Quale visibilità per i credenti omosessuali?
Tra le tante realtà che di questi tempi sono diventate più visibili c‟è sicuramente anche il mondo omosessuale. È una visibilità che assume forme e colori molto diversi. C‟è quella, chiassosa, del gay pride, e quella, più discreta, dei gruppi di credenti omosessuali.
All‟inizio dell‟era moderna fu il Cogito, ergo sum, “penso, dunque esisto”, di cartesiana memoria. E l‟illuminismo, che contrassegna quell‟epoca, fu chiamato l‟età della ragione. Poi, con la rivoluzione sessantottina arrivo un nuovo slogan: Coito, ergo sum. Non è un errore di stampa e non c‟è neanche bisogno di traduzione.
Da qualche anno a questa parte, con una rivoluzione meno rumorosa ma non meno devastante è arrivato il Videor, ergo sum, che vuol dire “appaio, dunque sono”. La formula latina è anche più chiara, perché risulta quanto mai evidente che a creare questa nuova consapevolezza della propria identità è, appunto, il video, la TV.
È già stato scritto moltissimo sull‟argomento, e del resto è sotto gli occhi di tutti quanto diffusa sia la bramosia di essere visti, tanto che anche nelle più solenni liturgie di piazza San Pietro appena qualcuno si accorge di essere inquadrato dalle telecamere comincia ad agitare il braccio e ad attirare in mille modi l‟attenzione, di quelli di casa, si spera (a tutti gli altri, infatti, che importa?), che potranno dire tutti eccitati: l‟ho visto/a!, ma non è detto ci si fermi lì.
Sono intervenuti, e intervengono, analisti, sociologi e psicologi, e hanno stabilito che questo bisogno di visibilità è direttamente proporzionale al diffuso senso di anonimato che pervade le moderne società globali e urbanizzate. Sarà. Certo, nel mondo del villaggio rurale e della città medievale il problema di come essere visibili non si poneva: se mai c‟era quello di nascondersi e sparire.
Sarebbe troppo facile fare dell’ironia, ma questo non è l‟intento della nostra riflessione. Che è invece partita da una richiesta, assunta poi come tema dell‟incontro-ritiro di Torrazzetta: la visibilità, appunto, tema che, problematizzato, diventa immediatamente una domanda: quale visibilità?
La letteratura ci ha messo del suo, offrendo sempre più personaggi che potremmo definire normali, in saggio equilibrio tra il riso e la tragedia, questo anche grazie allo scritto che, a differenza del mezzo televisivo-cinematografico, soffre meno la pressione e la velocità delle immagini, e permette dunque un‟articolazione maggiore dei problemi e delle situazioni, con l‟effetto di trasmettere una visione sicuramente più vicina alla realtà.
In questo panorama i gruppi credenti, nati a partire dall‟inizio degli anni ottanta, sono potuti essere analizzati secondo un parametro che ha proprio nella maggiore o minore visibilità il suo centro.
Ne scrivevo già nel 1990 (Famiglia Oggi n. 47, pp. 45-53), argomento ripreso dieci anni dopo nel volume a cura di J. Gafo, Omosessualità, un dibattito aperto (Assisi 2000, pp. 313-329). Allora parlavo di gruppi ‘introversi’, primariamente centrati sulla formazione delle persone, e gruppi „estroversi‟, più preoccupati di far cambiare l‟atteggiamento della Chiesa e della società.
Devo dire che questo aspetto è stato, ed è ancora, un punto di polemica tra i gruppi stessi, con quelli più visibili che accusano gli altri gruppi di essere catacombali. In realtà conviene ricordare che per i gruppi come La Fonte e altri consimili non si tratta di scegliere il nascondimento e la clandestinità.
Se c‟è una differenza questa è che non facciamo della visibilità una preoccupazione primaria, come se la funzione del gruppo fosse anzitutto quella di far cambiare la testa alla gente. Questo è sicuramente una delle cose alle quali teniamo, perché i gruppi sono sorti esattamente come risposta a una sensazione di disagio, per non dire altro, che portava l’omosessuale credente a non sentirsi propriamente a casa nella sua Chiesa.
La prima cosa alla quale teniamo, però, resta il cammino di formazione personale e la crescita nella qualità delle relazioni anzitutto all’interno del gruppo, e poi nel mondo che ciascuno di noi frequenta. La domanda è: abbiamo bisogno che gli altri ci “vedano”?
Sì e no. Che è come dire che la visibilità, come molte altre cose, non è necessariamente una cosa buona o cattiva in sé. Dipende. Vale del gruppo quello che vale della persona. C‟è una visibilità indispensabile fin dal principio per costruirvi sopra il senso della propria identità. Si pensi a quanto il bambino, inconsciamente, ricava in termini di sensazione di esistere, e di contare, dai ripetuti sguardi che la mamma gli rivolge.
C‟è una visibilità che vuole imporsi, e ce n‟è una che consiste semplicemente nel non nascondersi. C‟è una visibilità che funziona entro rapporti amicali, familiari, magari anche di lavoro, e ce n‟è una che vorrebbe l‟approvazione della società o del mondo intero.
La prima è necessaria, salutare, e oggi sembra sia più facile raggiungerla di quanto non fosse tempo fa. La seconda appartiene a fenomeni largamente ingovernabili, di lunga durata, senza la quale si può vivere benissimo senza drammi. Oltretutto è solo pleonastico ricordare che se per caso qualcuno sognasse una visibilità/approvazione univoca e universale è meglio che si prenoti per un viaggio sulla Luna.