Quanti preti gay ci sono nella chiesa cattolica?
Articolo di Josselin Tricou* pubblicato sulla rivista Sociologie (Francia), 2018/2 (Vol. 9), pp. 131-150, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro, parte ottava
Come ha fatto James G. Wolf per gli Stati Uniti, Julien Potel ha cercato di fare una stima della percentuale di sacerdoti omosessuali in Francia, per quanto riguarda ciò che chiamerò, per comodità, una vocazione “nascondiglio”. È significativo il fatto che Potel, che oltre ad essere un sociologo è un sacerdote, non abbia mai pubblicato i risultati della sua ricerca.
Data l’impossibilità di una ricerca aperta e sistematica, Wolf e Potel hanno fatto ricorso a un metodo indiretto: chiedere ai sacerdoti gay da loro intervistati una stima sulla percentuale di loro confratelli gay. Ambedue gli autori li stimano a una percentuale tra il 30% e il 70%. Per esempio, un campione di un centinaio di preti intervistati da Wolf stima tale percentuale negli Stati Uniti attorno al 48%, e attorno al 55% per quanto riguarda i seminaristi.
Anche se Wolf stesso riconosce che, così come si presentano, tali dati non sono affidabili, un confronto tra generazioni (riguardo all’età dei sacerdoti intervistati) mostra un incremento significativo di percentuale tra i sacerdoti più giovani. Forse effetto di una maggiore consapevolezza tra le generazioni più giovani di sacerdoti gay? O è dovuto a una maggiore visibilità, o forse davvero oggi ci sono più sacerdoti gay? Ad ogni modo alcuni, come padre Donald Cozzens (vicario episcopale statunitense laureato in psicologia), non esitano a diagnosticare una vera e propria “crisi dell’orientamento [sessuale]” nel clero cattolico odierno.
In Francia, il collasso del tradizionale reclutamento dei sacerdoti nelle campagne, che si compieva nei seminari minori (gli istituti che, prima dell’introduzione delle scuole secondarie nel 1963, erano fondamentali nella scolarizzazione di ragazzi in genere provenienti da famiglie rurali povere, con lo scopo di stimolare la vocazione sacerdotale), seguito dall’abbandono di un grande numero di sacerdoti eterosessuali poi sposatisi, durante la “crisi cattolica” degli anni ‘70, è indubbiamente all’origine di una carenza di vocazioni “di qualità”, e di un grande numero di vocazioni “nascondiglio”.
Se consideriamo anche il calo del reclutamento tra la vecchia borghesia conservatrice (i cui figli hanno scarse alternative se ammettono con se stessi di essere gay), diventa chiaro che tale concentrazione ha incrementato il numero di vocazioni “nascondiglio”.
Un intervistato commenta: “Parlando in generale, c’è stato un cambiamento dagli anni ‘70, quando il clero era in larga parte eterosessuale e di sinistra, agli anni 2000, quando sono emersi molti preti omosessuali e di destra. Infatti, più la Chiesa ha sviluppato la sua retorica omofoba, più ha attratto omosessuali che negavano di esserlo, almeno all’inizio della loro carriera” (padre Arthur, prete operaio, 67 anni).
Ma ora, con l’emersione della mascolinità gay nelle società laiche contemporanee (affermazione socioculturale e riconoscimento del matrimonio omosessuale), che ne sarà del reclutamento dei sacerdoti? I membri più perspicaci del clero non possono che intravedere una doppia minaccia.
A breve termine, i seminari rischiano di trasformarsi in luoghi dove l’omosessualità è fin troppo visibile, e di seguire l’esempio dei cosiddetti monasteri americani “gay-friendly”, ambienti fortemente omoerotici accusati di escludere i candidati eterosessuali.
A lungo termine, invece, la minaccia è lo svuotamento di seminari già in gran parte deserti, e la cessazione del ruolo della Chiesa come un nascondiglio sicuro, un nascondiglio così ben descritto da monsignor Charamsa all’inizio della prima parte di questa serie.
Di qui la necessità attuale (secondo il titolo di un laboratorio dell’annuale convegno sulle vocazioni della Conferenza Episcopale Francese, tenutosi a Parigi il 23 gennaio 2014) di “ri-giustificare e ri-valutare il celibato consacrato nella società contemporanea”, ma anche, e forse soprattutto, la necessità di riattivare (in un’epoca che vede indebolirsi la sua presa) la pressione esercitata sui sacerdoti perché non esibiscano la loro (omo)sessualità, o perlomeno perché siano discreti.
Questa politica del “non dire”, del non esibire, va compresa non tanto come effetto della repressione istituzionale dei preti sessualmente deviati (che infatti raramente viene effettuata, nonostante ci siano i mezzi legali per farlo), quanto come la capacità di zittire [i sacerdoti omosessuali, o comunque sessualmente attivi] attraverso l’autocensura, per preservare la linea tenuta dalla Chiesa e il consenso tra il laicato, di cui sono responsabili.
La Chiesa riconosce (vedi il concetto di perdono, in generale e nel sacramento della Confessione) che le sue norme sono costituite, in parte, di ideali che non potranno mai essere vissuti appieno, anche (e forse in particolar modo) dai suoi sacerdoti. Nella Chiesa la devianza più seria non è la trasgressione di tali norme (“il cattolicesimo è tipicamente flessibile” nei riguardi degli atti compiuti, come sostiene Céline Béraud), bensì la messa in discussione pubblica della loro legittimità.
Ad ogni modo, la necessità di non causare uno scandalo tra il laicato è ben interiorizzata dai sacerdoti, gay ed etero, ed è uno dei fattori che li spingono a rimanere nell’istituzione, magari a costo di vivere una doppia vita. Dato l’eccessivo costo di una defezione visibile e irreversibile, viene spesso scelta la soluzione della doppia vita, malgrado le sofferenze che causa.
“Non potevo abbandonare la Chiesa. C’era il mio compagno, e alcuni colleghi lo sapevano, anche se comunque non avevo mai cercato di metterlo in mostra, né di chiedere per lui una posizione ufficiale, perché era fuori discussione che potessi danneggiare la Chiesa con questa storia. Oggi però la penso in maniera un po’ diversa.” (Padre Michel, parroco, 63 anni)
“Ascoltami, bisognava essere discreti, anche se non era facile. Non si poteva ostentare la propria sessualità in pubblico, perché non si trattava solo della tua sessualità, e anche perché quando un prete parla, lo fa non solo a nome di se stesso, ma della Chiesa, un’istituzione che si è già abbastanza indebolita. E poi c’è il popolo di Dio, i parrocchiani, cosa direbbero? Non capirebbero, e anche se capissero, mi sa che scioccarli non serverebbe a nulla di buono, anzi, il contrario.” (Padre Arthur, prete operaio, 67 anni)
Testo originale: Recreating “moles”: Managing homosexual priests’ silence in an era of gay marriage