Riscoprendo una festa del Sacro Cuore queer
Riflessioni di Piotr
Un prete della mia diocesi notava che forse non è una coincidenza che giugno sia il mese della Pentecoste, del Sacro Cuore, della santificazione dei preti, e… del Pride.
Suonerà decisamente ardito ma, proprio come il Pride, anche la devozione al Sacro Cuore fu osteggiata da alcune correnti “rigide” della Chiesa.
Nel XVII secolo il Sacro Cuore veniva guardato con grande sospetto – come una “stravagante novità” – dall’ala giansenista e domenicana, mentre invece era sostenuta dai gesuiti, anch’essi intellettuali ma più attenti a ciò che si muove nel mondo e a sostenere ovunque il bene possibile.
In quel caso furono le rivelazioni private ricevute da Santa Margherita Maria Alacoque (1647-1690) a fondare l’adorazione del Sacro Cuore, già intuita dalla mistica tedesca del XIII secolo delle Beghine e promossa da Giovanni Eudes (1601-1680) in funzione antigiansenista. Benché le consorelle e le autorità religiose non le credessero, le rivelazioni private della Alacoque – quindi vincolanti solo per chi le riceve – furono avvalorate dal gesuita Claude de la Colombière, sua guida spirituale. Non è forse un caso che i gesuiti siano molto più propensi dei domenicani italiani (in altri paesi è diverso) alla pastorale LGBT+…
Non me ne vogliano le amiche domenicane di Firenze, che invece sono superfriendly. Ma il domenicano Benedetto Solari, ultimo vescovo di Noli (dal 1778 al 1814), aderì al Sinodo di Pistoia (1786) che negli art. 61 e 62 condannava la devozione al Sacro Cuore. Era considerata idolatrica, in quanto rivolta più a una parte sezionata del corpo carnale di Gesù che non alla sua divinità, e nestoriana, perché avrebbe diviso la persona umana di Gesù da quella divina di Cristo.
La “nuda carne” adorata sarebbe una “cardiolatria”, un culto alla sua parte umana creata, anziché intendere il cuore come semplice simbolo dell’amore divino increato; i devoti infatti insistevano sul fatto che fosse un cuore anatomico, reale, e non solamente simbolico. Del resto a Genova c’erano le reliquie del sacro prepuzio, e pure quella devozione fu condannata…
I papi successivi respinsero le tesi pistoiesi, però precisarono che la devozione popolare deve essere comunque rivolta a tutta l’unica Persona del Verbo divino incarnato. L’umanità di Cristo per la sua umana santità merita venerazione (dulia), ma la sua divinità presente che ha pulsato in quel cuore merita adorazione (latria), come già il domenicano San Tommaso precisava.
La devozione al Sacro Cuore aiutava la Chiesa a riscoprire la mitezza di Dio, contro le severe rappresentazioni precedenti, e pertanto ad assumere la sua stessa mitezza, accoglienza, inclusività. Venendo all’oggi, uno dei maggiori teologi italiani ha detto che «l’arcobaleno, con la sua diversità di colori, è simbolo della stagione dell’umanità che stiamo vivendo».
Mi piace allora immaginare come nel Sacro Cuore di Gesù Gesù si raccolga ogni arcobaleno, ogni diversa sensibilità, ogni Pride: ogni orgoglio. Beninteso, dice il gesuita James Martin: mai orgoglio quale arroganza e vizio capitale, bensì amare umilmente quel che siamo, con gratitudine per essere come Dio ci ha creati (es. “orgogliosi di essere cristiani”), consapevoli della dignità della nostra condizione umana. Siamo degni di essere amati nelle nostre diverse identità, anche affettive e sessuali, volute dal Creatore…
«Siamo tutti diversi!», ci ricorda suor Teresa Forcades. Perché «odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi.
Ma se in noi fosse morto ogni “orgoglio”, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente sé stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo» (George Bernanos, Diario di un curato di campagna).