Rendere ragione dell’amore omosessuale nella teologia cattolica
Estratto dell’intervento tenuto da Damiano Migliorini* all’incontro-dibattito “L’amore omosessuale. Perché non parlarne?”(Torino, 18 dicembre 2017)
L’intervento sarà strutturato in tre parti. La prima e l’ultima, più discorsive, saranno dedicate alla descrizione del nostro libro “L’amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi” (Cittadella editrice, 2014), com’è nato, il suo titolo, la prospettiva in cui si colloca. Nella parte centrale, invece, entrerò in questioni più tecniche, con un linguaggio un po’ più specifico e forse a tratti difficile. Tuttavia, essendo l’incontro di questa sera un evento organizzato in collaborazione con la Facoltà Teologica (dell’Italia Settentrionale, sezione di Torino), parto dal presupposto che tra voi ci siano teologi o studenti. E quindi una parte del discorso non può non collocarsi al loro livello. O almeno provare a farlo.
I. Prima parte
… Il libro L’amore omosessuale è ora parte di un trittico, composto di tre testi, due dei quali (Gender, Filosofie, Teologie[1] e un capitolo in Sguardi sul genere[2]) in uscita nel 2018. Nel loro insieme i tre testi offrono una panoramica completa – mi sembra – della questione “omosessualità”, inserendola anche in dibattiti più recenti e “caldi” come la campagna anti-gender a cui abbiamo – purtroppo – assistito. Il trittico ha permesso di ampliare la parte “antropologica” che, per questioni di spazio, ne L’amore omosessuale (andato quest’anno in ristampa, con qualche correzione) era un po’ ridotta, sebbene buona parte dei nodi fossero trattati. Nonché di estendere notevolmente la bibliografia di riferimento.
Come ripetuto in varie presentazioni, il titolo del libro è il programma del libro stesso. Comprendere a fondo l’amore omosessuale, infatti, permette alla teologia di integrare alcune istanze dei cristiani omosessuali all’interno della speculazione morale, senza troppe difficoltà. Tuttavia, per compiere questa operazione, è necessario stabilire dei “criteri” non soggettivistici per definire un amore, appunto, “amore”, nella pienezza di significato che la dottrina cattolica attribuisce a questo termine. Questi “criteri” si possono raggruppare in due macro-aree, che corrispondono alla suddivisione del nostro testo:
I.1. Criteri scientifici
Nel nostro testo, nella parte curata da Beatrice Brogliato, abbiamo cercato di mostrare che l’amore omosessuale non è immaturo né narcisistico; le persone omosessuali non sono più promiscue o psicologicamente instabili delle persone eterosessuali. Vi possono essere delle difficoltà contingenti – ambientali e sociali – che tuttavia non sono causalmente determinate dall’omosessualità stessa della persona. Dal punto di vista della psicologia non c’è dubbio che quello omosessuale sia un amore paragonabile a quello eterosessuale, sia per le modalità che per l’intensità; e per il fatto che porta a un erotismo compiuto. La persona omosessuale ha le stesse capacità – relazionali, emotive, lavorative etc. – di qualsiasi altra. Per questo motivo non c’è motivo di classificare l’omosessualità come una malattia, una perversione, un disturbo.
I.2. Criteri teologici
La Chiesa afferma che, affinché una relazione affettiva si possa chiamare “amore”, è necessaria la presenza della reciprocità, la passione, il rispetto, la magnanimità, la fedeltà, la donazione altruistica, la solidarietà. Tutte componenti di ciò che, nella visione cattolica, viene definita “castità coniugale”. Ciò che manca, nella coppia omosessuale – e ciò che costituisce per la Chiesa il punto ermeneutico più critico – è la finalità procreativa e la complementarietà dei sessi. Dalla mancanza di queste caratteristiche fondamentali dell’oggettività della sessualità – sempre secondo la dottrina corrente della Chiesa – nasce la parola “disordine”, o meglio, la locuzione “oggettivo disordine morale” con cui si indica sinteticamente la situazione delle persone omosessuali che vivono una relazione d’amore.
Quando parliamo di comportamenti morali, già lo si ricordava, un generico richiamo all’amore o alla benevolenza non sembra essere sufficiente, perché rischia di rinchiudersi in un soggettivismo o un emozionismo dentro il quale vige solo l’arbitrio dell’individuo. Di criteri razionali e condivisibili abbiamo bisogno. Resta però da capire quali siano e quali possibilità dischiudano.
E qui entro un po’ nelle questioni tecniche.
II. Parte seconda
II.1 In cerca di criteri condivisibili
Proviamo a cercare dei criteri inserendoli in una teoria, ad esempio quella della dottrina della legge morale naturale. È la scelta fatta nel libro, abbastanza inevitabile se si vuole restare nel perimetro dell’etica cattolica (anche se non sono pochi i moralisti che preferiscono abbandonare tale dottrina come si trattasse di un ramo secco, in parte cestinando la Veritatis Splendor). In tale tentativo, prendo ispirazione dall’esposizione di Maritain[3]. Secondo la sua interpretazione della dottrina della legge morale naturale, noi cogliamo il dover essere (e il bene) nell’essere attraverso inclinazioni e desiderio. Il bene ontologico porta con sé l’esperienza morale, perché l’inclinazione desiderante permette di attribuire al bene un valore (desiderabile, appunto): l’uomo tende a quel valore, che è quindi un fine. E dunque, dato che la volontà – seppur nella condizione indebolita post-caduta – tende naturalmente verso il bene onesto (non solo l’utile), l’esame delle inclinazioni ci permette di identificare proprio il bene morale.
La conoscenza morale è, pertanto, in questa impostazione d’ispirazione tomista, una conoscenza “per modo di inclinazione”: è pratica, pre-filosofica. Le inclinazioni sono quel “qualcosa” iscritto nell’anima che, “muovendoci” naturalmente verso un bene, ci aiuta a identificarlo come tale. Ovviamente, le inclinazioni possono essere fallibili, o inquinate. Per questo si aggiunge a esse anche la teoresi, che rende possibile il discernimento. Inoltre, alcune inclinazioni sono frutto della natura animale, altre di quella razionale, quindi specifiche dell’uomo. L’inclinazione alla procreazione è “naturale” e “animale”, indicando il bene da perseguire nell’atto sessuale. Questo almeno a una prima considerazione generale, che non coglie la specificità dell’animale “uomo”.
Un passo alla volta, però. Per prima cosa interroghiamo la natura animale in sé. Oggi sappiamo che la connessione tra atto sessuale e inclinazione alla procreazione non è istintiva né biologica: il desiderio dipende dalla natura razionale e relazionale dell’uomo, almeno in alcuni casi; inoltre, nell’atto sessuale femminile, al desiderio e all’esecuzione dell’atto non corrisponde un riflesso corporeo finalizzato alla procreazione (l’ovulazione). Quindi vi sono buone ragioni per pensare che il fine procreativo e unitivo non siano “per natura” sempre presenti nell’atto, e che quindi l’atto sessuale debba identificare un bene\fine congruente al modo in cui l’atto stesso si dà. La congruenza – e quindi la necessità della forma procreativa dell’atto – nasce dall’osservazione del solo atto maschile (nel quale al desiderio\atto corrisponde la produzione del seme), ma è un’osservazione parziale. L’erotismo è ben più ampio del procreativo.
Detto questo, vediamo le specificità dell’umano in quanto spirito incarnato[4]. Con una premessa: avrete intuito che la strategia è quella di mantenere il discorso sui fini e sulla legge morale naturale, ma innovandolo, facendogli esprimere ciò che può esprimere. Non dico di esserci riuscito completamente. Come del resto non sono certo il primo ad averla tentata! E tuttavia penso sia una strada promettente. Se non altro per alcune considerazioni molto pragmatiche: la dottrina della legge morale naturale è dottrina ufficiale della Chiesa, e non penso verrà abbandonata, né ora né mai. Forse allora conviene prenderla come un dato di fatto e lavorarci all’interno.
Riprendiamo la domanda: davvero la dottrina della legge morale naturale applicata alle questioni di morale sessuale permette un’integrazione delle istanze provenienti dalle minoranze sessuali? Nel rispondere a questa domanda, mi muovono due convinzioni: la prima, già accennata, è che la dottrina morale cattolica abbia una sua ragionevolezza; la seconda è che in questa intelligibilità può trovare posto l’amore omosessuale. In ciò che è ragionevole e buono, non può non trovare posto ciò che è ragionevole e buono. Fondamentale è non scambiare la razionalità per la semplicità, o ancor peggio, per la semplificazione, o scambiare il buono con l’evidente, o l’istintivo. Sono anche convinto che una verità che non permetta all’uomo di fiorire a partire dalla sua condizione concreta sia una verità dubbia.
Il razionale è spesso complesso; l’orientamento sessuale, ad esempio, è una caratteristica dell’umano che ha richiesto un lungo percorso – in molteplici discipline – per cominciare a essere compresa. L’antropologia cristiana fatica ancora a fare i conti proprio con il concetto di orientamento sessuale – perché ha preferito anteporre il discorso etico a quello scientifico, spesso scontrandosi con gli assunti scientifici, prima ancora che con quelli morali – il quale condiziona a sua volta il discorso sui fini. Nel paradigma scientifico contemporaneo l’orientamento sessuale non ha a che fare solo con la funzionalità degli organi, ma col desiderio, il quale è un fenomeno psicologico che si struttura durante l’evoluzione del bambino e del suo corpo (in quanto corpo-in-relazione). Questo è lo specifico della sessualità umana, che non è solo istintiva. Sono molti i fattori e i livelli che interagiscono nel determinare il desiderio sessuale di una persona, che a volte si manifesta in varianti “minoritarie”, ma non per questo patologiche o perverse.
Accettare l’esistenza di un orientamento omosessuale che si scopre (non si sceglie) ci costringe allora a rivedere almeno in parte l’insieme delle inclinazioni naturali che ci permettono di individuare i beni che rientrano nella legge morale naturale, come abbiamo visto seguendo Maritain. O almeno ci aiuta a non generalizzare in modo ingenuo. Sembra infatti che l’uomo sia inclinato, nell’atto sessuale, all’unione fisica e spirituale con l’altra persona, ma la natura ci dice che non sempre in tale atto sia implicata procreazione o la complementarietà biologica[5]. Non è impensabile, allora, che l’amore omosessuale, in quanto amore e cura reciproca (ed espressione di una variante psicologicamente sana), sia ordinato all’unico fine specificatamente umano (il fine ultimo, cioè l’amore). L’orientamento all’altro sesso è sicuramente la via preferenziale, ma è possibile che vi siano altre forme, “carenti” nella dimensione procreativa, ma non per questo intrinsecamente disordinate. Perché comunque “generative”. Il fine (o bene) procreativo, quindi, se è vero che è parte della legge morale naturale, necessita o di un’interpretazione più ampia (come generatività) o di essere esigito solo in determinati contesti. Non è un capriccio: è la natura stessa a dirci che può essere così, è la stessa legge morale naturale a poterlo riconoscere per restare coerente. La natura è la norma ed è l’eccezione, è esuberanza di condizioni esistenziali diverse, sane e generative.
L’aggiornamento dottrinale non può che passare per l’accettazione di un dato: abbiamo dei corpi (con relative funzioni biologiche), ma ai corpi si ascrivono dei desideri (anche sessuali) che hanno finalità più complesse della semplice riproduzione della specie. I corpi esistono come corpi desideranti, e il desiderio è diversificato perché condizionato da un’anima la cui essenza è modificata dalle dinamiche relazionali che ci intessono fin dal primo vagito: la forma-anima che ci viene impressa da Dio non è un software che ci determina nel nostro naturale desiderare (volto necessariamente all’unione procreativa tra uomo e donna), bensì subisce l’avventura della storicità esistenziale, e della relazionalità ontologica.
Questo è oggi chiaro in ogni disciplina: dalla psicoanalisi alla psicologia dello sviluppo. L’apprendere nella relazione costituisce la peculiarità dell’uomo e della sua anima, ed è ciò che lo rende peculiare anche nelle espressioni sessuali, che spesso escono dalla necessità biologica, pur non contraddicendo la natura umana generale che le integra e le sovrasta (appare evidente dal ragionamento appena esposto – e che riprendiamo a breve – che non vi sia contrasto tra la natura individuale della persona omosessuale e la natura universale dell’uomo[6]). In questa visione compiutamente personalista, la causalità efficiente (la meccanicità biologica) si integra e viene modellata dalla causalità finale: la persona, nel suo corpo che è più che un corpo, nell’agire libero persegue dei fini, e sono questi ultimi a determinare la bontà della sua azione[7].
Per la Chiesa contemporanea, il persistere, per ragioni ideologiche, dell’impossibilità di pensare a uno sviluppo diverso da quello lineare “sesso biologico-identità di genere-orientamento eterosessuale” sta alla base dell’“incapacità” di concepire l’esistenza di identità sessuali differenti come varianti possibili e sane della sessualità umana. Tale impossibilità risiede in una rigida interpretazione teleologica, nella quale il corpo umano (e quindi il suo desiderio) ha come fine indispensabile dell’atto sessuale la procreazione biologica, e questo è l’unico ordine possibile corrispondente alla natura umana. Ma qui il corpo è visto solo dal lato animale, come meccanicità biologica, senza la considerazione della sua specificità umana-spirituale, e della variabilità che ne deriva. Ipoteticamente, invece, possiamo pensare che l’analisi del desiderio ci aiuti a depurare le nostre concezioni ingenue sulle finalità della persona umana e dei suoi atti, a partire da un’analisi onesta dei meccanismi bio-psicologici.
La natura umana è un po’ più complessa di come pensavamo che fosse, e se la dottrina della legge morale naturale si basa sulla natura, allora essa deve condividerne il processo di disvelamento, in un gioco di riequilibrio costante tra dati induttivi e speculazioni a priori (sull’essenza). In questo modo potremmo restare tomisti pur accogliendo una visione dell’identità sessuale molto più articolata di quella tommasiana. Il percorso è appena agli inizi, ma penso sia importante provare a muoversi in questa direzione.
Lo ha fatto, per esempio, Adriano Oliva, in un libro tanto contestato quanto illuminante[8]. Attenendosi all’impostazione tommasiana e facendola interagire con la teologia post-conciliare, secondo Oliva, è possibile elaborare un pensiero che renda conto del “contro natura naturale”. La ricerca dell’unione nel piacere si colloca nella forma sostanziale (l’anima), e questo permette di distinguere la sodomia come vizio dall’omosessualità come natura individuale. Il piacere sessuale (anche omosessuale) dipende dall’anima, quindi dalla razionalità (e relazionalità) della persona. Il passaggio dall’essenza all’individuazione, dunque, può comportare delle diversificazioni, e in questo si possono generare inclinazioni proprie solo di alcuni individui.
Un’altra “incapacità” ermeneutica della Chiesa è legata al permanere – inconsciamente – all’interno di uno schema dualista nel quale vige una ferrea contrapposizione tra spirituale e corporeo. In questo schema risulta impensabile che un amore spirituale (come può essere l’amore tra due maschi o tra due femmine) si manifesti nell’espressione corporea, per accrescersi e realizzarsi. È da questo schema che deriva la dottrina secondo cui l’amore tra due persone dello stesso sesso può essere positivo purché non si esprima in atti sessuali, giacché essi, per essere buoni, devono essere procreativi (all’atto corporeo deve corrispondere un fine anche biologico; al fine spirituale basterebbe un atto spirituale, come il prendersi cura reciproco[9]). L’amore sessuale, invece, è intrinsecamente spirituale e corporeo, e quindi non può che darsi, nella castità coniugale, in entrambe le forme. L’astinenza completa dall’intimità sessuale è un’eccezione, e nemmeno tanto raccomandabile in una coppia!
Tutte le inclinazioni individuali sono dunque buone? Questo è un problema non secondario che richiede una riflessione ulteriore, la quale forse fuoriesce dalle considerazioni strettamente antropologiche. È possibile che la risposta risieda nella valutazione dei fini a cui tali inclinazioni mirano, e al benessere psico-fisico complessivo che determinano nell’individuo. L’inclinazione omosessuale, mirando ad almeno un fine buono, se non addirittura il “più buono” dopo Dio stesso (e cioè la comunione con un’altra persona), e non danneggiando l’individuo, può rientrare tra le inclinazioni individuali buone. E qui si capisce anche perché la parte scientifica-psicoanalitica del libro è fondamentale: serve a sfatare molti miti sulle turbe psichiche degli omosessuali e le loro relazioni d’amore. Inoltre, riconoscendo dei criteri di valutazione delle inclinazioni, si risponde indirettamente a chi è preso dal terrore che, riconoscendo certe forme d’amore, si possa alla fine riconoscere come lecita qualsiasi cosa.
Oltre ad essere un’argomentazione poco convincente dal punto di vista filosofico (come tutte le argomentazioni basate sul “pendio scivoloso”, o “piano inclinato”), sembra del tutto ignorare la ferma presa posizione contro il soggettivismo che, in questo intervento – ma anche nel nostro libro, e in tutti gli interventi dei moralisti che propongono un aggiornamento dottrinale – si tenta a ogni riga di giustificare. Abbiamo e manteniamo dei criteri per definire quando un agire è disintegrativo per la persona!
II.2. Inserirsi con consapevolezza nel mistero dell’umano
Abbiamo quindi tratteggiato un possibile percorso di aggiornamento dottrinale, ma non dobbiamo illuderci che sia un percorso semplice. Del resto, l’osservazione del mondo (etero-dominante), del testo biblico (che presenta un uniforme simbolismo nuziale eterosessuale[10]) e la dottrina filosofica circa i fini convenienti, si rafforzano vicendevolmente per le loro presunte “evidenze”, creando un sistema debole nei suoi nodi, ma forte nel suo insieme. Per metterlo in discussione non è sufficiente indebolire i nodi, ma proporre un sistema alternativo solido. E l’integrazione di nuovi dati sperimentali\induttivi in un’impostazione metafisica o in una tradizione teologica è sempre un procedimento complesso e circolare, che segue tempistiche e traiettorie imprevedibili.
Oggi, inoltre, molte opposizioni a tale aggiornamento affondano le radici nella speculazione sul mistero nuziale (analizzato più diffusamente altrove)[11]. Di fronte al crollo della sostenibilità di ogni altra argomentazione filosofica contro l’amore omosessuale, affermare che l’omosessualità nega il mistero nuziale appare oggi l’argomentazione preferita dai teologi “conservatori”. Possiamo dire che essa si basi su questi passaggi: (1) osservo che esistiamo prevalentemente come maschi e femmine, che i nostri genitali sono fatti “a incastro” e per la procreazione, e che dalla convergenza di amore e atto sessuale emerge miracolosamente una terza persona (piano ontologico, o fenomenologico); (2) deduco che Dio attribuisca a questa realtà un valore immenso, quindi che l’amore eterosessuale procreativo sia l’unico lecito (piano normativo, o morale); (3) confermo questa supposizione con l’eterosimbolismo biblico. Il punto (2) è il cardine su cui ruota la ricerca di un significato teologico (e metafisico) della differenza maschile-femminile, e quindi della complementarietà uomo-donna e di tutta la simbologia che a essa si appoggia.
Sono passaggi “convincenti”, se non si tiene conto di tutti gli aspetti che abbiamo già elencato. Ma l’argomentazione qui ha una sua specificità. Il passaggio dal piano ontologico al piano normativo-morale dipende fortemente dalla nozione di mistero, cioè dall’idea che Dio attribuisca all’unione maschio-femmina un posto speciale nell’economia della salvezza. Dal testo sacro e dal mondo attuale acquisiamo che l’amore tra uomo e donna è positivo e fondamentale, almeno nella condizione creata. Da cui deriva la percezione del mistero dell’imperscrutabile volontà divina di crearci in questo modo (sessuati ed etero-amanti). Lo slittamento dall’ontologico al normativo è reso dunque possibile dall’idea inconscia per cui un mistero sia anche un destino (un progetto di Dio su qualcosa).
Non accettare questo destino – cioè attuare una sessualità diversa da quella eterosessuale riproduttiva – significa negare il mistero nuziale, quindi negare una presunta “volontà divina”. Se il peccato è proprio la ribellione alla volontà di Dio, infrangere certe leggi naturali (volute da Dio, nelle quali si manifesta la sua volontà) è ovviamente uno dei peggiori peccati. Ancor più se va contro l’eterosimbolismo biblico. Di qui la gravità che è stata sempre attribuita al peccato di sodomia, che pervertirebbe il supposto “mistero-disegno”.
Sintetizzo: la persona omosessuale che vive la sua relazione d’amore sarebbe rea di opporsi a un destino (il mistero nuziale che Dio vuole per tutti, cioè il progetto di Dio sulla sessualità) che, paradossalmente, non sembra essere il suo. Ovviamente, considerare il mistero nuziale come un destino all’eterosessualità riproduttiva, e considerare ogni azione che non attui compiutamente quel destino (progetto) come una negazione del mistero (progetto), crea dei cortocircuiti teologici, soprattutto riguardo la scelta di vivere la sessualità in forma celibataria[12].
A parte questo, avrete intuito che c’è qualcosa che non torna in quanto detto: se scopro che esistono le pesche oltre alle albicocche, e affermo che anche le prime sono gustose e buone, non sto negando che le seconde siano un ottimo frutto. Sto solo costatando che ne esistono altri, e quindi nego l’idea che vi sia un solo frutto, e che ve ne sia uno solo di buono. Questo, lungi da essere un attacco alle albicocche, è solo la constatazione dell’esistenza di una realtà più ricca di quella che conoscevo prima. Devo un po’ allargare il mistero, quindi, ritenendo misteriosa non solo l’esistenza delle albicocche, ma l’esistenza – insieme – di albicocche e pesche, entrambe buone. Ci sarebbero reali problemi speculativi solo se l’esistenza delle albicocche contraddicesse quella delle pesche, ma non mi sembra questo il caso.
La coppia omosessuale non è dunque una negazione simbolica. Seguire un ordine proprio non significa negare un ordine generale, bensì riconoscere che in certi casi vi sono fattori che determinano un ordine diverso. Forse il progetto-destino di Dio sulla sessualità umana è un po’ più ampio di quel che crediamo.
Non sappiamo perché nel mondo siamo maschi e femmine, etero e omo (e bisessuali, intersessuali, e transessuali), neri e bianchi, con migliaia di lingue diverse, con così tante specie animali… Il disegno di Dio su tanta diversità rimane un mistero. Anche se la Bibbia descrive principalmente l’amore uomo-donna, il cristianesimo può riconoscere al suo interno – come ha già fatto per verginità e celibato – forme di vita cristiana ugualmente degne e feconde per il singolo e per la comunità, in linea con la natura incarnata e la vocazione specifica di ciascuno.
Non si tratta, neanche in questo caso, di gettare alle ortiche tutta la speculazione sul significato teologico del maschile e del femminile, o del mistero nuziale. C’è molto di vero, prezioso e autenticamente cristiano in essa. Si tratta però di non trasformarla in una semplificazione escludente, incapace di rendere conto dell’intera realtà umana, nelle sue naturali declinazioni. Come nel caso della dottrina della legge morale naturale, anche per il mistero nuziale va compiuta un’opera di purificazione: tenere ciò che buono, senza spegnere lo Spirito (1 Ts 5, 19-21)[13].
Però, se mi è concesso, tra due misteri (quello nuziale e quello della sessualità in generale) accetterò quello che, a parità di ragionevolezza, permetta al maggior numero di persone di fiorire. Preferisco dunque accettare che misteriosamente Dio abbia predisposto l’esistenza di diversi orientamenti sessuali, con percentuali variabili nella storia, all’interno di un dimorfismo prevalente. Mi sembra una sospensione del giudizio più che legittima, nella complessità dei dati di cui oggi disponiamo.
La domanda da porsi è perché ci innamoriamo in modi così diversi, chi per l’altro sesso, chi per il sesso opposto, chi per entrambi. Perché a partire da corpi simili ci comportiamo, affettivamente, in modi tanto diversi? Perché alcuni decidono di rinunciare alla sessualità, per un’affettività, un desiderio, che si rivolge all’Infinito-Dio?
Perché tutti gli altri esseri umani, invece, si “accontentano”[14] di relazioni con il finito che è l’altro da me? Chi si sta sbagliando? Oppure sono entrambi nel giusto? La relazione affettiva con l’altro, mi porta verso l’Infinito? E allora perché alcune persone – i celibi – non sanno scorgere nel desiderio sessuale questo rimando all’Infinito-Dio, e preferiscono rinunciarvi, per un rapporto diretto con l’Infinito-Dio?[15] Di nuovo: perché tanta ricchezza nella creazione?
Riguardo a queste domande, ho cercato di avviare un lavoro (Fenomenologia dei desideri sessuali[16]), del tutto esplorativo, al quale potete contribuire coi vostri commenti.
Del resto, spesse volte, nella storia, la Chiesa ha spacciato per “volontà divine”, “disegno di Dio”, delle verità umane, troppo umane; e diciamocelo, non ci ha fatto una bella figura. Per amore della Chiesa, dunque, abbiamo il dovere di esprimere le nostre perplessità, con dolcezza, serenità e fermezza; per evitare che ricorra con troppa facilità a idee che non tengono conto della realtà, per richiamare un motto di Papa Francesco[17]. Nel nostro libro abbiamo cercato di fare questo, con questo stile.
Certo, il rimando a un mistero – frequente nella teologia cattolica – può essere tacciato, dai più rigoristi e razionalisti, d’essere oscuro e irrazionale. E in parte lo è. Tuttavia, mi preme sottolineare che esso parte da costatazioni scientifiche e speculazioni razionali, e pertanto si pone a coronamento (proprio come tutti i misteri divini) di un percorso di ragione. Non c’è dubbio tuttavia che una prospettiva di senso complessiva, nella quale trovino posto i poli dell’esaltazione (biblica e funzionale) dell’unione uomo-donna e il rispetto della positività delle minoranze sessuali – non è ancora stata formulata in modo soddisfacente. È vero, d’altro canto, che in attesa di questa visione d’insieme, esistono problemi urgenti da risolvere: è importante offrire alle persone omosessuali un percorso di vita (anche di coppia) cristiana realistico, conforme al bene possibile raggiungibile nella condizione data. Il bene possibile non è in conflitto con l’idea di perfezione, anch’essa intrinseca alla morale cristiana: ogni stato di vita, infatti, ha una sua perfezione che corrisponde proprio al suo bene possibile. Il sacerdote celibe, la consacrata, la coppia eterosex, la coppia omosex sono chiamati alle perfezioni possibili conformi ai loro stati di vita, definibili secondo criteri ragionevoli. Certo, nessuno è obbligato a seguire le sue inclinazioni, ma se esse non sono nocive (né a sé né agli altri) e se sono vissute nella temperanza, a nessuno può essere impedito di viverle, nell’ordine che la pienezza cristiana attribuisce loro.
Alla persona omosessuale non è chiesta la perfezione che è chiesta all’eterosessuale, nel senso che alla sua vita di coppia non è chiesta la procreatività biologica (potenziale, nell’atto sessuale); così come non gli è richiesta la perfezione della vita celibataria d’astinenza completa, giacché questa è legata a una vocazione specifica; una perfezione possibile per la persona omosessuale è quella di vivere il suo amore per un’altra persona nell’intimità conseguente alla natura individuale che si trova a incarnare.
La teologia può muoversi in tale direzione, chiamando a favore di una prassi nuova l’incertezza dottrinale e il bene supremo delle persone di cui s’intende prendersi cura: dove c’è un amore sufficientemente evidente, un prendersi cura che umanizza anche attraverso l’intimità sessuale, abbiamo gli elementi per considerarlo come un amore pienamente cristiano.
III. Parte terza
E con quest’ultima riflessione posso passare alla terza parte del libro, quella pastorale. […]
* Damiano Migliorini si è specializzato in filosofia e in scienze religiose a Padova ed è ora dottorando in Scienze Umane a Verona; si occupa principalmente di filosofia analitica della religione, teologia trinitaria e tematiche legate al pensiero di genere. Ha pubblicato libri e articoli in importanti riviste nazionali e internazionali. E autore con Beatrice Brogliato di L’ amore omosessuale. Saggi di psicoanalisi, teologia e pastorale. In dialogo per una nuova sintesi (Cittadella, 2014); di Lettere di un giovane, ai giovani. La fede nell’età delle domande tra fascino e follia (editrice PM, 2017); e di Gender, filosofie, teologie. Introduzione alla complessità dei fondamenti: contro ogni ideologia (Mimesis, 2018).
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[1] https://www.libreriauniversitaria.it/gender-filosofie-teologie-introduzione-complessita/libro/9788857544410
[2] https://www.libreriauniversitaria.it/sguardi-genere-voci-dialogo-mimesis/libro/9788857544342
[3] J. Maritain, Nove lezioni sulle prime nozioni della filosofia morale, Vita e Pensiero, 1979, pp. 93-116 in particolare.
[4] In molti rifiuterebbero questa espressione (e la sua conversa: “corpo spiritualizzato”), perché di stampo dualista. Sicuramente sarebbe preferibile un termine che riesca a esprimere meglio l’unità di corpo e spirito (la parola “corpo” secondo alcuni è già di per sé sufficiente) ma, senza perderci in questa diatriba, manteniamo “spirito incarnato” per la sua intuitività.
[5] Si veda la nozione di complementarietà olistica di Salzman e Lawler (The Sexual Person, Georgetown Univ. Press, 2008).
[6] La quale sembra prevedere, per l’umanità nel suo insieme, una prevalenza di dimorfismo ed eterosessualità (o almeno bisessualità).
[7] Prendo liberamente spunto da: D. Bondi, Persone divine, persona umana. Appunti e spunti per un personalismo trinitario, in Reportata (2009), https://mondodomani.org/teologia/bondi2011.htm : «Anche se “l’atto costituisce il particolare momento in cui la persona si rivela” (come scrive Karol Wojtyła), tale rivelazione non è mai del tutto immediata e pacifica. La persona non è i suoi atti, eppure è attraverso gli atti che sappiamo che essa è. Avviene cioè con la persona qualcosa di analogo a quanto avviene nel Genesi circa la libertà umana. Il peccato originale non fonda la libertà, giacché il primo divieto divino non avrebbe avuto senso se l’uomo non fosse stato libero di violarlo, eppure è attraverso l’atto del peccato che l’uomo si conosce come essere libero. Libero, notiamolo, non dalla legge di Dio, ma dalla legge di natura. Libero di agire, cioè, non più soltanto secondo cause meccaniche efficienti, ma secondo cause finali. […] È proprio in considerazione di questa libertà umana di agire personalmente e teleologicamente, del resto, che ha senso parlare di morale e di peccato: la morale, come una bussola, orienta le azioni dell’uomo verso uno o più fini specifici, ma non le determina causalmente. […] [È] solo quando l’uomo agisce che si conosce come già libero: perciò, è solo quando l’uomo agisce che si conosce in quanto persona. E poiché ogni autentico atto è sempre orientato verso un telos, ecco che la persona stessa, nel suo manifestarsi, testimonia di una tensione perenne tra il già e il non ancora, tra il suo essere e il suo divenire: agendo, la persona si rivela e al contempo si fa. “L’uomo supera infinitamente l’uomo”, scriveva Pascal».
[8] A. Oliva, L’amicizia più grande, Nerbini 2015.
[9] Di qui il riconoscimento di sole due alternative: l’atto sessuale potenzialmente aperto alla procreazione (con forma generativa) o il celibato. Altre alternative non sono contemplate a causa del pregiudizio neoplatonico per cui il piacere sessuale o è giustificato dalla procreazione (quindi “tollerato”), o è qualcosa da evitare. Oggi, però, nella teologia cattolica il piacere è visto in modo più positivo, e quindi alcune alternative non sono più precluse.
[10] Si veda Amoris Laetitia, nn. 10-12.
[11] D. Migliorini, È possibile una teologia del genere?, in P. Rigliano (ed.), Sguardi sul genere, Mimesis 2018.
[12] Paradossalmente, proprio la legittimità di un comportamento apparentemente “contro natura” come il celibato sacerdotale, indica che va colta e considerata la natura specifica dell’uomo (razionale e relazionale, nonché aperta al desiderio dell’Infinito Trascendente), la quale dà vita a possibilità “altre” rispetto alla pura legalità biologico-funzionale.
[13] Rimando ancora al testo È possibile una teologia del genere? (cit.), dove ho esaminato più accuratamente queste questioni.
[14] Sia chiaro che le virgolette indicano proprio un uso retorico del termine: la visione per cui il matrimonio era un “accontentarsi” era propria di una teologia che opponeva il matrimonio alla verginità (o al celibato), sempre sulla linea di un pregiudizio nei confronti della corporeità. Una visione superata, per fortuna: oggi il matrimonio e la vita consacrata sono forme di vita cristiana con la stessa dignità; amando “l’infinito altro da me” che è ogni altra persona, amo Dio esattamente come una persona consacrata dedica il suo amore a Dio (attraverso il servizio ai fratelli o la contemplazione).
[15] Ri-sottolineo la funzione retorica di queste domande, che servono solo a mostrare a quali assurde opposizioni portano certi modelli escludenti di ragionamento.
[16] Reperibile qui: https://www.academia.edu/34992827/Fenomenologia_dei_desideri_sessuali
[17] Papa Francesco, Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, nn. 231-233.