Quei bimbi che si sentono trans e le terapie che in Italia non ci sono
Articolo di Candida Morvillo pubblicato sul sito del Corriere della Sera il 2 agosto 2016
Quando ascolti la storia di un transgender, di solito hai di fronte una persona che sentiva di appartenere al sesso opposto fin da bambino. Non come Eddie Redmayne quando fa Lili Elbe in The Danish Girl e se ne accorge indossando i vestiti della moglie. Quello è un film e, seppure ispirato a una storia vera, è una vicenda del secolo scorso. Oggi, che tanti transgender sono fra noi, oggi dopo miriadi di studi scientifici, sappiamo che la sensazione di appartenere all’altro sesso si manifesta presto. Oggi non possiamo non chiederci dove sono, fra i bambini di adesso, i trans di domani. Viene da chiederselo, nell’occasione, perché – notizia di due settimane fa – il Tribunale di Roma ha autorizzato un sedicenne a cambiare sesso e cambiare nome all’anagrafe. Primo caso in Italia per un minorenne. Non nel resto del mondo. In America, nel Regno Unito, nei Paesi Bassi e Scandinavi, è pieno di associazioni di genitori di bambini con disforia di genere (non più disturbo di genere). In Colorado, una sentenza del 2013 ha stabilito che Coy Mathis, un bambino di sei anni, aveva il diritto di usare il bagno delle femmine a scuola. A Brooklyn Center la Minnesota State High School League permette ai ragazzi in transizione di giocare nelle squadre sportive del sesso a cui si sentono di appartenere. La storia di Ryland Whittington, nata femmina a San Diego, ma che vive da ragazzo fin da piccolo, ha fatto quasi otto milioni di visualizzazioni su YouTube (The Whittington family, 2014).
«Assecondare il loro sentimento»
Insomma, non è una stravaganza hollywoodiana che Shiloh Pitt, la figlia di Brad e Angelina, a otto anni abbia preteso di vestirsi da maschietto e farsi chiamare John, anche se non è detto che abbia una disforia di genere solo perché ama mettere lo smoking. Però Shiloh-John incarna l’esempio perfetto delle ultime tendenze scientifiche: «Assecondare il sentimento dei bambini che sentono di appartenere al sesso opposto è sempre più diffuso ed è quello che, dopo accurate analisi psicologiche e mediche, consigliano la maggior parte dei medici», spiega al Corriere Kristina R. Olson, professore associato di Psicologia all’Università di Washington.
Gli ospedali italiani si attrezzano
Per la disforia di genere minorile, esistono linee guida internazionali, che in Italia non sono ancora state recepite. «Ci sono però i centri ospedalieri che se ne occupano. L’unità di Medicina della Sessualità e Andrologia dell’ospedale universitario Careggi di Firenze diretto dal professor Mario Maggi è uno di questi», spiega al Corriere l’endocrinologa Alessandra Fisher. «Attualmente, abbiamo in cura una quindicina di minori, con diagnosi o in attesa di diagnosi, fra i 12 e i 18 anni, ma abbiamo avuto bambini di sei o otto anni». Il Careggi aveva un servizio per adulti, ma da un po’ arrivavano anche adolescenti e genitori di bambini, tanto che, tre anni fa, è stata creata un’apposita sezione. Altre sono attive a Torino, Roma, Napoli, Milano, Trieste.
Quanti sono, come si riconoscono
Quanti siano i bambini, nel mondo, con disforia di genere è difficile a dirsi. A Seattle la dottoressa Kristina R. Olson sta lavorando «al più largo studio di sempre su bambini che si identificano come transgender e vivono secondo il genere che sentono e non secondo quello dell’anagrafe». Spiega Olson: «Seguiamo 200 minori in “transizione sociale”, cioè che usano nomi del sesso opposto, cambiano aspetto vestendosi e pettinandosi da maschietti se sono femmine e viceversa. Tutti hanno realizzato questi cambiamenti prima dell’età puberale, fra i tre e i 12 anni. Ovviamente, non hanno subito interventi chirurgici, illegali fino ai 16 o ai 18 anni, a seconda degli Stati». Quanto all’ampiezza del fenomeno, risponde: «La stima più probabile è fra lo 0,3 e l’uno per cento del totale». Il primo problema è capire come si distingue un bimbo con disforia che probabilmente sarà transessuale da adulto e un “bimbo confuso”. «Attualmente non c’è un criterio. Se non quello di vederlo persistentemente riferirsi a se stesso secondo il sesso opposto», dice Olson.
Solo una minoranza diventa transgender
«I tre studi più ampi e più citati, datati 1995 e 2008, mostrano che solo una minoranza dei bambini esaminati diventano transgender da adulti: uno su 44, nove su 45, ventuno su 54. La maggior parte dei restanti, più tardi, si è identificato come gay, lesbica o bisessuale e un piccolo numero eterosessuale. Tuttavia, a un attento esame, questi studi suggeriscono che il campione non fosse corretto: la maggior parte dei partecipanti sentivano di appartenere al sesso di nascita, però dicevano di voler essere femmine se maschi, e maschi se erano femmine. Oggi invece, le ricerche si concentrano sui bambini che sostengono di appartenere al genere opposto al loro. È questa convinzione la chiave predittiva della persistenza della disforia di genere. Uno studio condotto con alcuni colleghi e circoscritto a 32 bambini certi di appartenere al sesso opposto, ha dimostrato che – messi di fronte a una serie di scelte e di situazioni – le loro preferenze e i loro sentimenti coincidevano con quelli del sesso in cui si riconoscevano». Insomma, se un maschietto che si proclama femmina preferisce le Barbie al calcio, se si commuove quando la principessa di una favola s’innamora, è facile che non sia solo confuso, ma che via sia qualcosa di più radicato
Il parere dello psicologo
«In Italia, in assenza di un protocollo nazionale, l’orientamento prevalente è lasciar fluire l’identità che il bambino sente, dopo aver verificato che il suo è un sentimento profondo e aver escluso psicopatologie o problemi endocrinologi interferenti. Molte manifestazioni possono rientrare: l’esperienza dice che su dieci bambini,crescendo, circa sei torneranno a riconoscersi nel sesso di nascita, un paio diventeranno omosessuali, e solo due diventeranno trans», dice al Corriere il dottor Massimo Lavaggi, psicologo al consultorio Transgenere di Torre del Lago, in Toscana, diretto da Regina Satariano, il primo a occuparsi anche di bambini, e socio del «Baby Onig», l’Osservatorio Nazionale sull’Identità di Genere che segue i minori. «Offriamo supporto psicologico alle famiglie e ai minori, che rischiano più facilmente episodi di bullismo e inclinazioni suicide». Una ricerca olandese ha rilevato che i transessuali che non si sono sentiti accolti nella loro identità percepita hanno un tasso di suicidio del 40 per cento, rispetto a quello medio dell’1,2. E il «Protocollo Olandese» che prevede anche la «sospensione della pubertà» per assecondare il cambio di sesso, messo a punto nel VU Medical Center di Amsterdam, è considerato il più avanzato al mondo.
I bloccanti ipofisici
Da noi, anche i centri ospedalieri specializzati possono offrire poco più che un supporto psicologico. Ci sarebbero i bloccanti ipofisari, usati in molti Paesi, ma non autorizzati in Italia per la cura della disforia di genere. «Sono farmaci che sospendono lo sviluppo puberale e sono completamente reversibili», spiega la dottoressa Fisher. «S’iniziano a somministrare quando comincia lo sviluppo, intorno ai 12 anni, l’età in cui i cambiamenti del corpo creano particolare disagio, causando ansia e depressione. Lo sviluppo si ferma: ai maschietti non cresce la barba; alle femminucce il seno. Questo offre tempo agli psicologi per chiarire la diagnosi. Nei Paesi in cui sono consentiti, si possono dare al massimo per quattro anni. Dopodiché, alla sospensione, lo sviluppo riprende senza problemi. Se invece l’adolescente è diventato maggiorenne, è stata accertata la disforia di genere e il desiderio di iniziare la terapia ormonale e la transizione di sesso, la persona può affrontarla in una condizione fisica avvantaggiata. I cambiamenti della pubertà, infatti, sono invece irreversibili: se in un maschio il timbro della voce si è abbassato, nessuna terapia fatta da adulto lo cambierà, servirà semmai una complicata operazione alle corde vocali; se il seno di un’adolescente è cresciuto, solo una mastoplastica riduttiva potrà ridurlo. Ma se da ragazzini queste persone hanno preso bloccanti ipofisari, non avranno questi problemi»
La storia del ragazzino autorizzato a diventare femmina
In rari casi capita anche in Italia di trattare minori con farmaci che bloccano la pubertà. A chi scrive, risulta almeno un episodio: per trattare il ragazzino in questione, è servito il voto favorevole del comitato di Bioetica della propria Regione, oltre che il parere positivo dei genitori. In quel caso, la terapia è stata autorizzata come «salvavita»: il preadolescente aveva tentato il suicidio e voleva abbandonare la scuola, dov’era vittima di bullismo. Con la pubertà bloccata e sembianze femminili, a quanto risulta, è stato meglio, il suo corpo è rimasto neutrale, ha cambiato scuola e ha iniziato una vita nuova. Difficile pensare che sia un caso unico.
Il «tasso di serenità» e le cure riparative
Spiega la dottoressa Olsen che i bambini in transizione, seguiti da specialisti e accolti dai genitori, vivono una serenità quasi pari a quella dei coetanei: «Uno studio che ho realizzato su 73 bambini fra i tre e i 12 anni in “transizione sociale” ha rilevato livelli depressione non diversi dalla media della loro età e solo sintomi di ansia leggermente superiori». Col tempo, anche l’Italia si troverà a fare i conti con l’opportunità di varare linee guida per il trattamento dei minori con disforia di genere. La strada è lunga. Da noi, sembrano diffuse, piuttosto, le «cure riparative» che correggono le inclinazioni omosessuali e transessuali. Dev’essere così, dato che il 17 maggio scorso è stato presentato in Senato il primo disegno di legge che le vieta.