Quello che uccide un giovane gay è il silenzio. La mia storia
Testimonianza di Luca pubblicata sul sito dell’emittente France TV (Francia), liberamente tradotta da Francesca Macilletti
Ho 25 anni e, adesso, accetto pienamente la mia omosessualità, anche se a volte, lo confesso, sento ancora una specie di dolore, di malinconia, come i postumi di un’adolescenza rubata dove mi sono dovuto costruire da solo. Sono cresciuto nella periferia di Lione. Sin da quando ero piccolo – anche se colmo di attenzioni e piuttosto scapestrato – sentivo una “differenza” con i mie amici maschi, ma senza troppo sapere perché; da piccolo, neanche sapevo che esistessero i gay.
Non vengo da un ambiente in cui il sesso è un argomento del quale si discute. Gli uomini della famiglia sono piuttosto dei “macho” e hanno delle idee arretrate sull’omosessualità. Se c’era una cosa che non bisognava essere, era essere gay! È stato all’inizio della prima media, a 10/11 anni, che ho dovuto arrendermi all’evidenza, constatando che ero interessato unicamente agli uomini. Ricordo di essermi detto questa breve frase: “Luca, sei una checca!”. Ero distrutto! Quella è stata la prova che i tabù della nostra società vengono assimilati molto presto dai bambini.
Nei secondi che hanno seguito, ho giurato a me stesso che non ne avrei parlato mai a nessuno per nessuna ragione al mondo; era necessario che lo nascondessi, poco importava il prezzo da pagare. Quest’idea si è radicata nella parte più profonda del mio essere, fino a ridere dinanzi a mio fratello maggiore che diceva di essere disgustato da un suo collega omosessuale: alla mensa della fabbrica, vederlo gli toglieva l’appetito. Nel mio profondo urlavo, il mio sorriso nascondeva il mio imbarazzo e la mia disperazione. Mio fratello maggiore, così importante ai miei occhi, il mio “modello”, mi avrebbe odiato se avesse saputo chi fossi realmente. E ho continuato a vivere così per 5 lunghi anni.
A 12 anni avevo voglia di una sola cosa: arrivare subito ai 18 e partire il più lontano possibile. Forse altrove, in un’altra città, avrei potuto avere un avvenire, dimenticare tutto ed essere accettato. A quell’età non avevo il distacco necessario per affrontare le invettive delle persone che mi circondavano, gli insulti “indiretti”, l’umiliazione. Sì, visto che tutti lo dicevano, credevo di essere malato, anormale, che la mia attrazione per gli uomini fosse una perversione. Alle scuole medie ero abbastanza turbolento, rispondevo male ai professori, saltavo le lezioni, qualche volta mi azzuffavo con gli altri. Ero riuscito in quello che volevo: mi ero fatto una reputazione e i miei compagni erano ben lontani dall’immaginare che potessi essere gay.
Se oggi scrivo queste righe, è per ringraziare una delle miei insegnanti e testimoniare l’importanza del ruolo dell’educazione nazionale. Mentre tutti mi condannavano alla sconfitta e mi facevano andare da consiglio disciplinare in consiglio disciplinare, una soltanto ha saputo andare oltre le apparenze. È stato all’età di 15 o 16 anni, uscendo dall’ufficio del preside, che mi è venuta incontro. Mi ha porto una penna e un foglio uscito dalla sua borsa, mi ha giurato di non dire niente né agli altri professori né ai miei genitori. Mi disse che sentiva che c’era qualcosa che non andava e che, se volevo, potevo scriverle. Ricordo questa frase che mi disse allontanandosi: “Le parole sono potenti, possono liberare!”. È stato solo anni dopo che ho realmente compreso il senso e la forza di quella verità.
Non è stato facile scriverle; mi ci è voluto molto tempo per redigere le poche e timide parole della mia prima lettera. Questa donna – che non faceva parte del mio quotidiano – ha cambiato il corso della mia vita. Mi ha donato la speranza, mi ha spinto a credere nel mio avvenire. Altri begli incontri sono seguiti, ho imparato ad accettarmi e ad essere fiero di chi fossi. I miei voti sono rapidamente migliorati. Ho perfino continuato i miei studi diversi anni dopo aver conseguito la maturità. Le devo molto e spero che altri, che sono nella mia stessa situazione, abbiano la fortuna di un simile incontro che porterà loro un così prezioso aiuto del quale hanno bisogno.
Quello che ci uccide è il silenzio, la solitudine, il fatto di crescere senza dei modelli di riferimento, essere in costante pericolo. Credo che il rimedio migliore sia il dialogo e la condivisione, affinché i più giovani sappiano che non sono soli e che un futuro lontani dai pregiudizi che la società ci impone è possibile.
Testo originale: Témoigne Luca