempio Paul Knitter, per esempio Hans Küng, per esempio Carlo Molari, per fare un nome di un italiano, teologi che tentano di fare questo lavoro vengono condannati, tolgono loro le cattedre, tolgono loro la qualifica di teologi cattolici e così via.
In un certo senso sono costretti a farlo, torno a dirlo, perché devono tenere ferma la dottrina come si è consolidata, però capiscono anche che i tempi, lo stesso res che è in gioco, cioè il pensiero effettivo di un Dio universale Padre di tutti, impone questa revisione e quindi c’è grande imbarazzo. Io adesso, per provare questo imbarazzo, farò due passi.
Primo! Vi leggo un passo bellissimo, di una donna meravigliosa, di una pensatrice, di una filosofa tra le più grandi che il secolo scorso ha generato, una mia maestra, una persona alla quale il mio pensiero deve moltissimo, che è Simone Weil. La seconda cosa poi la vedrete.
Il passo di Simone Weil si trova in una lettera che Simone Weil con la sua implacabile lucidità, rettitudine intellettuale, onestà adamantina, scrisse a un padre domenicano, il quale padre domenicano si vede bene dal rispondere a questa lettera, perché avrebbe dovuto rivedere tutto. Da “Lettera a un religioso”, edizioni Adelphi, piccola biblioteca Adelphi.
Se qualcuno vuole leggere questa cosa ne trarrà una luce. Allora scrive Simone Weil: “La credenza che un uomo possa essere salvato fuori dalla Chiesa visibile – cioè credere che anche fuori dalla chiesa cattolica si può entrare in comunione con Dio, si può ottenere quella che teologicamente si chiama la salvezza, noi potremmo dire laicamente la vita autentica, insomma ci siamo spiegati, spero – la credenza che un uomo possa essere salvato fuori dalla Chiesa visibile esige che tutti gli elementi della fede siano ripensati da capo, pena l’incoerenza completa, perché l’intero edificio – ecclesiastico, lei non lo dice ma questo è il senso – l’intero edificio è costruito attorno all’affermazione contraria, che oggi quasi nessuno vorrebbe sostenere. Eppure non si vuole ancora riconoscere la necessità di una simile revisione, si sottrae ad essa con miserabili artifizi, si mascherano le sconnessioni con saldature fittizie, con salti logici clamorosi.” Fine della citazione, che si trova a pagina 48 della “Lettera a un religioso”.
È un problema di solamente 70 anni fa? Questo testo è stato scritto nel 1942; oggi che siamo nel 2012 a che punto siamo? È un problema che si ripresenta tale e quale oggi e io adesso mostrerò alcune incoerenze, alcune contraddizioni dell’attuale Pontefice, di Benedetto XVI proprio in ordine al tema del pluralismo religioso e lo faccio non per spirito polemico, ma esattamente per mostrare la difficoltà in cui si dibatte il magistero contemporaneo.
Allora le contraddizioni di Benedetto XVI a mio avviso sono le seguenti:
Primo passo. Siamo al’11 Marzo 2006, il Papa è stato eletto da un anno, meno di un anno dall’elezione. Cosa fa Benedetto XVI? Declassa il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Voi sapete, il Vaticano è una specie di Governo: ci sono le congregazioni, ci sono i pontifici consigli, che sono un po’ come i nostri ministeri. Ebbene, all’interno di questi organismi esiste il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. Benedetto XVI lo declassa, nel senso che toglie al Pontificio Consiglio il presidente, che si chiamava Michel Fitzgerald, lo manda in Egitto a fare il nunzio apostolico e sottopone il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso al governo del Pontificio Consiglio per la Cultura. Non c’è più un ministero autonomo, che si occupa del dialogo interreligioso, dal 2006 non c’è più, c’è un unico ministero che è il ministero per la cultura, all’interno del quale, diciamo così, c’è un dipartimento.
E questo è un vero e proprio declassamento del Pontificio consiglio. Prima mossa, che chiamiamo “A”.
Primo Settembre 2007, “non A”, la contraddizione: il Papa ripristina, a un anno di distanza, il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso, lo ripristina nella sua autonomia, gli ridà un presidente. Che cosa era successo nel frattempo?
Qualcuno si ricorda cosa era successo il 12 Settembre 2006, qualcuno si ricorda? Qualcuno si ricorda che il Papa in quel tempo andò a Ratisbona, il discorso di Ratisbona, la grande polemica col mondo islamico, una polemica che fece veramente, come dire, innervosire parecchio – usiamo questo eufemismo – il mondo islamico e che portò addirittura all’uccisione di un prete cattolico e di una suora cattolica, oltre che a una serie di polemiche. E allora il Papa si rende conto che quella decisione di declassare il Pontificio Consiglio non era stata brillante, meno che mai infallibile e quindi ripristina, riporta in serie A il Pontificio Consiglio.
Passo ulteriore. 4 Settembre 2008. Ho detto “A”, “non A”. Ecco, questa del 4 Settembre 2008 è da collocare come “A”, è coerente con il declassamento. Perché? Perché il Papa scrive una lettera all’allora presidente del Senato, qualcuno di voi si ricorda, nel 2008, chi era il Presidente del Senato? La risposta è giusta, qualcuno ha detto Pera,è proprio così, Pera, Marcello Pera, allora Presidente del Senato. Il Papa scrive una lettera a questo intellettuale prestato alla politica, una lettera che poi lo stesso Pera pone come prefazione all’interno di un libro il cui titolo è “Perché dobbiamo dirci cristiani” lui tra l’altro da laico, ateo-laico, fa parte di quella cricca, diciamo di quel gruppo che si definisce atei devoti (Ferrara, Galli della Loggia, Pera), atei perché non credono e però clericali, cioè il contrario di me.
Ebbene in quella lettera sentite che cosa dice il Papa all’allora Presidente del Senato: “Particolarmente significativa è per me anche la sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale. Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale, che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile – cioè sulla decisione religiosa un vero dialogo non è impossibile, – senza mettere tra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo.”
Allora! Se avete seguito questa citazione avete capito perfettamente la decisione di sottoporre il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso al Pontificio Consiglio per il dialogo per la cultura. Sulla fede, dice il papa in questa lettera, non è possibile discutere. La fede è qualcosa che ti viene da Dio e insomma è un patrimonio che discende dall’alto. Che cosa discuto al riguardo? Semmai discuto sulle conseguenze culturali, che dalla fede scaturiscono, che non è una posizione, come tutte quelle di Benedetto XVI, come tutte quelle di Joseph Ratzinger, non è una posizione che non abbia un fondamento, che non sia fondata, che non sia rispettabile. Io non sono d’accordo ma è, come dire, una posizione rispettabile e fondata.
Poi capirete probabilmente perché non sono d’accordo ma adesso faccio il passo ulteriore. Siamo a Londra, 17 Settembre 2012. Benedetto XVI è in Inghilterra, parla ai rappresentanti delle diverse religioni, dice che il dialogo deve porsi su diversi livelli, tra i quali dice che ci sono vere e proprie conversazioni formali e precisa, attenzione bene: “Vi è, non solo la necessità dello scambio teologico, ma anche il porre alla reciproca considerazione le proprie ricchezze spirituali.” Cioè a Londra nel 2010 il Papa afferma ciò che due anni prima a Roma nella lettera a Marcello Pera aveva negato, perché parla della necessità di uno scambio teologico. Nella lettera a Marcello Pera Benedetto XVI dice che non si può dialogare sulla teologia, ma semplicemente sulle implicazioni culturali e quindi se volete sulla politica, sulla modalità di pensare alla società, sulla modalità di pensare il ruolo della donna nella società, l’economia.. ma non sulla teologia in quanto tale. A Londra invece, parlando ai rappresentanti delle diverse religioni, dice che c’è la necessità dello scambio teologico. Come spiegare queste mosse? Primo, declassa il Pontificio Consiglio.
Secondo, lo ripristina. Poi esclude la possibilità di un dialogo teologico. Secondo, invece no, afferma la necessità di un dialogo teologico. Come spiegare queste incoerenze, che sono incoerenze palesi?
Io tra l’altro queste cose le ho scritte nell’ultimo libro, è ormai uscito da due mesi e nessuno le ha potute smentire, perché “Carta canta”, come si usa dire, sono testi, sono citazioni precise! Come spiegarle? Esattamente per quanto dicevo prima, per l’imbarazzo nel quale il Magistero Pontificio si trova. Da un lato è pressato dal fatto che bisogna affrontare il tema del dialogo interreligioso, dall’altro ha paura, ha paura perché affrontarlo veramente significa, diceva Simone Weil, rivedere profondamente l’edificio.
Ci siamo fino a qui? È chiaro tutto quello che ho detto? Benissimo! E tutto a Settembre, sì, ci deve essere qualche congiunzione che fa succedere queste cose. Effettivamente, non lo avevo notato, tutto avviene a Settembre, anzi aspettiamo il prossimo Settembre e vediamo cosa sarà. Ecco, vedete, il compito della teologia è quello di tentare di mettere ordine più possibile, mettere ordine nelle cose, tentare di salire rispetto all’attualità e tentare di capire quali sono le idee, che informano, cioè che danno forma ai vari comportamenti.
Allora il passo che io adesso compirò, sarà il penultimo, poi ci sarà l’ultimo passo. Questo è il più importante che vado a compiere qui, è quello di mostrare i diversi modelli teologici, in base ai quali si può pensare il rapporto delle religioni tra di loro ed io vi enuncerò, molto velocemente, molto di corsa se volete ma spero che in maniera chiara cinque modelli teologici. Tutti e cinque vivono, nel senso che ci sono credenti che ospitano dentro di se o uno o l’altro o l’altro o l’altro di questi modelli, spesso anche all’interno della chiesa cattolica, spesso, di sicuro all’interno delle altre religioni ed è per questo che occorre conoscere questi modelli, per tentare di capire quando si parla del dialogo interreligioso, e tentare di capire qual è il modello che governa il discorso dell’interlocutore.
Allora il primo modello è il più tradizionale di tutti. Naturalmente io li presento dal punto di vista della teologia cattolica, che è il mio, è ovvio. Ci fosse un altro credente di un’altra religione li presenterebbe da un altro punto di vista. Dunque, il primo modello classico del cattolicesimo, ho già accennato a questo modello prima, lo possiamo definire come “Esclusivismo” ed è molto semplice: c’è una sola religione vera, tutte le altre sono false. Il fine, diciamo così, del dialogo religioso è unicamente la conversione, l’unico vero dialogo è finalizzato alla conversione. Se volete il termine “proselitismo”, se volete il termine “evangelizzazione” ma è la stessa cosa, a seconda che la connoti in modo positivo o in modo negativo ma insomma questo è.
Tu sei cattolico? Sì. Bene, devi sapere che il tuo compito nei confronti di chi non è cattolico, dei protestanti, degli ortodossi (primo cerchio), e poi degli ebrei, e poi dei mussulmani, e poi dei buddisti, e poi degli induisti e poi… il tuo compito è quello di convertirli, di farli diventare cattolici. Perché? Ma perché? Perché “extra ecclesia nulla salus”. L’unica vera via della salvezza è quella della Chiesa cattolica. Se voi leggete, questa “extra ecclesia nulla salus” è un assioma patristico, è un assioma che risale a Cipriano di Cartagine, terzo-quarto secolo ma anche nel 900 ci sono delle persone che pensano così.
Uno dei teologi, stavo dicendo cattolico, ma non è cattolico, non è che oggi i protestanti di tradizione calvinista, come Karl Barth, grandissimo Karl Barth, chi di voi ha qualche infarinatura di teologia sa che dicendo Karl Barth è come se vi avessi detto Diego Armando Maradona per il mondo del calcio, Michel Platini, insomma un grandissimo teologo del 900. Ebbene Karl Barth pensava esattamente così! Pensava esattamente in questi termini!
E se voi leggete il documento pubblicato dal Vaticano nel 2000, firmato dal Cardinale Joseph Ratzinger e controfirmato dall’allora arcivescovo Tarcisio Bertone (poi entrambi hanno fatto un passo in su) voi vi leggete questo documento, soprattutto il paragrafo 22, e vi ritrovate esattamente al cospetto di questa impostazione, moderata nei termini con cui oggi si possono dire certe cose, però così, tant’è che io ricordo bene, 12 anni fa, quando questo documento venne pubblicato, il grande imbarazzo, per non dire scandalo, per non dire anche qualche parola anche arrabbiature, che provocò nella parte cattolica più aperta.
Ricordo le reazioni del Cardinal Martini, reazioni negative. Se voi leggete “Conversazioni notturne a Gerusalemme” di Carlo Maria Martini voi trovate parole molto dure, contro la Dominus Jesus, contro questa dichiarazione del magistero pontificio. Quindi è quanto mai viva questa cosa. I lefebvriani, tanto per fare un esempio: perché i lefebvriani hanno compiuto lo scisma, per così dire, nei confronti della Chiesa cattolica, rifiutando la Nostra Aetate, rifiutando l’apertura del Vaticano II? Esattamente perché secondo loro viene meno questo primato assoluto del cattolicesimo. Dice quale dialogo? Cosa c’entra il dialogo? Da sempre noi sappiamo che solo all’interno della Chiesa cattolica c’è la vera salvezza.
Bene, l’esclusivismo. L’immagine che vi consegno nella mente, quando pensate a questo modello qual è? Bèh è questa: pensate al mondo come un grande diluvio e pensate che esiste una sola arca della salvezza e questa sola arca della salvezza è la Chiesa cattolica. Tutti i non cattolici ne sono esclusi. Ti vuoi salvare dai gorghi del diluvio? Devi entrare nell’arca della Chiesa cattolica.
Secondo modello è quello dell’Inclusivismo. E’ quello del Vaticano II ed è il modello oggi più diffuso all’interno del mondo cattolico. Il modello dell’inclusivismo dice quanto segue: tutte le religioni sono vere e quindi in un certo senso tutte sono salvifiche, ma tra tutte le religioni che in qualche modo sono vere, ce ne è una sola che è particolarmente vera che è il cattolicesimo, che è veramente vera. La verità vera è quella cattolica. Le altre sono verità, come dire, approssimative.
Non solo: quello che c’è di vero all’interno delle altre religioni, che lo sappiano o no, è cattolico, quindi quello che tu hai di buono all’interno, che tu lo sappia o no è cattolico e io non devo fare altro, quando parlo con te, che risvegliarti alla consapevolezza dei segni di bontà che ci sono nella tua religione, che nella mia sono veramente compiuti. Ovvero, c’è una sola arca della salvezza, all’interno di questa arca della salvezza non ci sono i cattolici ma ci sono anche i fedeli di altre religioni, però i posti migliori, quelli di prima classe, come il Titanic di De Gregori “Le ragazze di prima classe, poi la ragazza di terza classe”.
La prima classe, quella con 5 stelle, quella più importante, beh quelli sono i cattolici. Gli altri se vogliono veramente andare nei posti come si deve devono capire che devono salire fino a lì. Inclusivismo, cioè io includo, tu sei incluso all’interno di questa prospettiva ma, appunto, sei in un certo senso anche colonizzato, non so se mi spiego.
Terza prospettiva, pluralismo relativo o convergente. Cosa vuol dire? Mah, vuol dire che tutte le religioni sono vere, nel senso che tutte sono egualmente perfette e tutte sono egualmente imperfette e quindi? E quindi il cristianesimo è un sentiero accanto ad altri sentieri, verso l’unica cima del monte. Pensate una montagna.
Ecco, esiste il versante est è quello cattolico, il versante sud è quello ebraico, e così via. E tutti, nella misura in cui percorrono consapevolmente e onestamente la propria tradizione religiosa salgono sempre più su e giungono, all’unità, perché la meta è una e unica ed esistono vari versanti… ma una volta che sali, sei sopra, sei unito ed è per questo che parlo di pluralismo convergente. Cioè l’immagine che vi consegno, per stare sempre a quello dell’arca, è che esistono più arche della salvezza, non ce n’è una sola, ce ne sono di più, tutte sono queste arche per far si che gli uomini scampino, insomma, dal diluvio, dai flutti dell’esistenza, sono molteplici e però tutte convergono verso un medesimo porto.
Quarta immagine, parla del pluralismo assoluto o separazionista. Questa si pone in aperta dialettica con la terza via e dice: “E ingenuo caro amico, che tieni nella mente quell’idea del pluralismo convergente, pensare che tutte le religioni convergono verso la medesima meta. Basta guardarle le religioni e capire che in realtà sono molto diverse e non solo. Quello che per una religione è una meta, per l’altra è un errore! Ed è ingenuo pensare che ci sia un’unica meta, verso cui andare! In realtà occorre accettare la differenza irriducibile, tra le diverse religioni e per accettare questa differenza irriducibile occorre mettere in atto la teoria del buon vicinato”.
Qual è questa teoria del buon vicinato? Che tanto più i due vicini saranno buoni e non avranno problemi, quanto più saranno alti gli steccati che delimiteranno le rispettive proprietà. Quindi chiarezza dove comincia e dove finisce una religione, non facciamo questi minestroni, queste cose. Chiarezza. Ciascuno a casa sua e ci rispettiamo in quanto persone ma non c’è nessuna possibilità di… anche tu ti salvi, probabilmente, Dio, esiste effettivamente un pluralismo, non lo esclude, però siamo destinati a non capirci e ogni tentativo effettivo di dialogo crea solo confusione. Esplora veramente le differenze e vedrai quanto profonde siano le differenze.
Potrei fare anche nomi di chi li sostiene ma non mi sembra il caso. L’immagine qual è? L’immagine che consegno per chiudere questo quarto momento è quello delle più arche della salvezza, vi sono più arche ma ognuna è destinata a un porto diverso! Una a sud, l’altra va a nord, una va da una parte, una dall’altra. Quindi pluralismo assoluto separazionista, contro il pluralismo convergente del terzo modello.
Quinto e ultimo modello, così come emergono dalla teologia e io li ho tirati fuori leggendo molti libri dei vari teologi che teorizzano questo discorso del pluralismo religioso, ibridazione o doppia appartenenza.
Questa quinta via è una radicalizzazione della terza via, del pluralismo relativo. Cosa sostiene? Sostiene lo sconfinamento del singolo credente all’interno delle singole tradizioni religiose e cioè io che sono cattolico, posso, per alcuni aspetti, essere al contempo buddista, lo posso assumere. Tenete sempre presente l’immagine della salita verso la montagna, dopo arriviamo a quella delle arche, ma tenete presente l’immagine della salita. Ebbene, io sono cattolico e sto salendo sulla cima nel versante sud.
Ma ragazzi miei! A un certo punto il mio cattolicesimo mi impone una tale fatica in un passaggio in un tornante che la guardo come ho la vertigine, guardo “No, io lì non ci riesco a passare. Devo assolutamente prendere un’altra strada!” In questo tornante qui che poniamo è quello dell’etica sessuale cattolica, tanto per fare un esempio a caso, lì io non ci riesco a passare, non sono d’accordo, non ce la faccio e allora? E allora cosa faccio? E allora, per quanto riguarda quell’aspetto io scelgo di sconfinare e di salire la montagna in un altro versante, ecco quel pezzetto lì salgo per esempio nel protestantesimo.
Per esempio quello che dice il protestantesimo lì mi va e allora un pezzo, dopodiché però non mi vanno del protestantesimo altre cose e ritorno. E perché quello che conta non è la conformità alla dottrina per se stessa, perché io devo essere il moschettiere di chissà quale dottrina ma è il mio cammino spirituale, se volete anche il mio benessere spirituale, la mia salute intesa nel doppio senso fisica (sapete, salus in latino è sia salute, sia salvezza). Ecco proprio in questo senso.
C’è un libro bellissimo che teorizza in modo specifico questo, il libro di un teologo americano cattolico che si chiama Paul Knitter teologo americano cattolico, che ha scritto un libro il cui titolo è: “Senza Budda non potrei essere cristiano”. Cioè dice: per giungere ad essere veramente fedele ad alcune cose di Gesù io mi sono reso conto che ho bisogno anche di portare dentro di me alcune insegnamenti buddisti. Qual è l’immagine che vi consegno per chiudere questo quinto sentiero?
Ci sono più arche della salvezza, tutte convergono verso il medesimo porto, a differenza del pluralismo assoluto, tutte convergono verso il medesimo porto, e per questo il singolo navigante può per un tratto navigare all’interno di un’arca, poi per un altro tratto all’interno di un’altra, poi di un altro! Si passa di qua e di là. Qualcuno potrà dire “questo è sincretismo!” e probabilmente Paul Knitter direbbe “sì, è sincretismo!” e probabilmente Knitter potrebbe ricordare, nel suo libro non lo fa ma lo dico io a difesa di questa quinta via, il vero senso del termine sincretismo.
Voi sapete che “sincretismo” è l’accusa che normalmente si fa a chi tenta di radicalizzare il dialogo religioso, di ibridare le differenti correnti religiose, dice “ecco, vogliono fare una specie di minestrone, dove si mettono insieme tutte le tradizioni religiose e si fa un sincretismo, si fondono i vari credi a uso e consumo del singolo, quasi una specie di supermarket della religione”. Questo pericolo esiste, non ci sono dubbi, ma se noi conoscessimo l’origine del termine “sincretismo” allora forse rispetteremmo di più questa prospettiva.
Il termine “sincretismo” viene dall’antico greco, l’antica lingua greca e si riferiva a un costume che avevano gli abitanti di Creta, i quali erano naturalmente, come succede anche agli italiani, erano naturalmente nemici tra di loro, nelle varie parti di Creta, molto rivali, però avevano una particolarità, che quando vedevano le navi nemiche arrivare verso la loro isola si coalizzavano. Syn in greco vuol dire “con, insieme”.
Ecco che i cretesi, normalmente divisi, rivali tra di loro, si coalizzavano per fare forza, insieme contro un nemico comune. Ecco, l’idea di Paul Knitter è per molti aspetti anche la mia, è che oggi la minaccia del nichilismo, della disperazione, di chi non trova nessun senso all’esistenza e questa cosa tra l’altro di noi, figli del 900, di noi generati da questo secolo terribile e anche meraviglioso che è stato il 900, tutti noi siamo coinvolti in questa prospettiva, ecco, la minaccia, diciamo così, della perdita di ogni speranza, per tornare al discorso che facevo prima “che cosa mi è lecito sperare?” è tale che una religione da sola non ce la fa a sostenere le domande di senso, le obiezioni potenti della mente, se volete anche della disperazione contemporanea. Non ce la fa!
Occorre veramente il pluralismo, occorre veramente istituire un Pantheon della mente, un Pantheon. Tu, Vito Mancuso, da che parte stai? Nella quinta via? Io sto tra la terza e la quinta, probabilmente molto di più nella terza, perché vedete, è così seria la ricerca religiosa che l’obiezione di chi dice “supermercato, prendi un pezzo di uno e un pezzo dell’altro e metti insieme, mischi e chissà quale mistura ti viene!” quest’obiezione è molto fondata! È molto fondata.
Sto dicendo che può giungere a percorrere la quinta via meravigliosa ma pericolosa, impervia, col pericolo dell’ibridazione, solo chi si impegna serissimamente, quotidianamente, nello studio e soprattutto nella pratica, perché la dimensione religiosa è anzitutto una dimensione pratica, di uno e due religioni. Allora ha senso, altrimenti è un gioco!
Paul Knitter ha potuto scrivere questo libro, lui lo dice – tra l’altro è un libro che conosco bene perché non solo l’ho letto ma l’ho anche pubblicato all’interno della collana che dirigo – “E’ il libro che mi è costato di più! Ci ho messo 40 anni per scrivere questo libro!” 40 anni. E allora ha senso una cosa del genere, allora sì e se voi lo leggete voi capite la profondità di ricerca, capite che cosa significa veramente percorrere questa cosa.
Volete un altro esempio? Raimon Panikkar, il grandissimo Raimon Panikkar il quale pure a sua volta ha avuto, addirittura non un duplice ma un triplice percorso, perché Panikkar è al contempo cattolico, è al contempo indù ed è al contempo buddista e lui stesso lo dice “Io sono partito cattolico, sono diventato indù e sono giunto ad essere buddista, senza cessare per questo di essere cattolico.”
La famosa frase di Panikkar. Ma a che prezzo? Al prezzo di uno che è stato sacerdote alla Chiesa cattolica senza mai esserlo, che celebrava ogni giorno, che conosceva la Bibbia a memoria, che studiava, che ha studiato il sanscrito per approfondire i Veda e che conosceva i testi buddisti, che ogni giorno faceva meditazione e certo, allora ha senso, ma abbiamo a che fare veramente con pionieri, ecco, coi pionieri del Far West, con i pionieri dello spazio.
Ecco, noi quando parliamo oggi di queste persone abbiamo a che fare con pionieri, che hanno pagato quotidianamente, sopra di sé questo profondo tentativo di creare l’equilibrio delle religioni dentro di sé. Per chi come me non è in grado di fare un lavoro di questo tipo o la vita non l’ha portato a farlo e così via è molto meglio, a mio avviso, molto più prudenziale, attenersi al terzo discorso, quello di chi cioè detiene che esiste un pluralismo convergente, cioè tutte le religioni sono sentieri che portano verso la vita autentica, verso l’autenticità, verso la salvezza, verso la vita buona, verso l’incontro, la comunione con l’assoluto, la comunione con l’eterno. Ciascuno. E occorre veramente e semplicemente approfondire questa dimensione e ospitare al proprio interno la benevolenza affettuosa verso tutte le religioni. Grazie.
Domanda:
E’ intrecciata questa presunzione di Verità con la V maiuscola, con la fragilità, con la paura e altrettanto quindi il timore nel confronto di chi usa questa parola che è un’arma con eccessiva scioltezza. Però sento parlare di dialogo fra le religioni, non sento parlare – magari è un mio limite – di dialogo fra le fedi. Esiste questa espressione oppure è surreale esprimere la parola “fede” al plurale?
Risposta:
Anch’io non sento mai parlare di dialogo tra le fedi. Probabilmente perché la fede è una dimensione della religione, una dimensione costitutiva ma non è l’unica. Poi la fede esplicita produce una serie di comportamenti concreti, che diventano pratiche di culto, liturgie, usanze, pratiche alimentari. E così diventano le religioni, e quindi anch’io non ho mai sentito questa espressione. Però io credo che sia decisivo giungere al dialogo tra la fede, cioè nel senso che cosa vuol dire per me, per esempio, cattolico, dialogare con un ebreo, dialogare con un buddista?
Ma esattamente sulla fede. Io, contrariamente a Benedetto XVI che ritiene che sulla fede non ci può essere dialogo, perché pensa a questa concezione, come dire, dottrinale della Verità, cioè Verità uguale dottrina, uguale dottrina consegnata. Io non credo che si possa e si debba avere questo modello di verità. La verità è prassi, è vita buona. Siamo in primavera, voi sapete come si dice primavera in latino? Ver, veris. È la medesima radice da cui viene verus, vera, verum, da cui viene veritas, ovvero? Ovvero la verità è ciò che fa fiorire, è un metodo. È per quello che Gesù parla di “Solo chi fa la verità.”
La verità è poiesis, è prassi, la verità è una cosa che si fa e allora se è questo, ogni religione è un metodo, ogni religione è una via per giungere e quindi è chiaro che si può e si deve dialogare sul concetto di dio, sul concetto di salvezza, sul concetto di preghiera, sul concetto di ecc ecc, tutte le varie cose. Sono assolutamente convinto che lo si debba fare. Grazie
* Vito Mancuso è saggista e teologo. E’ stato docente di Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano e di Storia delle dottrine Teologiche presso l’Università degli Studi di Padova. I suoi scritti suscitano notevole attenzione da parte del pubblico, in particolare L’anima e il suo destino, Io e Dio. Una guida dei perplessi, Il principio passione. La forza che ci spinge ad amare, e Dio e il suo Destino, quattro bestseller da oltre centomila copie con traduzioni in altre lingue e un importante rassegna stampa, radiofonica e televisiva. Ha collaborato con “La Repubblica” e dal 2019 scrive per “Il Foglio”.