Quella campagna contro il “gender” che finisce solo per danneggiare gli adolescenti
Articolo di Gianni Geraci* pubblicato sul quindicinale Adista Segni Nuovi, n° 44 del 24 dicembre 2022
In occasione di questo Natale, l’associazione Pro Vita & Famiglia Onlus sta inviando a molte persone una lettera che esordisce con questa frase: «C’è un modo per impedire agli attivisti LGBTQI di entrare nelle scuole e indottrinare i nostri figli e i nostri nipoti con l’assurda ideologia gender» e si continua affermando che: «L’ideologia gender sta convincendo migliaia di bambini e adolescenti che sono “nati nel corpo sbagliato”» e «li manipola per fargli (sic!) assumere potenti farmaci ormonali che bloccano il loro sviluppo sessuale, in vista di interventi chirurgici devastanti per “cambiare sesso”».
Quanto c’è di vero e quanto c’è di falso in questo allarme?
Di vero c’è il fatto che sono molti gli adolescenti che sostengono di avere «un’identità sessuale fluida». Alessandra Graziottin, che dirige il Centro di sessuologia del San Raffaele di Milano, parla di una percentuale che oscilla tra il 20 e il 30 per cento e osserva che si tratta di un dato molto più alto rispetto agli anni Novanta.
Di falso c’è più o meno tutto il resto, soprattutto l’accusa nei confronti di «chi mente dicendo che “il gender non esiste”» che, non solo è falsa, ma è anche assurda.
Per capirlo basta tradurre questa accusa in italiano per accorgersi che nessuno si è mai sognato di dire che “il genere non esiste”. Quella che semmai non esiste, è quella fantomatica «“ideologia gender” che manipola migliaia di bambini e di adolescenti per far loro assumere dei “potenti farmaci ormonali che bloccano il loro sviluppo sessuale».
L’idea che esista questa fantomatica ideologia è nata nella seconda metà degli anni Novanta ed è il risultato di una campagna molto ben orchestrata a cui Massimo Prearo ha dedicato un bel libro che consiglio (L’ipotesi neocattolica. Politologia dei movimenti anti-gender, MIMESIS edizioni, 2020, 320 pp.). Prima, di ideologia gender non si parlava affatto o, se qualcuno ne parlava, lo faceva per indicare qualcosa di radicalmente diverso.
Ancora nel 2006, la Blackwell Encyclopedia of Sociology ricordava come «secondo un’ideologia del genere tradizionale rispetto alla famiglia, gli uomini svolgono i loro ruoli famigliari per mezzo di attività strumentali atte a procurare il mantenimento, e le donne svolgono i loro ruoli attraverso attività di attenzione materna, cura della casa e cura genitoriale».
Qualcuno più informato sostiene che l’ideologia del gender sono gli studi sul genere (ovvero sull’essere uomo e sull’essere donna) che sono comparsi a partire dai primi anni Novanta, ma anche qui dimostrano di non aver letto gli autori che di questi studi sono stati i pionieri o, avendoli letti, di non averli capiti come dimostra il fatto che, nel 1992 Judith Butler (additata come la creatrice dell’ideologia gender) scrive che è errato leggere la sua definizione di genere «da parte di un soggetto che tratta il genere in modo deliberativo, come se fosse un oggetto lì davanti a me, quando invece il mio argomento era che la formazione del soggetto e della persona presuppone il genere: il genere non lo si può scegliere, e la performatività non è libera scelta né volontarismo».
Ma allora se non è colpa dell’inesistente ideologia del gender, qual è la causa del numero crescente di adolescenti che, quando si tratta di definire la loro identità sessuale preferiscono svicolare dalla dicotomia maschio/femmina?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo tenere presente quanto sia delicato per tutti quel momento in cui si passa dall’infanzia all’età adulta che noi chiamiamo “adolescenza”. Ciascuno di noi ha senz’altro sperimentato lo spaesamento che si vive quando ci si rende conto dei cambiamenti che si debbono affrontare in questa fase della vita.
Tra questi cambiamenti non sono certo trascurabili quelli che hanno a che fare con l’approdo alla maturità sessuale: il corpo dell’infanzia con cui si era instaurata una grande confidenza lascia il posto a un corpo nuovo in cui i caratteri sessuali irrompono con prepotenza. In questa fase è naturale che l’adolescente si faccia delle domande ed è naturale che cerchi le risposte là dove le può trovare con più facilità. La vera differenza che c’è tra gli adolescenti dei nostri giorni e gli adolescenti di trent’anni fa è che adesso la rete e i social sono diventati la fonte di informazione principale quando vogliono affrontare queste domande.
E così i tanti che pensavano di essere gli unici a vivere certi dubbi su un orientamento sessuale specifico, su un’identità di genere non conforme o su qualunque altro aspetto della propria vita sessuale e affettiva, si accorgono che questi dubbi sono condivisi da tantissime altre persone e che, tra queste, alcune, con gradi di competenza differenti (e spesso anche discutibili) hanno iniziato a fornire delle informazioni e delle risposte.
Qualche settimana fa un ragazzo che mi aveva contattato perché pensava di essere omosessuale mi ha scritto dicendo di aver scoperto di essere in realtà “asessuale” (la A di quella famosa sigla LGBTQIA che tanto spaventa gli autori della lettera che mi ha spinto a scrivere questo articolo). A quel punto io gli ho chiesto: «Come mai pensi di essere asessuale?» e lui si è offeso, perché con la mia domanda stavo mettendo implicitamente in dubbio il lavoro di ricerca e di autoanalisi che aveva fatto e che senz’altro gli era costato una certa fatica.
Trent’anni fa un ragazzo come lui non si sarebbe mai sognato di definirsi “asessuale”, al massimo avrebbe detto che per lui c’erano cose molto più importanti del sesso e delle relazioni, senza porsi minimamente il problema dello status di minoranza di quanti condividono questa sua visione delle cose.
L’unico modo per non far emergere certi dubbi e certe domande tra gli adolescenti sarebbe quello di impedire loro di aver accesso alle idee che, su certi temi, circolano in rete. In una società in cui l’educazione si ispira a modelli repressivi la cosa è magari anche fattibile, ma anche in questo caso, varrebbe comunque la massima del cancelliere Metternich che aveva capito che «nessun confine è in grado di fermare le idee».
La battaglia dell’associazione Pro Vita & Famiglia parte dall’illusione che, per evitare che certe problematiche emergano tra gli adolescenti, sia sufficiente impedire loro di affrontarle a scuola, come dimostrano le continue battaglie che i suoi membri ingaggiano tutte le volte in cui, in qualche istituto, si cerca di affrontare con serietà i temi collegati all’educazione affettiva e sessuale e ai differenti percorsi che coinvolgono l’orientamento sessuale e l’identità di genere.
Nel fare questo, i responsabili di questo movimento “no gender” non capiscono che una scelta come quella che loro propongono, è controproducente, perché lascia le giovani generazioni in balia delle informazioni non controllate che circolano in rete, con conseguenze che possono arrivare a essere drammatiche.
Tra le iniziative che il movimento propone c’è anche la realizzazione di «video e contenuti speciali da far diventare virali suisocial network». Ma se non si parte da una solida base scientifica il rischio di questo materiale è quello di disorientare ancora di più l’adolescente, spingendolo verso scelte estreme che possono rischiare di compromettere la sua salute e la sua vita.
Con quale senso di responsabilità si può volere questo?
Con quale senso di responsabilità ci si può accanire contro gli adolescenti che si sentono confusi rispetto alla loro identità di genere, impedendo loro di accedere a quelle “carriere alias” (uso di un nome che non è quello presente nei documenti) o di fruire di bagni neutri nelle scuole?
Queste scelte sono maturate nei singoli istituti e sono state suggerite dal buon senso di cui ha dovuto affrontare la sofferenza dei giovani che fanno fatica ad identificarsi con un genere preciso. Non si può in nome di una visione ideologica secondo cui o siamo maschi o siamo femmine, fare terra bruciata intorno a questi ragazzi.
Con quale senso di responsabilità si chiede ai politici di impedire che si affrontino certi argomenti nelle scuole, lasciando molti ragazzi in balìa delle risposte incontrollate della rete?
Cosa spinge Pro Vita & Famiglia a lanciare una simile campagna?
L’unica risposta che sono riuscito a trovare a questa domanda mi è venuta quando ho notato l’insistenza con cui chiedono ai loro interlocutori di mandare dei soldi: l’iban dell’associazione viene ripetuto più di una volta, l’invito a fare una donazione diventa un ritornello e, come in tutte le raccolte di fondi ben organizzate, in fondo al materiale inviato c’è un bel bollettino postale precompilato con le coordinate del conto su cui fare l’eventuale versamento.
Perché alla fine, come si dice: pecunia non olet. Mai!
* Gianni Geraci è animatore dell’Associazione Il Guado, cristiani LGBT+ di Milano, ed è socio de La Tenda di Gionata. Storico attivista cattolico dei diritti della comunità LGBT , ha al suo attivo numerosi articoli e ha curato diverse pubblicazioni sul tema fede e omosessualità.