Quale posto per le persone omosessuali nelle nostre comunità cristiane?
Articolo di Claude Besson (1) pubblicato sul mensile dei gesuiti francesi ETUDES (Francia) dell’Ottobre 2014, liberamente tradotto da Dino
L’accoglienza delle persone omosessuali è davvero una realtà oggi nelle nostre comunità cristiane? Sebbene in questi ultimi anni siano stati fatti dei passi avanti, la clandestinità che le persone omosessuali si autoimpongono per il timore di essere sottoposti a giudizi negativi è reale e dolorosa per loro stessi e le loro famiglie. L’omosessualità è una realtà che esiste nella storia di ogni società e di ogni cultura. E’ innegabile. Questo fatto, rimasto nascosto per secoli, oggi è divenuto pubblico nella nostra società. Da molti anni la Chiesa cattolica ha preso in considerazione questa realtà.
“Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta radicate tendenze omosessuali. Essi non scelgono la loro condizione omosessuale, che invece costituisce per la maggior parte di essi una difficile prova. Devono essere quindi accolti con rispetto, compassione e delicatezza “. (2)
Tuttavia, è possibile vivere contemporaneamente la propria omosessualità e la propria fede cristiana senza doversi nascondere?. Di recente un documento del Consiglio Famiglia e Società (francese) richiamava quest’accoglienza incondizionata: “Per le comunità cattoliche, l’accoglienza incondizionata di ogni persona è in primo piano. Ogni persona, indipendentemente dal suo percorso di vita, è prima di tutto un fratello o una sorella in Cristo, un figlio di Dio.
Questa discendenza divina trascende tutti i legami umani di famiglia. Ogni persona ha diritto ad un’accoglienza amabile, per ciò che è, senza che debba nascondere l’uno o l’altro aspetto della sua personalità”. (3)
Sappiamo che dei cristiani, cattolici ed omosessuali sono tra noi, nelle nostre famiglie, tra i nostri amici, nelle nostre comunità parrocchiali. La diversità delle situazioni è complessa. L’indagine di Martine Gross (4) rivela che i gay e le lesbiche cristiani, avendo interiorizzato le affermazioni della Chiesa istituzionale, spesso vivono con disonore e senso di colpa la scoperta della loro omosessualità.
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Frequenti testimonianze di sofferenza
Facendo parte da oltre dieci anni dell’associazione “Réflexion et Partage” (5), sono testimone della difficoltà per un buon numero di persone omosessuali di trovare il loro giusto posto nella Chiesa. Lo rivelano molte testimonianze e racconti di vita.
Quello di Thérèse è uno tra i tanti: “(…) Ci ho messo del tempo a capirmi veramente! A quasi 53 anni, nubile, comincio finalmente a riconoscermi omosessuale. (…) sono sprofondata in una lunga, lunghissima fase di indecisione fino a che la realtà mi ha recuperato in modo estremamente brusco.
E da quattro anni ho finalmente iniziato questo cammino verso me stessa, e anche verso gli altri, nelle lacrime e nella sofferenza, ma anche nella pace e nella gioia che talvolta nasce da incontri forti e autentici, sia con alcuni dei miei amici/che, che con altri/e che sono arrivati/e più avanti di me in questo difficile e scosceso cammino.
(…) Nella pastorale dei divorziati e dei divorziati-risposati ci sono stati dei progressi notevoli. Quando potremo vedere questi progressi anche nella pastorale dell’omosessualità? Quando si cesserà di aggiungere sofferenza a sofferenza?
(…) Oso, come Martin Luther King, fare un sogno: che nelle nostre chiese finalmente spalancate a tutta l’umanità degli uomini e delle donne di oggi, ciascuno/a sia accolto/a come Figlio e Figlia di Dio, con le sue ricchezze e le sue mancanze, nella Gioia e nella Fraternità… e che nessuno si debba mai più sentire un passeggero clandestino!” (Thèrèse)
E ancora la testimonianza di Aurélie: “Noi siamo inesistenti”: espressione di una responsabile delle manifestazioni di “La Manif pour tous” contro “Il Matrimonio per tutti” Sì, voi siete migliaia. Sì, voi non siete stati capiti. Scusate!
Ma noi (persone omosessuali) siamo dei milioni, da secoli, a non essere capiti, a essere inesistenti, invisibili, stigmatizzati, psichiatrizzati, esorcizzati, torturati, umiliati, nascosti, e in alcuni paesi ancora sepolti vivi!” (6)
E allo stesso modo, quando una coppia di uomini (Julien e Bruno) che vivono insieme da più di dieci anni, cerca di inserirsi in un gruppo di riflessione parrocchiale per le coppie (etero, certamente) avendo dieci anni di vita in comune, perché escluderli? Li si costringe ad emarginarsi e a creare essi stessi, al di fuori delle loro parrocchie, il loro proprio gruppo di riflessione insieme ad altre coppie omosessuali cattoliche?
Evidentemente le testimonianze non pretendono certo di dare un’immagine esaustiva di ciò che vivono i cristiani omosessuali, ma hanno il merito di respingere ogni approccio semplicista. Se la testimonianza non può sostituirsi al dibattito e non appartiene soltanto ad essa la verità, non si può spazzarla via con un gesto della mano, come talvolta si sente: “Sì, ma con te, non è la stessa cosa, noi ti conosciamo”.
La Chiesa oggi non può fare a meno di andare incontro alle persone omosessuali e proseguire il dialogo con loro e le loro famiglie: “(…) la testimonianza non può sostituirsi al dibattito e non compete solo ad essa la <verità>. E’ evidente. Ma questo dibattito e questa ricerca della verità non possono lesinare su questo tipo di parola. Soprattutto nella nostra società chiamata di comunicazione, nel tempo del regno dell’informazione, dell’immagine e dell’interattività…
… Accettando questa nuova realtà (sociale e anche politica) tramite un ritorno alla testimonianza, la Chiesa può beneficiare di una nuova opportunità per l’annuncio del Vangelo in questa società moderna o addirittura post-moderna. Per lei è l’occasione di dimostrare:
Che considera l’uomo di oggi come un interlocutore intelligente, di buonsenso, capace di riflettere, e che essa rispetta la sua libertà…
Che si fida di lui a priori (esiste un margine di differenza tra l’ingenuità e la paranoia, che condanna in modo preconcetto l’interlocutore), che ha fede in lui. In tutti gli incontri che ha fatto, Gesù non riduce mai l’altro alla sua complessità. Non lo rinchiude mai nella sua contingenza…
Che accetta che l’uomo di oggi voglia confrontare le idee alla realtà attraverso il filtro delle sue esperienze, che ha bisogno di capirlo e di avere il suo parere. (…)
Per lei (cioè per la Chiesa, ndr) sarebbe il modo di raggiungere l’uomo di buona volontà là dove egli si trova, di rivolgersi a lui e di riconoscerlo come facente parte di un mondo da inventare insieme.” (7)
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Significativi progressi pastorali
Anche se rimane ancora della strada da percorrere affinchè le persone omosessuali e le loro famiglie trovino il loro giusto posto nelle nostre comunità cristiane, in molte diocesi oggi avvengono dei progressi fondamentali.
L’obiettivo non è tanto quello di realizzare una pastorale distinta per favorire l’accoglienza delle persone omosessuali, che costituirebbe una forma di stigmatizzazione positiva, ma piuttosto quello di riconoscere e dare considerazione a ciò che è vissuto da ciascuno “affinché queste persone possano vivere una vita cristiana normale e impegnata ed avere il loro posto nella Chiesa come ogni persona battezzata” (8). La prima iniziativa da realizzare è quella di incentivare i luoghi di accoglienza e di ascolto, i gruppi di parola, rendendoli visibili tramite un dépliant che riporti il telefono, l’email, il nome di persone da contattare.
Da moltissimi anni alcune associazioni come David et Jonathan, Devenir Un En Christ hanno già fatto questa esperienza. Ma, questo tipo di iniziative deve prendere origine dalla responsabilità delle chiese diocesane, evidentemente con la collaborazione delle associazioni che le sostengono. In effetti, molte persone omosessuali e i loro parenti si sentono privi di risorse.
Essendo cattolici, spesso si rivolgono ai sacerdoti delle loro parrocchie o alla diocesi: “Quando siamo venuti a conoscenza dell’omosessualità di nostra figlia di 18 anni, ci siamo trovati disarmati: perchè lei era così? Il suo grandissimo disagio e la sua non-voglia di vivere ci hanno spinti a cercare di capire. Essendo cattolici, siamo andati da un prete per sapere se egli conoscesse un’associazione che potesse aiutarci.
Lui era impreparato proprio come noi. La nostra fede ci ha portati a domandarci come vivere questa situazione serenamente e nell’amore attento per nostra figlia e la nostra famiglia (abbiamo quattro figli, e questa è l’ultima). Abbiamo fatto un percorso in un’associazione, incontrando altri genitori ed altri omosessuali.
Abbiamo incontrato persone che ascoltano senza giudicare e che condividono i nostri dubbi e le nostre preoccupazioni. Ci siamo aperti ad un mondo che non conoscevamo. Dieci anni dopo, possiamo constatare di esserci arricchiti nel nostro cuore e nel nostro modo di vedere. Dio è amore. Soltanto Lui sa che cos’è l’omosessualità. In questo cammino che percorriamo, facciamo affidamento al Suo Spirito che ci accompagna (…)” (9)
Molte diocesi (St. Etienne, Lyon, Grenoble, Angouleme, Aix en Provence…) da un paio d’anni hanno organizzato dei gruppi di riflessione e/o dei gruppi di accoglienza, di ascolto, di discussione aperta. Così ad Angouleme: “Due anni fa, con l’appoggio e l’incoraggiamento di Mons. Dagens, abbiamo creato due gruppi di condivisione: uno per persone omosessuali, e l’altro per genitori di persone omosessuali. Abbiamo dato avvio a questi gruppi in collaborazione con l’associazione Devenir Un En Christ.
Ma c’era anche una convergente volontà di Padre Dagens e dei due gruppi per un collegamento diretto con la diocesi, attraverso la pastorale della famiglia.
In questo momento stiamo iniziando a diffondere un volantino: <Accoglienza e parola>, per far conoscere i due gruppi nelle parrocchie e anche sul sito della diocesi. D’altra parte volevamo andare più avanti nella riflessone sul posto nella Chiesa e nelle nostre comunità cristiane per le persone omosessuali.” (10)
In molte diocesi vicine sta mettendosi in marcia la stessa riflessione. Bisognerebbe dare evidenza anche ad altri gruppi di parola per genitori che sono collegati con l’associazione Réflexion et Partage. Ma questi gruppi non hanno ancora una vera legittimità diocesana. In una diocesi della periferia parigina, da 5 anni esiste un gruppo di discussione formato da genitori che hanno un figlio omosessuale.
“Siamo 5 famiglie. Questo piccolo gruppo è molto importante per scambiare, comunicare e sostenerci gli uni con gli altri. Circa un mese fa abbiamo preso contatto col parroco di St. Germain en Laye. E’ stato molto accogliente ed ha allegato un inserto nel bollettino parrocchiale.
Personalmente, mi sento sempre più rassicurato, e oggi non ho più paura di rispondere a persone che hanno una visione negativa. Un fatto recente: Una madre di famiglia, venuta a conoscenza che avevo un figlio omosessuale mi ha detto: <Pregherò per lei>. Io le ho risposto: <No, le sono grata, ma piuttosto sarò io a pregare per lei, perchè la sua visuale diventi più aperta>. Non posso più tacere: Credo che i nostri figli diano un valore aggiunto alle nostre famiglie.” (Marie-Pierre, madre di famiglia).
Guillaume e Elisabeth aggiungono: “E’ una formula eccezionale, che risponde bene alle attese dei genitori. Una formula da promuovere ovunque possa essere realizzata. Abbiamo avuto occasione di parlarne con un certo numero di amici e molti di essi ci hanno detto che anche loro erano coinvolti da questa realtà.
La condivisione della nostra esperienza ha avuto un’accoglienza positiva ed è stata illuminante per altre famiglie, ma spesso queste famiglie ci dicono che nessuno sa (dell’omosessualità di un componente) e che non si deve parlarne.”
Così in Ardèche: “Siamo un gruppo di genitori attivo da 9 anni e ci ritroviamo 2 volte l’anno con la presenza del vicario generale. Attualmente ne fanno parte 9 coppie. Dato che il vicario generale ci accompagna, il vescovo è a conoscenza delle nostre riunioni.
I temi affrontati l’anno scorso sono stati il matrimonio e l’omogenitorialità. Abbiamo scritto un articolo sui giornali parrocchiali, ma ha avuto una scarsa eco”.
A Parigi esiste un gruppo di persone omosessuali che vivono in coppia e si riuniscono regolarmente. Julien testimonia: “Abbiamo creato il nostro gruppo di coppie cattoliche (che si trovano anche ad essere coppie formate da persone dello stesso sesso). Questo gruppo di 6 coppie si riunisce all’incirca ogni 6 settimane per riflettere sulla questione della fecondità della coppia, in senso generale.
Esiste un aspetto spirituale e lo si condivide anche per mezzo di un testo di meditazione. Ogni tanto invitiamo una persona esterna al gruppo. Questo gruppo è stato per noi e per la nostra fede un’ancora di salvataggio indispensabile durante quest’ultimo anno, nel quale la Chiesa di Francia è stata scombussolata dalla questione del matrimonio per tutti.
Abbiamo condiviso dei momenti di rara fraternità. Ma vorremmo che tutto questo potesse essere vissuto a livello delle parrocchie. E ci piacerebbe fare questa riflessione insieme a coppie eterosessuali, essere dentro la Chiesa e non nascondere una parte essenziale del nostro essere.”
Devono essere visti positivamente anche i sei seminari tenutisi presso il collegio dei Bernardins a Parigi su “Fede cristiana e omosessualità”, con la presenza di rappresentanti di varie associazioni (David et Jonathan, Devenir Un En Christ, Communion Béthanie, Réflexion et Partage). L’ultimo seminario, sul tema di “fare coppia” ha consentito di incrociare le esperienze di coppie omosessuali ed eterosessuali nell’ascolto, nel dialogo, nella costruzione di un vivere insieme e di una fraternità destinati a portare i loro frutti.
Altre diocesi hanno preso delle iniziative per favorire il dialogo e l’incontro, come il “Cammino di Emmaus” (Nanterre, Orléans), pellegrinaggio di un giorno, aperto a tutti e in particolare alle persone direttamente o indirettamente coinvolte dall’omosessualità. Per avervi partecipato, posso assicurarvi che tutto questo fa cadere molti pregiudizi sull’omosessualità.
Molti dei pregiudizi sono infatti ancora legati a rappresentazioni mentali, spesso a causa della mancanza di conoscenza e di informazione sul vissuto delle persone, e anche a causa del rifiuto della diversità, che provoca turbamento. Credo che questa mancanza di conoscenza, questa ignoranza, porti la paura e la paura genera l’esclusione, il disprezzo, le confusioni, talvolta i conflitti, la ghettizzazione e infine il desiderio di sbarazzarsi dell’altro.
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L’alterità in questione
L’incontro dell’altro nella sua alterità è una questione fondamentale. Quanti discorsi abbiamo sentito sulla bocca di certi ambienti cattolici per stigmatizzare le persone omosessuali: “Gli omosessuali rifiutano la diversità”; quest’affermazione, nelle parole di certi intellettuali diventa “L’omosessualità è la negazione dell’alterità”.
Se le differenze, che siano sessuali, generazionali o culturali preesistono senza che noi siamo in grado di gestirle, esse non garantiscono che si realizzi l’accoglienza dell’altro. Il saper riconoscere l’alterità nasce da un apprendimento che non è mai finito, e permette a ciascuno di essere, nella relazione con l’altro, ciò che è, di condurre la propria vita, di non sentirsi mai fagocitato dall’altro, chiunque esso sia (congiunto, amico, genitore, insegnante, collega…).
Questo lavoro etico è lo stesso per tutti: “Ogni coppia è invitata a chiedersi in che misura la sua relazione d’amore genera confusione o crea unità, all’interno o all’esterno della coppia. Ci sono coppie eterosessuali che non rispettano affatto questo rapporto dell’alterità, come quelle costruite su eccessive rassomiglianze tra il coniuge e il padre o la madre, o anche quelle in cui i genitori considerano degli oggetti i loro figli…” (11)
La somiglianza genitale non toglie niente alla “estraneità” dell’altro. Cioè non è possibile ridurre l’altro a ciò che conosco di me stesso, dei miei desideri, dei miei comportamenti. Le persone omosessuali insistono sul fatto che la loro ricerca sessuale non deriva soltanto, come molti credono, da una ricerca di piacere erotico. Solitamente le persone sperano di trovare un/a amico/a col quale potranno vivere esperienze di tenerezza, fedeltà, aiuto reciproco, condivisione di preoccupazioni e interessi diversi… e piacere sessuale.
Cercano in questo modo di tener uniti “il desiderio e la tenerezza” facendo l’esperienza che amare “non è una cosa ovvia”.
“Gli psicanalisti meno seri hanno erroneamente interpretato l’attaccamento amoroso e sessuale di un individuo verso una persona dello stesso sesso come un attaccamento narcisistico. Come se due persone dello stesso sesso fossero la stessa persona! Come se solamente la differenza sessuale designasse l’alterità tra gli esseri! Come se, allo stesso modo, tra uomini e donne ci fossero più differenze che somiglianze.
L’alterità esiste tra due gemelli, e a maggior ragione esiste tra due uomini o due donne usciti da famiglie differenti. L’alterità è uno dei determinanti del desiderio sessuale. Per desiderarci reciprocamente, abbiamo bisogno di molto di simile (ciò che abbiamo in comune come esseri umani) e di un poco di non simile, come conferma la neurobiologia.
Questo “non simile” può essere la differenza dei sessi, ma non sempre e non solamente. Negli umani, l’alterità fonte di desiderio sessuale può trovarsi nella differenza fisica, nella differanza culturale e sociale o nella differenza di personalità.” (12)
Infine, affermare che la coppia omosessuale neghi l’alterità significa tornare a ricondurre il concetto di “stesso” all’aspetto sessuale e quest’ultimo al sesso. Quindi, non è che perchè due esseri sono simili da un punto di vista biologico che essi sono “lo stesso”: due uomini, due donne hanno personalità diverse e uniche che ne fanno degli esseri singolari.
Le ricerche nel campo della neurobiologia confermano che le differenze tra gli individui di uno stesso sesso sono talmente importanti che superano le differenze tra i due sessi. Questa variabilità si spiega con la plasticità del cervello. Alla nascita, dei nostri 100 miliardi di neuroni, soltanto il 10% sono connessi tra loro.
Il 90% delle restanti connessioni si realizzeranno progressivamente in conseguenza delle influenze della famiglia, dell’educazione, della cultura, della società, afferma Catherine Vidal, neurobiologa. (13)
E’ nella capacità di amare che vengono messi alla prova, per gli omosessuali come per gli eterosessuali, l’accettazione o il rifiuto dell’alterità, non nel valore differenziale e impersonale di un oggetto di pulsione. La relazione omosessuale, al di là della somiglianza dei sessi, può aprire alla differenza e all’alterità dato che è l’incontro di due persone, ognuna delle quali è unica. (14)
Le coppie omosessuali hanno un desiderio di vivere insieme duraturo e favorevole. Tutto ciò che favorisce degli impegni più duraturi dev’essere approvato pienamente. Una persona omosessuale che vive con un partner potrà essere fonte di fecondità sociale per l’ambiente circostante.
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Fecondità
Nel linguaggio corrente abbiamo limitato il senso del termine “fecondità” al concetto di “dare la vita” o “procreare”. Questo significa ridurre l’essere umano al suo livello animale. Antropologicamente, la fecondità ricopre un significato più ampio: la capacità di dare una vita umana.
Noi non facciamo che riprodurci, noi produciamo noi stessi reciprocamente, noi produciamo del nuovo. Si tratta di mettere al mondo una persona fino a che questa persona nasca a se stessa. E questo va molto più in là della sola procreazione biologica.
Donare la vita umana è ciò che la teologa Marie-Christine Bernard, specializzata in epistemologia delle scienze umane, chiama la “genitorialità spirituale”. E’ la responsabilità che spetta a tutti noi di far nascere qualcuno a lui stesso, di generare qualcuno alla propria vocazione, di far sì che egli possa entrare nella sua propria vita: “Mettere al mondo in quel senso più ampio che abbiamo appena descritto, dunque non solo in senso fisico, si presenta come il cammino per eccellenza che la benedizione di Dio, destinata a tutti, può compiere. La benedizione di Dio è allo stesso tempo la promessa che Egli fa, il suo più caro auspicio di una vita buona, ricca di significato e di frutti e la sua realizzazione attraverso il nostro libero consenso. La persona umana nasce a se stessa quando capisce che questa promessa è destinata personalmente a lei, e ne segue la via.” (15)
Allora perché rifiutare le coppie omosessuali appellandosi alla loro non fecondità? Anch’esse sono feconde o creative, ma in modo diverso. Gesù ha stravolto l’ordine biologico della fecondità: l’uomo non è fecondo perchè genera, è fecondo perchè si riconosce come appartenente al Cristo.
Il passaggio del Vangelo secondo Giovanni (15,1-4.12.16) indica che la fecondità risiede nel compimento del comandamento d’amore di Gesù, cioè di entrare nella comunione d’amore di Gesù e del Padre, di lasciarsi avvicinare da Dio, entrare in intimità con Lui, diventare suo amico. Questo amore arriva addirittura a disappropriarsi di se stessi. Gesù ha spinto questo spossessarsi di sè fino a morire sulla Croce, ed è proprio la Croce che garantisce “all’estremo” la sua fecondità: “Se il chicco di frumento che cade per terra non muore, rimane solo; invece se muore produce frutto in abbondanza”.
Dunque, entrare nella fecondità non è più vivere per se stessi, ma è vivere per qualcun altro. Secondo Cristo la fecondità è il dono di sè, è una morte a se stessi e una resurrezione. Essa oltrepassa infinitamente i nostri limiti umani. Si realizza non secondo una volontà umana, ma in una libera consacrazione delle nostre azioni a Dio, è un dono di Dio.
Così ne dà testimonianza Yvon, omosessuale e cristiano impegnato da oltre 40 anni nella sua parrocchia: “Dopo questi 40 anni di lotte, nei quali ci sono stati momenti di gioia e di disperazione – e anche fallimenti – mi meraviglio di voler ancora far parte di questa Chiesa che così spesso mi ha maltrattato.
Tuttavia, se i cristiani (e non soltanto i loro pastori) sapessero ciò che la Chiesa deve a questi omosessuali (uomini e donne) che operano dentro di essa, nel segreto della loro identità, se i cristiani riconoscessero tutti i tesori di pazienza, di devozione e di attenzione ai più “poveri” di cui gli omosessuali ogni giorno danno prova (aiuti ai malati di AIDS e agli anziani, lavoro nell’ambito della sanità o dell’educazione, ecc.), i cristiani non sarebbero così svelti a condannare migliaia di loro fratelli e sorelle o ad accettarli soltanto a parole.”
La vera fecondità cristiana non è legata in primo luogo al fatto di avere figli, ma alla realizzazione del Regno nelle nostre vite.
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(1) Autore di Homosexuels catholiques, sortir de l’impasse, Les éditions de l’Atelier, 2012
(2) Catechismo della Chiesa cattolica, n° 2358
(3) Poursuivons le dialogue, Consiglio Famiglia e Società della Conferenza dei Vescovi di Francia, maggio 2013, p.5
(4) Martine Gross, Être chrétien et homosexuel en France, Société Contemporaine, n°71, Paris, Presses de Sciences Po, marzo 2008
(5) Associazione il cui obiettivo è di portare un contributo alla riflessione delle comunità cristiane nello sforzo di apertura che ciascuno potrebbe fare per meglio accogliere nella verità le persone omosessuali.
(6) http://www.reflexion-partage.org/ma-tentation-detre-a-nouveau-invisible/
(7) Daniel Duigou – prete, giornalista, psicanalista in La Croix del 15 novembre 2005
(8) Père Denis Trinez in La Croix, 19 marzo 2014, pagina 17
(9) Claude Besson, Homosexuels Catholiques, sortir de l’impasse, Éditions de l’Atelier, novembre 2012, p.126
(10) Père Denis Trinez, ibid
(11) Suor Véronique Margron in Les Chrétiens et l’homosexualité, L’enquête, Les Presses de le la Renaissance, 2009, p.170.
(12) Stéphane Clerget, Comment devient-on homo ou hétéro ?, Paris, Jean-Claude Lattès, 2006., p.269.
(13) Les neurones du genre, http://www.liberation.fr/sciences/01012358301-les-neurones-du-genre consultato il 12 marzo 2012
(14) *Claude Besson, Homosexuels catholiques sortir de l’impasse, Éditions de l’Atelier, novembre 2012, p. 44 e ss
(15) Marie-Christine Bernard, Être parent une aventure humaine et spirituelle, Paris, Presses de la Renaissance, 2011, p. 262.
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Testo originale: Quelle place pour les personnes homosexuelles dans nos communautés chrétiennes?