Quando i gay erano marchiati dai nazisti con una A maiuscola
Articolo di Peter Tatchell* (Gran Bretagna) del 30 ottobre 1997, liberamente tradotto da Angela Di G.
“Voglio uomini al comando delle SA, non ridicole scimmie”. Con queste parole Adolf Hitler ordinò l’eliminazione di tutti gli omosessuali dalle organizzazioni naziste il primo luglio 1934. Quello che seguì fu la rapida escalation dell’arresto, tortura, imprigionamento e assassinio dei gay. Il film We Were Marked with a Big A (‘Eravamo marchiati con una A maiuscola’, 1991) racconta la storia dell’olocausto gay attraverso le esperienze di tre gay sopravvissuti, Kurt von Ruffin, Paul Gerhard Vogel e Friedrich-Paul von Groszheim.
È stato proiettato per la prima volta in Gran Bretagna domenica 2 novembre, durante il Giorno della Memoria Gay. Dopo la cerimonia commemorativa e la deposizione di una corona al The Cenotaph, l’associazione gay Outrage! diede il via alla prima del film al Freedom Bar. Come si può apprendere dal film, prima del triangolo rosa c’era la “A” maiuscola. Imbarazzato dalla volgarità del significato, Kurt von Ruffin confida a telecamera spenta che la “A” stava per arschficker (fotte-in-culo).
Era questo il marchio che gli uomini gay erano costretti a indossare prima che fosse introdotto il più elaborato sistema dei triangoli. Von Ruffin era un famoso attore e star della lirica berlinese degli anni ’30. Il suo nome venne fatto da un altro gay torturato dai Nazisti. Condotto nel quartier generale della Gestapo, ricorda di aver sentito rumore di spari nel cortile esterno e di aver temuto di morire anche lui sparato da un plotone d’esecuzione.
Von Ruffin è stato “fortunato”. Venne infatti trasferito nel campo di Lichtenburg. Centinaia di gay erano stati imprigionati lì. Von Ruffin ricorda che le guardie SS toccavano i prigionieri e poi picchiavano quelli che si erano eccitati sessualmente. Ricorda anche che sei prigionieri tentarono la fuga, ma vennero ripresi e ammazzati di botte: “(Furono) legati a dei tavoli. Eravamo obbligati a guardare… Imparavi a spegnere le emozioni… altrimenti non sopravvivevi”, dice von Ruffin.
Dopo nove mesi a Lichtenburg, von Ruffin fu rilasciato grazie all’intervento dell’eminente direttore del teatro, Heinz Hilpert. Poi, con grande rischio per se stessi, i suoi avvocati disposero la distruzione del file della Gestapo che lo riguardava.
Rimanendo nell’ombra durante il restante periodo di guerra, von Ruffin non finì più nel mirino delle SS. La sua carriera in teatro era stata rovinata per sempre, ma almeno era sopravvissuto per raccontare la sua storia. Altri pagarono un prezzo ancora più alto per la sopravvivenza. Friedrich-Paul von Groszheim faceva parte dei circa 230 gay arrestati durante le incursioni notturne a Lubecca nel 1937.
Fu tirato giù dal letto e prelevato, perché “sospettato” di essere gay. Sotto il regime nazista, non c’era bisogno di prove. Pettegolezzi e dicerie erano sufficienti e la Gestapo era la legge stessa.
“Ci massacrarono”, racconta. “Non riuscivo neanche a stare steso… (avevo) la schiena completamente insanguinata”. Era insopportabile. “Ci picchiavano finché non gli facevamo i nomi”, dice von Groszheim. Nonostante fosse pieno inverno, fu rinchiuso in una cella senza giacca e con pochissimo cibo. Non c’era il bagno, perciò doveva urinare e defecare in un angolo della cella. A von Groszheim venne offerta l’ “alternativa” di subire la castrazione o essere mandato nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Lui “scelse” la castrazione. Per quanto possa sembrare orribile, questa decisione probabilmente gli salvò la vita.
Dopo aver scontato cinque anni di prigione per aver rifiutato di fare il portabandiera per il regime di Hitler, Paul Gerhard Vogel venne nuovamente arrestato con l’accusa di omosessualità. Condannato a sette anni di prigionia nel campo penale di Emsland, era costretto a lavorare fino a 15 ore al giorno, sette giorni su sette. “Per sei mesi, fui costretto a rimanere piegato in due”, dice “avevo le mani legate alla caviglie”. Impossibilitato ad andare in bagno, si faceva i bisogni addosso, nei pantaloni. A volte doveva leccare il cibo dal pavimento sudicio ricoperto di urina e escrementi.
Vogel racconta che molte guardie del campo erano sadici depravati. Uno di loro era solito prelevare prigionieri giovani e violentarli come “uno stallone”. Sebbene Vogel non sia stato abusato, fu comunque vittima di continui atti di violenza da parte di altri prigionieri omofobici.
Qualche tempo dopo, quando la guerra si intensificò, Vogel fu portato via da Emsland. Insieme a migliaia di altri prigionieri, fu imbarcato per la Norvegia occupata dai Nazisti, come lavoratore schiavo. Molti morirono durante il viaggio. In Norvegia, Vogel fu messo a spalare la neve dalle strade nell’estremo nord. A dispetto delle temperature sottozero, era obbligato a lavorare scalzo nella neve.
Anche se non serviva a molto, si metteva giornali sotto i vestiti per cercare di isolarsi dal freddo: sopravvisse a malapena in quelle condizioni estreme. La sofferenza di Vogel non è ancora finita. Il governo tedesco gli negò il risarcimento, in base ad una decisione presa nel 1957 da un tribunale che sentenziò che i prigionieri gay erano “comuni criminali” legittimamente arrestati.
Questo si ripercuote, tra l’altro, sulla sua pensione. Mentre il lavoro svolto dagli aguzzini di Vogel per le SS risulta ai fini pensionistici, invece gli anni che lui trascorse nei campi non gli sono stati in alcun modo riconosciuti.
.
* Peter Gary Tatchell è un attivista australiano naturalizzato britannico, conosciuto per il suo lavoro in favore del Movimento di liberazione omosessuale. Scrive regolarmente per il ‘The Guardian’ nella sua rubrica online Comment is Free
.
Testo originale: The mark of the arse-fucker