Quelle femministe contro il ddl Zan
Articolo di Caterina Soffici* pubblicata sul quotidiano La Stampa il 5 maggio 2021, pag.21
A forza di guardare il dito, si perde di vista la luna. Nel caso del ddl Zan contro omotransfobia, su queste pagine ieri (ndr de Lastamapa) Marina Terragni ha sostenuto che il decreto non va bene, perché imbarca che un concetto di identità di genere sbagliato, ossia la possibilità di un uomo di definirsi donna, senza una certificazione ufficiale.
E’ uno dei mille distinguo, che per un verso e per l’altro, stanno minando il percorso di questo decreto. Da 25 anni si aspetta questa legge, che è un piccolo passo verso la civiltà e una conquista di diritti per persone a cui vengono negati.
Che la destra, gli omofobi e la lega di Salvini facciano di tutto per affossare il progetto di legge non è una novità. L’iniziativa di presentare un proprio disegno di legge va proprio in questa direzione e – dal loro punto di vista – si capisce benissimo quale sia il disegno.
Quello che mi riesce sempre più difficile capire è come gruppi di femministe storiche che per anni hanno lottato per conquistare diritti negati, si stiano schierando contro il ddl Zan. Non unitariamente, badate bene. Ma ogni gruppo con la propria battaglia ideologica da difendere, facendo alla fine il gioco di omofobi e odiatori di varia natura.
C’è chi contesta il fatto che la misoginia sia accostato all’omofobia, come se le donne fossero una minoranza da difendere quando sono maggioranza. Chi dice che questa legge sdoganerà la gravidanza surrogata. Chi parla del rischio che non mettere dei paletti ai cambi di genere, sia un pericolo per le donne.
Così per guardare il dito non si vede più la luna. La luna – a mio avviso – è che in Italia non esiste ancora una legge che punisca i cosiddetti “Hate Crimes“, i crimini nei quali viene riconosciuta un’aggravante legata al fatto che si colpisce una persona per la sua peculiarità.
Per essere chiari – quasi didattici – in Inghilterra se insulti o aggredisci una persona per un litigio di parcheggio commetti un reato. Se lo insulti per lo stesso parcheggio ma ci aggiungi che è un “brutto frocio“, uno “sporco negro“, un “mongoloide demente“, una “troia di merda” hai commesso un reato molto più grave, proprio per l’aggravante dell’odio: tu non stai insultando o aggredendo quella persona per ciò che ha fatto, ma per come è.
Questo è il cuore della legge contro la omotransfobia, misoginia, abilismo, altrimenti detta ddl Zan.
E’ probabile che dentro il testo, così com’è formulato, ci siano cosa non perfette. Ma il “benaltrismo” è sempre alleato di chi non vuole cambiare le cose. “Ci vuole ben altro” è la frase più amata da chi persegue lo status quo.
Trovo quindi surreale perdersi, come fa Marina Terragni, nei distinguo su cosa potrebbe accadere se un uomo che ha deciso di definirsi donna senza aver prima certificato il suo passaggio di genere con una castrazione chimica o fisica (tecnicamente Self-Id), pretendesse di essere trasferito in un carcere femminile invece che in uno maschile.
E’ successo in America. Oppure su cosa potrebbe accadere se si concedesse la terapia ormonale a una bambina che vuole diventare bambino. Citare il caso inglese di Xeira Bell – che dopo il trattamento si è pentita e ha fatto causa al Servizio Sanitario Nazionale che glielo ha permesso — è totalmente fuorviante.
Sono ipotesi talmente minoritarie che, se anche esistessero questi rischi, si potranno eventualmente discutere e aggiustare in un secondo momento.
Mi sembra molto più rilevante quando denunciano le comunità Lgbtq+ e i dati raccolti nel progetto “Hate Crimes No More“, secondo cui il 73 per cento delle persone appartenenti alla comunità Lgbtq+ ha subito molestie di matrice omofoba. Che questi fatti nemmeno vengono denunciati, perché si sa che gli aggressori (verbali odi fatto) senza una legge non verranno perseguiti.
Se si continua di questo passo la legge che punisce chi vuol bruciare un figlio gay nel forno ritornerà nel cassetto per altri 25 anni. Ma avremo impedito a un transessuale non certificato di entrare nei bagni delle donne. Bella vittoria.
* Caterina Soffici, giornalista e scrittrice, vive tra Londra e l’Italia. Scrive di cultura, attualità e varia umanità per Il Fatto Quotidiano, l’inserto culturale del Sole 24 Ore e Vanity Fair. Ha lavorato a lungo nei quotidiani, ha fatto il caporedattore per così tanti anni che alla fine ha capito di aver partecipato a troppe riunioni di redazione. Ha collaborato a programmi televisivi e radiofonici per Rai 2 e Radio3. Ha pubblicato il libro “Ma le donne no” (Feltrinelli, 2010) in cui ha raccontato il maschilismo strisciante nell’Italia dove le veline diventano ministre e le madri perdono il lavoro e “Italia Yes Italia No (Che cosa capisci del nostro paese quando vai a vivere a Londra)” (Feltrinelli, 2014)