Ricordando Matthew Shepard: incontrare la solidarietà, contrastare l’isolamento
Articolo di Di Alfred Pang* pubblicato sul blog Bondings 2.0, blog dell’associazione cattolica New Ways Ministry (Stati Uniti), il 12 ottobre 2016, libera traduzione di Silvia Lanzi
Circa un anno fa, mentre andavo a messa, ho fatto esperienza di una micro-aggressione. È stato durante un’omelia che ha parlato dell’insegnamento del magistero su contraccezione, divorzio e matrimonio gay. Ha completamente cancellato la complessità di ogni argomento. Certamente c’era la tipica dimensione della naturale complementarietà di uomo e donna, come designati biologicamente da Dio. Questo tipo di predicazione non mi era nuovo, ma, fino ad allora, ero stato capace di chiuderle fuori, rendendomi sordo a quel che si stava dicendo e pensando, con molta generosità, che certi predicatori non sapessero fare di meglio.
In quella particolare occasione non sono stato in grado di farlo. Invece, mi sono semplicemente fermato. Come uomo cattolico gay mi sentivo annullato dalla Chiesa che amavo. Ero arrabbiato dal fatto che avesse omesso i frutti dell’amore omosessuale. Mi sono sentito isolato e ridotto al silenzio, tra i cocci di una Chiesa nella quale serpeggia un’omofobia non riconosciuta. Mi sono semplicemente lasciato andare. Tale è il potere delle micro-aggressioni, la cui tossicità cumulativa, all’insaputa di chi offende, logora le nostre anime e i nostri corpi e ci rende invisibili.
Quel che mi ha aiutato nella mia ‘guarigione’ è stato ricordare la storia di Matthew Shepard, lo studente di un college che venne brutamente picchiato, legato ad una palizzata, alla periferia di Laramie, nel Wyoming, e lasciato lì a morire in una fredda sera di ottobre del 1998. Ricordo in particolar modo la dichiarazione di Dennis Shepard (il padre di Matthew) alla corte, durante il processo ai suoi assassini. Queste parole mi confortano:
“Verso la fine del pestaggio, il suo corpo cercava solo di sopravvivere. L’avete lasciato lì da solo, ma non era solo. C’erano con lui i suoi amici di una vita – amici che erano cresciuti con lui. Probabilmente vi starete domandando chi fossero. In primo luogo c’era un meraviglioso cielo notturno, con le stesse stelle e la stessa luna, che avevamo l’abitudine di guardare con il telescopio. Poi ha avuto la luce del sole che splendeva ancora una volta su di lui – un altro meraviglioso e freddo giorno autunnale del Wyoming.
L’ultimo giorno della sua vita, nel Wyoming, lo Stato che era orgoglioso di chiamare ‘casa’. E, oltre a questo, sentiva per l’ultima volta l’odore della saggina del Wyoming, e il profumo dei pini che sapevano già di neve. Sentiva il vento – l’onnipresente vento del Wyoming – per l’ultima volta. Aveva un altro amico con lui. Uno che aveva conosciuto crescendo, durante le ore di catechismo e come chirichetto di St. Mark a Casper, e anche mentre frequentava St. Matthew a Laramie. Aveva Dio”.
L’assicurazione che Dio è con me mi dà molta consolazione. La presenza di Dio rimane nella nostra vita non nonostante, ma in mezzo alla perdita e alla morte. La descrizione di Dennis Shepard della presenza di Dio nel creato e, come Creatore, l’abbraccio di Matthew nel suo grembo di vita, è potentemente evocativo. Dio deve essersi afflitto. E, nelle nostre pene, Dio si affligge con noi. Noi possediamo Dio perché lui per primo ci ama. “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. (1 Giovanni 4:16).
Durante la mia ‘guarigione’, ho capito che Dio non è presente semplicemente per rimettere insieme i cocci della mia vita. Dio non fa lavori di patchwork! L’invito che Dio ci fa ogni giorno di riconciliarci in Cristo, non significa solamente essere persone che aggiustano le cose. Piuttosto, Dio ci ricrea nuovamente e ci chiama ad aiutarlo nell’opera di trasformazione del mondo in forza della nostra pienezza in Cristo che unisce in sé tutte le cose. Le parole del signor Shepard mi hanno ricordato che il dolore che ho provato non è solamente mio, ma è condiviso dall’interconnessione delle vite di ognuno che sono sostenute dall’unico respiro divino di Dio che fa esistere la creazione.
Credo che questo riconoscimento dell’inter-connessione delle nostre vite, si basi sulla decisione dei genitori di Matthew di non fare pressione per la pena di morte contro Aaron McKinney e Russell Henderson, i due giovani responsabili del suo feroce assassinio. È anche l’attenzione all’unicità di Dio che si riflette nella diversità che li ha spinti a creare la Matthew Shepard Foundation appena qualche mese dopo la morte del loro figlio. Grazie alla testimonianza dei genitori di Matthew pian piano ho trovato speranza e guarigione interiore.
Oggi commemoriamo il diciottesimo anniversario della morte di Matthew, e sono sconvolto dal fatto che, se fosse vivo, avrebbe la mia stessa età. E oggi so che lui è vivo quando ricordiamo la realtà della violenza contro i giovani per la loro identità/espressione di genere e per il loro orientamento sessuale. Certamente l’odio resiste. Oltre alla violenza fisica, la storia di Matthew racconta la violenza dell’isolamento, causata dalle micro-aggressioni sperimentate di continuo nelle nostre famiglie, nelle scuole, nelle chiese e nelle comunità. Più che un problema di ingiusta discriminazione ogni esempio di qualcuno rimosso dal suo incarico religioso o di un altro insegnante licenziato dalla scuola cattolica, alimenta questa cultura d’isolamento, lasciando le persone con la sensazione di essere abbandonate, specialmente quelle che stanno lottando con la loro esperienza di emarginazione sessuale.
Nel Vangelo di oggi, sentiamo Gesù parlare ai “maestri della legge”: “Guai a voi maestri della legge! Perché mettete sulle spalle della gente dei pesi troppo faticosi da portare, ma voi neppure con un dito aiutate a portarli” (Luca 11:46).
Le parole di Gesù sono particolarmente commoventi alla luce del nostro ricordo di Matthew. Le parole di Gesù devono farci interrogare non solo sul nostro modo di intendere la giustizia, ma anche sulla nostra complicità nel far diventare la ricca apertura di Dio della tradizione cristiana una bara sigillata per le persone LGBT e per le loro famiglie. Insieme con Cristo crocifisso, lasciamoci commuovere dalla morte di Matthew, per piangere la continua perdita di giovani vite LGBT a causa dell’angoscia provata nell’isolamento.
Ma, lasciamoci provocare anche dal fatto che la morte non ha l’ultima parola. La perdurante presenza di Dio come vita, ci chiami a resistere alla disumanizzazione riconoscendo per prima cosa che la violenza in ogni sua forma non è mai meritata. Invece, noi meritiamo di essere amati come persone create ad immagine e somiglianza di Dio. Noi non siamo persone ‘danneggiate’. Le uniche cose che danneggiano le relazioni sono sistemi intersecantisi di dominazione dati da omofobia, eterosessismo, razzismo e classismo.
Non aspettate troppo a dire che siete orgogliosi di loro. Questo è il ‘coming-out’ di cui abbiamo tutti bisogno per rovesciare lentamente ma inesorabilmente questa cultura di isolamento che mina l’esistenza. Le nostre famiglie sono i primi spazi che hanno bisogno di uscire dall’isolamento. Ed essere trasformate in luoghi dove si condividono benedizioni e perdite, e dove le nostre gioie e le nostre pene, le nostre sofferenze e le nostre speranze sono abbracciate tutte come fossero una cosa sola, con l’impegno di perdonare, servire e dare testimonianza, il tutto nella vita divina di Dio.
Qualunque cosa in meno di questa può solo significare che la morte di Matthew e di tanti altri giovani LGBT sono state vane, e il nostro ricordo non significa nulla.
*Il post di oggi è stato scritto dal blogger Alfred Pang, un dottorando di ricerca in teologia ed educazione al Boston College.
Testo originale: Remembering Matthew Shepard: Encountering Solidarity, Countering Isolation