Quale posto c’é per i cristiani Lgbt nella Chiesa cattolica?
Articolo di Paolo Rodari pubblicato su “la Repubblica” del 8 aprile 2017
«Siamo qui a dire che la scandalosa ordinarietà delle nostre vite può avere posto nella Chiesa.
Essere se stessi avvicina a Dio. È passato il tempo per le persone Lgbt cristiane di vivere nelle catacombe. Abbiamo maturato la consapevolezza che è venuta l’ora di partecipare. Non vogliamo ostentare nulla, ma mettere in comune ciò che siamo. Le nostre esistenze non sono una bruttura da
nascondere, ma un patrimonio da condividere».
Alla prima assemblea di “Cammini di Speranza”, l’associazione nazionale delle persone Lgbt cristiane (camminidisperanza. org), in corso in questi giorni ai Castelli Romani, ritornano le parole Che disse anni fa a un gruppo di omosessuali don Arturo Paoli: «La tenerezza di Dio che ho scoperto
in tarda età non vi è preclusa». Non hanno particolari richieste le decine di donne e uomini omosessuali, bisessuali, transessuali cristiani accorsi, semplicemente la gioia di dire: «Ci siamo. E Della Chiesa siamo parte».
Dice Luca G., 38 anni, di Cuneo: «Grazie all’aiuto di tante persone, non ultimo Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, e anche don Franco Barbero, ho capito che non devo chiedere il permesso a nessuno per far parte della Chiesa. Per stabilire un dialogo fra posizioni diverse non occorre mostrare un passaporto».
Con Francesco molto è cambiato nella Chiesa. Non a livello dogmatico, ma nella pastorale, dice Antonio De Chiara, di Napoli, presidente di “Ponti sospesi cristiani omosessuali”: «Quei due paragrafi di Amoris Laetitia dedicati all’omosessualità, anche se sono un passo indietro rispetto alla
relazione di metà lavori del Sinodo, hanno fatto sì che l’approccio di molti vescovi sia cambiato».
Certo, le esperienze di sofferenza, per chiusure e pregiudizi, sono state molteplici. Racconta ancora Antonio: «Il mio compagno, Eduardo, ha chiuso con la Chiesa da quando non ha voluto approvare
la depenalizzazione dell’omosessualità. Era una risoluzione Onu. Il Vaticano rifiutò. Ma anche il mio percorso è stato di sofferenza. Un prete psicologo provò con me in giovane età una terapia riparativa. Considerava l’omosessualità un tumore da estirpare. Non potevo toccare mio padre, mio
fratello. Mi ha liberato il Signore. Ho pregato Dio e mi ha ascoltato. Un giorno su un’isola greca un uomo, Vanghelis, mi ha accolto, mi ha amato e mi ha fatto capire che la gioia per me era a portata di
mano: accettarmi e amare un altro uomo».
Andrea Rubera è portavoce di “Cammini di speranza”. Sposato con Dario, si occupa di risorse Umane, diversità e inclusione. Dice: «Vogliamo un percorso di condivisione nella Chiesa. Per noi Cristo è amore. Ma non sempre il suo corpo che è la Chiesa se lo ricorda. Non siamo un gruppo antagonista o polemico, vogliamo essere organici alla Chiesa, stare dentro e offrire l’opportunità di una prospettiva inclusiva per tutti, a partire dal mettere in comune la verità e la bellezza delle nostre vite. Una persona omosessuale o transessuale deve sentirsi libera di frequentare qualsiasi comunità.
Tanto che puntiamo all’abolizione dei nostri gruppi e all’integrazione totale. “Cammini di speranza” nasce dallo spirito di rinnovamento che sta proponendo Francesco, e che ci sentiamo di appoggiare.
Ci sembra profetico l’invito a guardare alla persona a partire dalla sua esistenza, ritrovando lo sguardo del cuore e mettendo da parte per un secondo quello della legge».
Ne è convinto anche Vinicio, 40 anni, di Frascati. Responsabile in un’azienda, ha un compagno francese con cui si è sposato al consolato di via Giulia a Roma. Racconta: «Ho sempre fatto attività in parrocchia: animatore, catechista e formatore. I parroci mi hanno sempre accolto. Tranne uno,
che mi disse: “Frequenta le donne e vedrai che ti passa”. L’ho ignorato. Scrissi con semplicità anche al Papa, dicendogli che per me l’omosessualità è uno dei talenti da investire, come dice la parabola del Vangelo».
Diverse le donne presenti. Fra loro Carola, 40 anni, di Piacenza, impiegata. Dice: «Ho avuto coscienza della mia omosessualità a 30 anni. Facevo parte di un grande gruppo ecclesiale per il quale dovevo viverla nella castità. La mia coscienza mi gridava altro. Un giorno ho trovato la forza di andarmene, senza sbattere la porta, semplicemente dicendo che ero innamorata di una ragazza.
Ho scoperto un nuovo rapporto con Dio, da figlio maggiore pieno di superbia a figliol prodigo che si sente accolto. La mia spiritualità è diventata adulta. Benedico oggi la mia omosessualità, è lo strumento che Dio ha usato per tirarmi giù da un idolo. Ancora purtroppo c’è tanta gente “in mezzo al fiume”, persone non riconciliate, sappiamo che hanno bisogno. A loro tendiamo una mano e speriamo che anche la Chiesa lo faccia. Padre Felix, un sacerdote che mi ha molto aiutato, mi disse: “La Chiesa dice o castità o niente. Io ti dico che la castità è un dono e non devi viverla per forza”. La Chiesa però deve accettarmi a tutto tondo, nella mia realtà affettiva, nella mia situazione, non solo a livello individuale».