“Quando fissi il buio ci vedi sempre qualcosa”. Il mio cammino “Dal buio alla luce”
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Testimonianza di Paolo Spina sul ritiro su “Dal buio alla luce: percorso online per giovani LGBT e la loro comunità” (30 Aprile-3 Maggio 2020)
“Quando fissi il buio ci vedi sempre qualcosa, bro“: da inguaribile adolescente continuo a canticchiare l’ultima di Marracash, Neon. In doccia, mentre cucino, in pausa caffè, in laboratorio. Poi, né un faro allo xeno, né un lampo sulla via di Damasco, ma arriva l’intuizione che non facciamo altro che passare dal buio alla luce.
Abbiamo provato a farlo al ritiro, dalla sera del 30 aprile alla Messa di domenica 3 maggio – io con tanta titubanza di fronte alla modalità web: alle porte seriale e parallela del computer ho sempre preferito varcare la soglia di casa! – raccogliendo quanto più possibile dalle meditazioni sulla Scrittura alle condivisioni di una famiglia (di tante famiglie), da un cardinale che risponde alle nostre domande all’ascoltarci facendo parlare le nostre esperienze e i nostri progetti. Era bello per noi stare lì: l’esperienza del Tabor, del sentirsi a casa. Avvolti di luce. Ma non basta, no.
Racconto delle giornate di ritiro a un amico; lo faccio con lo stile che mi è proprio, come un fiume in piena, moltiplicando le parole per descrivere a chi non c’era la portata di quanto abbiamo vissuto, e poi scusandomi per averlo travolto con tante, forse troppe informazioni. Lui, con calma e naturalezza, mi risponde: “Dobbiamo fare la cosa più difficile del mondo, cioè essere noi stessi, dire: Sì, io sono cristiano, sono omosessuale e questo è il mio ragazzo. Ed è la cosa più deflagrante: la semplicità dell’amore“.
Subito mi ha colpito come all’interno della stessa situazione ci potessero essere gli aggettivi difficile e facile; poi mi sono reso conto di quanto sia vero: è difficile essere se stessi ma, quando si comincia, come tutto scorre più facilmente! E’ più facile ostentare, rivendicando con cieca arroganza, per imporre la propria visione del mondo, mentre è più difficile proporre la testimonianza della propria vita.
Proporla come la luce del sole: è semplicemente lì, senza che nessuno possa enfatizzarla, o frenarla. E lì continua a rimanere, sempre per usare gli aggettivi del mio amico, “deflagrante“, perché si sparge dappertutto, come ogni lieto annuncio narrato dal Vangelo: la samaritana, il cieco che inizia a vedere, il lebbroso guarito non possono far altro che cercare nel cuore le parole più belle per dire che la loro vita, la nostra vita, è un luogo di prodigi.
In tanti abbiamo sottolineato questo: la centralità della testimonianza. Testimonianza che, in greco, suona “martyria“: non è propaganda, non è esibizione, non è contrapposizione; è il rendersi visibile di qualcosa che illumina, perché incandescente. E, al tempo stesso, è una parola che evoca altre tinte, non sempre felici.
Probabilmente la nostra martyria – ce lo auguriamo – non ci chiederà di confessare l’amore che proviamo rimettendoci il sangue e, con esso, la vita; è certo, però, che ci domanda di metterci tutta la vita: non questo sì e quello no, non fino qui sì e oltre no, non con loro sì, con gli altri no. Facile? No. Felice? Sì.
“La tenebra è solo una grande domanda di luce” scriveva Alda Merini. Noi non siamo “venuti alla luce” in quei tre giorni di strana convivialità a distanza, tutti insieme eppure ciascuno impalpabile, al di là dello schermo; non siamo, ora, degli “illuminati“.
Abbiamo imparato, però, che ingiustizie, discriminazioni e pregiudizi nascono e crescono al buio: hanno paura della luce della verità e della trasparenza. Ora siamo sempre più convinti che, dove si coglie il buio della diffidenza, è bello portare la luce di chi accoglie.
Pro veritate adversa diligere et prospera formidando declinare