Rifiutare l’indifferenza. Il giuramento e il numero sette
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*
Terzo Comandamento: “Non pronunzierai il Nome dell’Eterno, tuo Dio, invano…” (Es 20, 7) Parte seconda
Se si risale al testo originale ebraico, questa Parola si può tradurre così: “Non porterai il nome di Dio invano”. Per i maestri del Talmud significa anche “non farai falsi giuramenti”, poiché l’espressione “portare il nome” significa “giurare”. Giurare significa inserire la parola nel tempo e il tempo nella parola. Un giuramento è legato a una promessa che ci proietta verso il futuro, verso una realizzazione che avverrà. La radice del termine per dire “fare un giuramento” o “giurare” può darci qualche indicazione. Essa si compone di tre lettere shin, bet e ayin. Se cerchiamo il passo della Bibbia ove il termine ricorre, per la prima volta, ci imbattiamo in Genesi 21,23. Il contesto è il seguente: Abramo è giunto nel territorio di Abimelech. Quest’ultimo mandò a prendere Sara e Abramo gli disse che era sua sorella. Abimelech non la tocca. In sogno, Dio chiede al re di restituire Sara ad Abramo, cosa che fece. In seguito, Sara, che fino a quel momento era sterile, divenne feconda e partorì Isacco.
Il nome Abimelech contiene sia la parola “padre” che la parola “re”. Quando Sara esce dalla casa del re, si può dire che lascia un “padre” e trova un marito, Abramo, che ha la strana abitudine di farla passare per sua sorella e non per la moglie. D’altra parte, il re, che ha visto respingere la prima moglie e esiliare la seconda insieme al figlio Ismaele nel deserto, pensa che Abramo sarebbe capace di fare la medesima cosa con suoi discendenti e con lui. Così si preoccupa di farlo giurare di predisporre per il futuro e di farlo con un giuramento solenne. “Promettimi che il bene che ti ho fatto, lo farai ai miei discendenti”, questo dice Abimelech. Per rimarcare il proprio impegno, Abramo mette in disparte sette agnelle. A uno stupito re, Abramo afferma: “Queste sette agnelle, che ti regalo, saranno la testimonianza che ho scavato questo pozzo”. Pozzo che “il padre di molti” solennemente aveva rivendicato.
Bizzarra procedura: in che modo sette agnelle possono essere la testimonianza di un giuramento? Forse, ciò potrebbe essere compreso se siamo a conoscenza che il verbo “giurare” e il numero sette hanno, in ebraico, ha la medesima radice: shin, beth, ayin. In altre parole, Abramo dichiara: “Pongo il mio essere, la mia promessa, sotto l’autorità del numero sette”. Non c’è giustizia senza la capacità di mantenere le promesse: il giuramento fonda la giustizia ed è posto sotto l’autorità del numero sette, shevah, che rinvia, anche, alla parola shabbat, il settimo giorno. Il testo biblico moltiplica i giochi di parole, poiché il luogo in cui tutto ciò accade si chiama Beer-Shevah (Bersabea), un nome che si può tradurre con “il pozzo del giuramento”. Se il comandamento “non pronuncerai il nome di Dio invano”, può essere inteso come “non giurerai invano, non farai falsi giuramenti”, ciò vuol dire che si tratta di essere capaci di mantenere le promesse, d’impegnarsi per il futuro, di fare progetti e realizzarli. Questo significa dare un senso alla vita, ossia entrare in ciò che noi definiamo etica.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità Charles de Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.