Qui non è tutto rose e fiori. Michael e la comunità di rifugiati nigeriani gay a New York
Articolo di Lisa De Bode pubblicato sul sito di Al Jazeera America (Stati Uniti) il 5 marzo 2014, liberamente tradotto da Giacomo Tessaro
Michael Ighodaro si alza lentamente in piedi con gli occhi iniettati di sangue che osservano attentamente il locale in cerca di sostegno. Questo giovane sieropositivo è una presenza regolare a questi incontri: lavora con la comunità LGBT di New York nel campo dell’informazione sull’AIDS. Stasera vuole invitare i partecipanti a una protesta internazionale contro le leggi anti-omosessualità nigeriane: le reazioni della platea sono incoraggianti. “Vogliamo che il mondo sappia cosa sta succedendo in Nigeria, che si renda conto che è una faccenda molto seria e che dovrebbe fare qualcosa” dice Michael, 27 anni. Nel suo Paese natio partecipare a una protesta del genere gli costerebbe 10 anni di carcere, sempre che non rimanga ucciso.
Lo scorso gennaio il presidente nigeriano Goodluck Jonathan ha firmato una legge che rende illegali le relazioni omosessuali e l’attivismo LGBT. Decine di persone sono state arrestate, molte sono state picchiate e alcune uccise da folle inferocite. Vengono riportati sempre più casi di estorsione e aggressione di omosessuali da parte della polizia e dei “vigilantes di quartiere” (come li chiama Kent Klindera, direttore di amfAR, una fondazione che si occupa di ricerca sull’AIDS e sostiene le comunità nigeriane nella lotta all’HIV), che cercano di purificare il Paese dai gay. Queste notizie hanno spinto Michael a organizzare una Giornata Globale di Azione all’ambasciata nigeriana di Washington e in altre città per protestare contro l’omofobia. Le aggressioni che giungono alle orecchie di Michael sono un ricordo non così distante.
Una nuova vita
Una notte del settembre 2012 ad Abuja, la capitale della Nigeria, a Michael vennero spezzate le mani e le costole in quella che, secondo lui, fu un’aggressione omofobica. Il mattino seguente ricevette un fuoco di fila di minacce di morte per telefono e email. Temendo per la sua vita, abbandonò la sua patria e cercò asilo negli Stati Uniti. Possedeva già un visto valido per molti ingressi grazie a un viaggio a Washington per partecipare a una conferenza internazionale sull’AIDS: il suo biglietto d’ingresso verso una nuova vita: “Sono venuto qui senza nessun progetto, senza niente, sono venuto e basta. Vivere (in Nigeria) stava diventando più pericoloso di quanto si potesse prevedere”.
Per due mesi dopo il suo arrivo non poté dormire. Digerire la violenza subita lo tenne sveglio mentre cambiava continuamente divano nelle case di amici di amici. Quando il suo terzo compagno d’appartamento venne ucciso in una strada di Brooklyn, Michael fu costretto a trasferirsi nel Bronx: “Quella volta mi spaventai davvero”. Ora vive in un appartamento fornitogli dal governo dove, sul fornello, non manca mai uno stufato di pollo, piantaggine e spezie. L’aroma dà alla testa e gli ricorda la sua tata che gli ha insegnato a cucinare in Nigeria. Sapeva che Michael era gay “ben prima che lo sapessero i miei”, dice sorridendo. Dopo alcune visite dagli stregoni e altri tentativi “di rendermi eterosessuale”, sua madre gli intimò di andarsene. Non aveva ancora vent’anni: “Allora entrai in casa, presi le mie cose e me ne andai”. Da allora non si sono più sentiti.
Michael si unì a una comunità clandestina di attivisti gay ad Abuja, che gli offrì un posto in cui stare e un nuovo scopo nella vita. Le sue vecchie aspirazioni di sposarsi e diventare un ingegnere vennero sostituite dalla determinazione a diventare un appassionato attivista per i diritti gay e a informare sull’HIV e i rischi di infezione. Quattro uomini, con alle spalle esperienze simili alle sue, divennero i suoi compagni di stanza e, con il tempo, la sua famiglia.
Una comunità che cresce
Ora se ne sono andati tutti. Due hanno lasciato la Nigeria, gli altri due hanno cambiato casa: “La gente che se ne va cresce di giorno in giorno. Non vuole certo rimanere in un Paese dove adesso c’è una legge che può mandarti in galera per 14 anni, dove possono picchiarti a morte o dove non puoi essere curato se sei gay. Nessuno di noi vuole vivere lì”.
Aaron Morris, direttore legale di Immigration Equality, un’organizzazione nazionale che assiste le persone LGBT, in particolare quelle sieropositive, che chiedono asilo negli Stati Uniti, ha detto ad Al Jazeera che prevede un aumento del numero di Nigeriani che chiederanno il suo aiuto a causa della nuova legge. Nei primi due mesi del 2014 35 Nigeriani hanno contattato l’organizzazione a fronte dei 52 dell’intero 2013, dice il direttore della comunicazione Diego Ortiz. Anche se “non era sicuro stare in Nigeria prima della nuova legge, ora [i gay] sono molto più spaventati” dice Morris.
Tra coloro che hanno chiesto assistenza a Immigration Equality c’è un attivista LGBT bisessuale di 37 anni che è arrivato a New York da Abuja lo scorso mese. Ora vive in un rifugio, senza soldi né lavoro, e ha chiesto di rimanere anonimo. Alla manifestazione di venerdì vuole indossare una maschera per proteggere la sua famiglia rimasta in Nigeria – una moglie e due figlie –, che spera di portare negli Stati Uniti se riuscirà ad ottenere l’asilo.
Anebi, un trentottene che si presenta con il nomignolo datogli dalla nonna per paura di ritorsioni, è anch’egli un membro della sempre più numerosa comunità di rifugiati gay. Come Michael, anche Anebi ha abbandonato la Nigeria dopo essere stato picchiato “molte volte” e avere ricevuto minacce di morte al telefono. Anche per lui un visto per una conferenza internazionale sull’HIV/AIDS ha rappresentato la salvezza: “Sono venuto perché volevo lasciarmi tutto alle spalle e cominciare una nuova vita”. La lotta per la sopravvivenza che ha dovuto affrontare dal suo arrivo a New York due anni fa ha lasciato il segno: “L’attivismo mi è costato talmente caro che non voglio più averci a che fare”, ma quando si tratta della manifestazione per la Nigeria “non posso starmene seduto”.
Una rete internazionale di attivisti protesterà di fronte ai consolati nigeriani in città come Johannesburg, Sydney, Città del Capo, Nairobi e Londra. Possono contare sul sostegno di centinaia di persone nel mondo intero e di celebrità come Ellen Page, che ha fatto il suo coming out pubblico lo scorso mese, e Janet Jackson. Bisi Alimi, il primo gay nigeriano a fare coming out in televisione, sta guidando la protesta nel Regno Unito. Gli attivisti vogliono raccogliere firme per impugnare la legge anti-gay in un tribunale nigeriano. Bisi racconta ad Al Jazeera di come sia stato fortunato a fuggire a Londra nel 2007 dopo aver ricevuto minacce di morte: era sempre “dentro e fuori le celle del commissariato. Ho perso molti amici e amiche, molti di loro sono stati uccisi”. Spera che, con questa campagna, il mondo si accorga della loro sofferenza: “Questa è davvero una guerra per la comunità LGBT in Nigeria”.
Shock culturale
La vita di Michael continua anche al di fuori dell’attivismo. Ha trovato lavoro come assistente sociale per Housing Works, un’organizzazione non-profit di Brooklyn che fornisce servizi sociali alle persone con HIV/AIDS, che costituisce anche un portale per i rifugiati nigeriani, attraverso il quale lui, Anebi e altri sono passati per ricevere assistenza. Michael si sveglia alle 6 di mattina e va a dormire alle 11 di sera: nel frattempo percorre New York in lungo e in largo in cerca di senzatetto e malati e passa le sue serate a vari incontri, come quello nel quale ha raccolto attivisti per la protesta da lui organizzata. Si occupa di educazione nel campo dell’HIV e ha trovato molte opportunità per coltivare le sue abilità. “Quello che fanno questi attivisti è più o meno lo stesso che facevo in Nigeria”; perfino la povertà sembra bizzarramente famigliare. “Pensavo che qui tutto fosse rose e fiori”, ma ora solo i weekend passati a Times Square gli ricordano la New York dei suoi sogni. Ma se la sua passione di attivista rimane la stessa, lo stile e i rischi sono molto diversi: “L’attivismo è più forte in Africa. Qui è meno dal basso, meno orizzontale” di quanto fosse abituato in Nigeria, dove offriva personalmente profilattici e lubrificanti alla gente per strada e aiutava le persone a rischio con il test dell’HIV. Negli Stati Uniti le informazioni sulla prevenzione esistono ma non sempre raggiungono i quartieri più poveri e a più alta concentrazione di Afroamericani, dice Michael, il quale imputa alla differenza di classe tra assistenti sociali e beneficiari la presunta mancanza di efficacia nell’azione.
Michael spera di ritornare un giorno in Nigeria “ma in un ruolo diverso”. Dopo aver lasciato la scuola per paura della persecuzione, spera di entrare all’università perché pensa che una laurea lo aiuterà a trovare lavoro come “attivista professionista”, e comunque potrà tornare solo “quando sarò un cittadino statunitense. Non vedo l’ora”.
Testo originale: Exiled from home, Nigeria’s gay community builds new life in US