Raccontare l’omofobia in Italia. Genesi e sviluppi di una parola chiave
Dialogo di Katya Parente con lo scrittore Paolo Gusmeroli
Oggi è con noi Paolo Gusmeroli che, insieme a Luca Trappolin, è autore del libro “Raccontare l’omofobia in Italia. Genesi e sviluppi di una parola chiave” (editore Rosenberg & Sellier, 2019, 224 pagine). Insieme a Gusmeroli cerchiamo di dare qualche delucidazione su questo fenomeno così pernicioso, che suscita le giuste e veementi proteste della comunità LGBT.
Cosa si intende per omofobia?
Assieme a Luca Trappolin abbiamo voluto scrivere un libro (Raccontare l’omofobia in italia. Genesi e sviluppi di una parola chiave, Rosenberg & Sellier, 2019) focalizzato su come abbia preso forma un discorso – o meglio, una pluralità di discorsi – sull’omofobia in Italia, sia nel campo dei cosiddetti saperi esperti (come sociologia e psicologia) che nel dibattito pubblico. È difficile dire cosa si intenda precisamente per omofobia.
Potremmo tentare di darne una definizione affermando che l’omofobia riguarda la squalifica e l’ostilità che colpiscono strutturalmente comportamenti e soggetti non eterosessuali. In questo senso potremmo distinguere due modi principali in cui essa si manifesta: riducendo al silenzio, ovvero condannando all’invisibilità, alla mancanza di parola e di rappresentazioni (se non caricaturali) esperienze, soggettività e modi di vita non eterosessuali; sanzionando l’omosessualità, di volta in volta come devianza, peccato, malattia o anche solo “disordine”, ovvero come una condizione spesso tollerata, ma comunque ritenuta assolutamente non desiderabile.
Sappiamo che il riferimento semantico alla “fobia”, per quanto colga parte del problema e risulti comunicativamente molto efficace, risulta essere in parte limitante o fuorviante. Per questo nelle scienze sociali si tende a preferire altri termini – meno psicologizzanti – come “eteronormatività” o “eterosessismo”, che restituiscono più chiaramente il carattere strutturale di questa squalifica.
Bisogna però riconoscere che questi ultimi hanno certamente meno appeal nel dibattito pubblico, forse perché appaiono troppo specialistici e lontani dal linguaggio comune.
Si tratta di un termine univoco, o ingloba diversi significati?
L’abbiamo già anticipato: il termine ingloba certamente diversi significati. Inoltre, il suo uso pratico non può essere slegato dagli sviluppi delle mobilitazioni LGBTQI. Ciò che appare “omofobo” oggi poteva non essere considerato tale un paio di decenni fa, o anche meno.
Come mostriamo nel nostro libro, nel contesto odierno – anche in Italia – la parola si è prestata a varie appropriazioni. Nessuno (o quasi) ama definirsi “omofobo”, in molti casi nemmeno chi si oppone con maggiore virulenza alle rivendicazioni dei movimenti LGBT. Oggi persino la Chiesa Cattolica deve dichiararsi in qualche modo contro l’omofobia per mantenere la propria pretesa di universalità! Dirsi retoricamente non omofobi, in questo senso, assume una connotazione positiva, generalmente riconosciuta, e che i soggetti amano proiettare su di sé, specialmente nel panorama culturale dell’Occidente. Si pensi ad esempio ai modi con cui si è strumentalizzata e ipostatizzata “l’omofobia” delle culture non-occidentali dentro agende politiche anti-migranti, soprattutto nei paesi del Nord Europa.
Per questo motivo, abbiamo ritenuto di grande interesse indagare i modi in cui i significati di questa parola vengono di volta in volta ristretti o allargati: per qualcuno l’omofobo è esclusivamente un soggetto ben visibile, che insulta o aggredisce una persona omosessuale; per altri è la stessa struttura culturale della società a essere omofoba (ovvero eteronormativa ed eterosessista).
In questo senso la violenza visibile o l’insulto assumono un significato specifico proprio sullo sfondo di questa squalifica strutturale, e continua, che si esprime nel linguaggio, nelle istituzioni, nelle norme esplicite e implicite che regolano la vita sociale, dagli aspetti più visibili – come i modi ammessi di fare famiglia – fino alle minuzie della vita quotidiana – come la scelta del colore dei nostri vestiti.
A questo proposito, occorre dire che una parte rilevante di quella che chiamiamo omofobia si declina, più praticamente, nella sorveglianza delle identità di genere, ovvero dei modelli autorizzati di maschilità e femminilità in famiglia, nello spazio pubblico, ecc.
Come e quando è nata?
La parola omofobia comincia a circolare negli Stati Uniti, in particolare tra gli attivisti gay e lesbiche, verso la fine degli anni ’60. Sarà uno psichiatra (eterosessuale) George Weinberg, a “consacrarla” nel campo accademico nel 1972, con il suo libro “Society and the Healthy Homosexual”.
L’operazione intellettuale di Weinberg è molto rilevante: il suo discorso può essere riassunto nell’idea che la psicologia dovrebbe preoccuparsi maggiormente della salute mentale di chi teme gli omosessuali, invece di interrogare la presunta “devianza” di questi ultimi. Lo stigma della patologia si ribalta così dall’omosessuale all’omofobo (la cui patologia è comunque definita sui generis e non in senso proprio).
Ricordiamo che quando fu scritto il libro, l’omosessualità era ancora annoverata come patologia nei manuali diagnostici, e lo sarà ancora per parecchi anni nel contesto italiano e internazionale. Quello di Weinberg è un libro che segna simbolicamente, almeno entro il campo accademico, un primo passo di quella che Èric Fassin, un paio di decenni più tardi, ha definito “inversione della questione omosessuale”. In altri termini, non ci si chiede più “come si possa essere omosessuali”, bensì “come si possa essere omofobi”.
Ad essere oggetto di indagine non è più l’omosessuale in quanto deviante (dal punto di vista sociologico o psicologico poco importa), bensì la reazione che una data società o gruppo sociale mostra di fronte al pluralismo degli orientamenti sessuali. Ovviamente – e purtroppo – questa inversione ha interessato solo alcuni campi ristretti della vita sociale, ma ha prodotto effetti molto rilevanti sulla ridefinizione della “cittadinanza sessuale” in molte società, compresa la nostra.
Inoltre, diversi ricercatori e attivisti hanno da subito messo in guardia anche dalla patologizzazione dell’omofobo: da una parte riduce il problema a una questione individuale, dall’altro lo de-politicizza.
Cosa ha fatto la comunità LGBT italiana per contrastarla?
Ovviamente ha fatto molte cose, di cui è difficile rendere conto in poche righe. Lo stesso ingresso del concetto nel linguaggio mediatico, se non della vita quotidiana, lo si deve in gran parte all’azione comunicativa e culturale di soggetti afferenti a diverse aree della mobilitazione gay e lesbica in Italia.
Riassumendo, i movimenti hanno contribuito in maniera decisiva a promuovere il rigetto dell’omofobia – seppur ottenuto spesso solo in modo formale e superficiale – nel discorso pubblico italiano, collegandola a un’agenda politica volta al riconoscimento di nuovi diritti di cittadinanza: in primis, negli ultimi decenni, legati al fare famiglia e alla genitorialità.
Tuttavia la strada verso il superamento dello stigma che colpisce pratiche e soggetti non eterosessuali è ancora lunga, considerato che la squalifica dell’omosessualità è ancora parte integrante – se non costitutiva – della riproduzione degli habitus sociali e delle identità di genere, talvolta persino di quelli delle persone omosessuali: si pensi alla cosiddetta omofobia interiorizzata, ovvero al rigetto o all’odio di sé che spesso accompagna la scoperta di desideri non eterosessuali.
Non vi è dubbio, infine, che la lotta all’omofobia oggi debba rinnovarsi, e in parte reinventare i propri linguaggi, prendendo sul serio le sfide poste da una società attraversata da altri assi di differenza-disuguaglianza: come quelli legati alle migrazioni, alla creazione di società creolizzate o multiculturali ecc.
Credi che la “famigerata” legge che si sta discutendo in questo periodo cambierà le cose?
Personalmente credo che una legge anti-omofobia sia necessaria, soprattutto per rendere più visibile la natura intimidatoria della violenza che colpisce le persone LGBT. Si tratta infatti di una violenza che rende drammaticamente visibile l’ordine sociale, e lo impone non solo a chi ha subito le ferite nella propria carne viva, ma anche su tutti/e gli/le altri/e (eterosessuali inclusi, cui si mostra il prezzo della trasgressione dalla “normalità”).
Per quanto riguarda il contesto politico-culturale italiano, reputo che la sfida non sia solo quella che avviene in Parlamento, ma riguardi anche il modo in cui questa legge verrà raccontata nel discorso pubblico, possibilmente cercando di evitare il consueto detour (deviazione, n.d.r.) dei linguaggi operato da chi si ritiene “censurato” da tale legge. In questo senso non credo che questa lotta debba configurarsi come perseguimento di una modernizzazione sessuale operato da un’avanguardia (culturale, sessuale, intellettuale) contro le sacche di arretratezza permanenti nel nostro Paese.
Il rischio è persino quello che l’anti-omofobia si traduca – come è avvenuto altrove – in arma politica agitata dalle nuove destre contro le culture dei migranti.
Ritengo invece che vada enfatizzato il tentativo di allargare i termini dell’inclusione e del pluralismo, promuovendo un nuovo ethos pubblico di auto-determinazione, che non protegga solo una particolare “categoria”, bensì il pluralismo dei modelli di cittadinanza sessuale, compreso – paradossalmente – anche quello dei “conservatori” o delle minoranze culturali e religiose.
Bisogna anche ricordare come, anche dentro l’area di movimento, e nella riflessione scientifica ad esso più vicina, si sono espressi dubbi rispetto alla strategia che vorrebbe punire penalmente l’ostilità anti-omosessuale, in particolare riferendosi alle legislazioni sugli hate crimes. Judith Butler nel 1997 (e lo riportiamo anche nel libro) invitava a vigilare in questo senso, e mi piace chiudere proprio con le sue parole: “Che le parole feriscano sembra incontestabilmente vero, e che opinioni d’odio, razziste, misogine e omofobiche dovrebbero essere contrastate in modo deciso sembra incontrovertibilmente giusto. Ma comprendere da dove queste opinioni derivano il loro potere di ferire cambierebbe la nostra concezione di cosa può voler dire contrastare tale potere? […] quando il discorso politico si appiattisce sul discorso giuridico, il significato dell’opposizione politica corre il rischio di essere ridotto all’azione penale”.
Come dire che il lavoro prettamente giuridico e legislativo dovrebbe essere affiancato da un’impostazione culturale, direi una forma mentis, curiosa, aperta alle novità, empatica e rispettosa. Riusciremo mai a raccogliere la sfida – e a vincerla?