Ritorno a Beirut. Il Libano raccontato da un arabo queer
Testo di Saleem Haddad* tratto dal libro This Arab Is Queer: An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers (Questo arabo è queer: un’antologia di scrittori arabi LGBTQ+)**, curato da Elias Jahshan, editore Saqi Books (Gran Bretagna), 2022. Liberamente tradotto dai volontari del Progetto Gionata.
Il mio volo atterra a Beirut poco prima dell’alba. All’immigrazione, un giovane ufficiale con una mascherina chirurgica sotto il mento timbra il mio passaporto e mi fa cenno di passare. Mio padre mi aspetta nella hall degli arrivi. Il sole non è ancora sorto e la città è avvolta nell’oscurità. Le strade sono silenziose mentre guidiamo attraverso le vie buie verso la casa di famiglia ad Achrafieh.
I lampioni non funzionano molto in questi giorni e non ricordo l’ultima volta che lo abbiano fatto. Sono passati diciotto mesi dalla mia ultima visita. Mentre attraversiamo un tunnel, lo faccio notare a mio padre. “Sì. Dal thawra (rivoluzione)”, dice mio padre con un sorriso sardonico, pronunciando la parola thawra in modo femminilizzato per sminuire il movimento, usando un misto di misoginia e politica antirivoluzionaria che sa che mi darà fastidio.
Durante la mia ultima visita, avevamo discusso appassionatamente delle virtù della rivoluzione. Ho deriso il suo cinismo e lui ha alzato gli occhi al cielo per quella che definì la mia “ingenuità occidentale”.
È vero, all’epoca ero preso dal sogno di un futuro possibile, dal desiderio collettivo di qualcosa di nuovo, di liberarmi dalle catene della corruzione e della paura che i signori della guerra avevano instillato per generazioni. Anche se sono abbastanza grande da sapere, da ricordare, che tali azioni collettive raramente si sono tradotte in una vita migliore, all’epoca il mio disperato desiderio di credere nella possibilità di un futuro migliore aveva avuto la meglio su ogni logica e su ogni ragionevolezza.
I miei genitori sono tornati a Beirut nel 2019. Per mio padre, palestinese-libanese, è stato un ritorno a casa, un ritorno atteso da tempo. Aveva lasciato Beirut durante la guerra civile e il suo sogno era sempre stato quello di tornare nella città in cui era nato e cresciuto, quella che aveva plasmato la sua identità e il suo senso di sé. Tutti i suoi precedenti ritorni erano stati temporanei, interrotti dall’instabilità politica e da offerte più redditizie nel Golfo. Questo, invece, sembrava il ritorno definitivo: dopo decenni di lontananza e molteplici spostamenti, mio padre stava tornando a “casa”, o almeno al luogo più vicino a casa per un palestinese in esilio.
Anche io, durante la mia ultima visita, avevo pensato di tornare. Ho lasciato la regione nell’estate del 2006, l’estate in cui Israele ha bombardato il Libano. Subito dopo la fine dei bombardamenti, sono volato a Londra. Credevo di meritare più di quello che avevo a disposizione e più di quello che il mio cognome poteva offrirmi (in un mondo in cui il cognome era la chiave per sbloccare l’accesso e le opportunità).
Quando me ne andai, mi dissi che non sarei tornato senza un passaporto europeo. Non sarei tornato finché non avessi colto tutte le opportunità a mia disposizione, compresa la possibilità di esplorare i miei desideri sessuali al massimo.
Credevo che la mia partenza non fosse una fuga. Mi dissi che la mia decisione di partire era guidata dalla curiosità intellettuale, dal desiderio di esplorazione e avventura, dall’ambizione e forse anche dalla convinzione che stessi in qualche modo ricollegandomi a un senso di cosmopolitismo che apparteneva ai miei antenati. Sarei tornato, mi dicevo, quando fosse stato il momento giusto.
Eppure, dopo quindici anni in Europa, avevo iniziato a sentire un’ambigua solitudine. Questa solitudine era più profonda di un allontanamento da comunità, famiglie, ideologie o partiti politici. Non sarei mai stato davvero di “qui”, lo sapevo, per quanto ci provassi. Né volevo esserlo particolarmente. Ma non ero più nemmeno di “lì”. Più che una distanza dal mondo, mi sentivo estraneo al mio stesso corpo, al mio senso di sé: la mia identità, il mio senso del luogo e persino i miei desideri.
Ora, mentre tornavo in macchina dall’aeroporto, mio padre ha menzionato la thawra e mi ha riportato a quel periodo in cui il mio dolore individuale si dissolveva nella rabbia euforica del collettivo. Se fossimo stati diciotto mesi prima, avrei potuto discutere di nuovo con lui e avremmo potuto dibattere appassionatamente della rivolta come facevamo allora.
Ma luglio 2021 è un periodo molto diverso da ottobre 2019, e ho lasciato correre la provocazione paterna. “Sì, dalla thawra”, rispondo.
Non avevo programmato di stare via così a lungo, ma questi sono tempi estremi. La verità è che, anche dopo tutto – il collasso economico, la pandemia e l’esplosione (del porto di Beirut) – qualcos’altro mi ha tenuto lontano. Ho ritardato un lutto inevitabile. Il mio viaggio a Beirut mi costringerà a confrontarmi con la morte del Libano che conoscevo una volta. Mi costringerà anche a piangere il mio sogno di tornare.
Ho saputo dell’esplosione dell’agosto 2020 mentre ero ad allenarmi in palestra a Lisbona, dove vivo attualmente. Mia madre ha inviato su WhatsApp una serie di fotografie della nostra casa distrutta. Le finestre erano saltate. Ogni superficie era coperta di vetri. I quadri di famiglia erano esplosi dalle cornici. Schizzi di sangue di mio fratello costellavano il pavimento in marmo.
Tra le immagini inviate da mia madre c’era un video in cui camminava per la casa, mostrando l’entità dei danni. Era silenziosa nel video, sotto shock, e potevo sentire le sirene in lontananza. I suoi passi scricchiolavano mentre camminava sul tappeto di vetri.
Sono rimasto al centro della palestra per molto tempo, esaminando le foto e inviando messaggi agli amici. Intorno a me, il mondo continuava come al solito. Un ragazzo mi faceva gli occhi dolci vicino alla panca per gli squat e continuava a guardare nella mia direzione, ignaro del fatto che il mio mondo era cambiato in un attimo. L’addetto alla palestra mi rimproverò per non aver pulito i pesi dopo averli usati.
Pensai se era il caso di lasciare la palestra. Ragionai che non c’era niente che potessi fare da così lontano. Tornai al mio allenamento. Fu solo a metà della mia seconda serie di esercizi che improvvisamente compresi la vera portata dell’esplosione.
Forse uscii dallo shock in cui mi trovavo, oppure l’enclave protettiva in cui avevo trascorso gli ultimi quindici anni per proteggermi da una tragedia senza fine crollò su di me. Lasciai la palestra e tornai a casa.
Era impossibile elaborare il lutto da lontano. In lontananza, il mondo continua normalmente. L’attenzione si spostava alle vacanze, alle riunioni, alle notizie più recenti. Il mio mondo era esploso, ma vivevo in un universo che continuava a girare.
Quando emerse che la causa dell’esplosione era stata la negligenza e la corruzione da parte dei soliti sospetti, il mio dolore si trasformò rapidamente in rabbia. Non era sufficiente che i signori della guerra avessero diviso, derubato e impoverito la popolazione del mio paese. Ora avevano letteralmente fatto saltare in aria la mia città.
Quelle prime settimane mi sembrava di attraversare un guado nel fango. L’ho provato quando ero a Beirut durante la thawra (la rivoluzione) quella sensazione di essere consumato dal momento presente.
Ora, invece di essere consumato dalla speranza collettiva e dalla possibilità di cambiamento, stavo affogando – solo e lontano – nel mio dolore e nella rabbia. L’esplosione, che aveva distrutto parte della città di Beirut, era stata il colpo di grazia per il mio già vago piano di ritorno.
Forse, realizzando il mio improvviso bisogno di nuove radici – poche settimane dopo l’esplosione che aveva devastato la città natale di mio padre, mutilato i miei amici e quasi ucciso la mia famiglia – misi un seme di avocado a metà nell’acqua, in un bicchiere.
Con il tempo, dalle radici sottili che spuntavano dal fondo del seme emerse un piccolo tronco, che divise il seme in due. Ogni giorno controllavo l’alberello, me ne prendevo cura, cambiavo l’acqua, monitoravo la crescita, grattavo delicatamente la muffa che cresceva sulle radici con uno spazzolino da denti vecchio. Il processo divenne una forma di meditazione, un aggrapparsi alla speranza – per quanto piccola – in assenza di speranza.
Durante l’inverno, mentre la pandemia peggiorava e a Lisbona si registravano decine di migliaia di nuovi casi al giorno, iniziai a dedicarmi al giardinaggio. Piantai semi di pomodoro e cetriolo, peperoncini e peperoni di Padrón, basilico e menta. In omaggio alle mie radici palestinesi, superai la mia avversione per i cliché e comprai un ulivo.
Con l’arrivo della primavera, curai le piante, affondai le dita nel terreno ricco. Era un promemoria per accogliere il passare del tempo, per apprezzare i frutti che il tempo può portare. Perché il tempo che passa non è solo perdita, mi ripetevo. Qualcosa si guadagna, anche.
Nell’estate del 2021 era impossibile ignorare la miseria nelle strade di Beirut. File infinite per la benzina, elettricità quasi assente, un numero di senzatetto mai visto prima. Molti dei caffè, ristoranti e bar della mia adolescenza erano esplosi o avevano chiuso, e quelli che erano ancora aperti erano perlopiù vuoti. L’immondizia era ovunque – ormai la norma a Beirut da tempo – ma lo sporco e il fetore nell’afa di mezza estate erano un inferno a parte.
Dalla mia casa a Lisbona, avevo osservato il Libano collassare, e con esso le mie speranze di tornare. Ma seguire le notizie da lontano è una cosa. Ci si assuefa rapidamente a parole come iperinflazione, riserve in dollari, stallo politico, carenza di gas. È tutt’altra cosa vivere i segni tangibili del crollo sulla propria pelle, sentirne il peso, vedere da vicino la stanchezza e il trauma negli occhi dei propri cari.
Ci vuole tempo per abituarsi alle nuove regole: non si deve mai pagare con la carta (il tasso di cambio ufficiale è molto più favorevole alla lira libanese rispetto a quello reale del mercato nero), quindi bisogna portare con sé mazzette di contanti. Camminare di notte per le strade buie con tasche piene di valuta inutile richiede un certo adattamento, ma più di tutto, il collasso sembrava inciso nella psiche degli abitanti della città.
Le persone erano più irritabili del solito, rapide all’ira, apatiche e sospettose. I miei amici e la mia famiglia erano traumatizzati. Molti amici avevano lasciato il paese, e la maggior parte di quelli rimasti aveva abbandonato la città (e i ricordi traumatici ad essa legati) per una vita più tranquilla nei villaggi.
Con la mia famiglia facevamo le solite “cose di famiglia”. Trascorrevamo qualche giorno in spiaggia. Mangiammo nei nostri ristoranti preferiti in montagna, andammo nel nostro posto abituale per il kaak knafeh (dolce arabo con formaggio) e visitammo ciò che restava dei nostri negozi e ristoranti preferiti. Ma l’esperienza aveva un’aura spettrale, come consumare un pasto dentro un cadavere.
“È davvero così grave?” mi chiese un giorno mia madre, dopo un mio commento sulla stranezza della situazione. “Sì”, rispondemmo io e mio fratello all’unisono. “Hai solo perso il senso della prospettiva.”
Nei primi giorni, mia madre mi incoraggiò a fare una passeggiata nelle zone distrutte dall’esplosione al porto dell’anno precedente. “È importante vederlo con i tuoi occhi”, mi disse, come se mi stesse incoraggiando a identificare il corpo di un parente per accettarne la morte. Per la prima settimana del mio viaggio, resistetti.
Alla fine, al settimo o ottavo giorno, dopo continue insistenze di mia madre e anche per sfuggire al taglio dell’elettricità nel tardo pomeriggio (novanta minuti che sembravano mille, nel caldo e nell’umidità più atroci della giornata), decisi di camminare attraverso i quartieri distrutti che un tempo erano i miei luoghi di ritrovo abituali a Beirut, strade un tempo piene di caffè, librerie, bar e negozi.
Il sito dell’esplosione sembrava la prova fisica di un crollo molto più profondo. Cercavo di non fissare la distruzione: non volevo sentirmi un estraneo. Ma ora ero uno straniero, me ne resi conto. Tutto mi sembrava estraneo.
Alzai lo sguardo verso un balcone. Una donna anziana con una sigaretta in bocca, capelli corti tinti di biondo e una vestaglia azzurra, stava curando le rose rosse sul suo terrazzo, e pensai al mio piccolo giardino a casa. Le finestre di vetro della sua casa erano nuove di zecca, un contrasto stridente con il vecchio edificio le cui colonne erano striate di sporcizia.
Più avanti, lungo Mar Mikhaël, noto un’operatrice umanitaria britannica che conosco. Sta guidando un gruppo di stranieri tra le macerie del mio quartiere. Per un attimo penso di fermarmi a salutarla, ma poi esito. Per me è diverso. Qui ci sono ricordi, famiglie, amici, vite ridotte in polvere. Per loro è un’esperienza da raccontare, un frammento da aggiungere alle conversazioni dei loro cocktail party a Parigi, Ginevra, Brooklyn.
Per me è la mia vita, o almeno lo era. Il mondo che ho lasciato dietro di me non esiste più. Gli amici con cui sono cresciuto, con cui giocavo nei cortili della scuola e bevevo nei bar all’inizio dei miei vent’anni, sono sparpagliati per il mondo come coriandoli. Chi è rimasto, compresa la mia famiglia, porta addosso cicatrici profonde.
Ricostruire non significa solo tornare, significa dover rifare tutto da capo. Dovrei riportare indietro tutti quelli che se ne sono andati con me, cancellare le rughe d’ansia incise sui volti di chi è rimasto. Ma è impossibile. Non si possono rimettere i coriandoli dentro la scatola.
Scrivo a un amante che vive ancora a Beirut. Mi risponde dopo cinque minuti, mi invita a casa sua. È venerdì sera, ho passato il pomeriggio tra sonnellini e hashish, e mentre cammino dieci minuti nel buio verso il suo appartamento mi sento ancora intontito. Alla porta ci abbracciamo a lungo.
Erano passati diciotto mesi dall’ultima volta che ci siamo visti. Un tentativo di fare sesso online, pochi giorni dopo l’esplosione – lui aveva ancora i punti – non era stato all’altezza dei nostri incontri reali. Ora, di persona, non perdiamo tempo: ci dirigiamo subito verso la camera da letto e, come sempre, è lui a prendere il controllo. Mi spoglia, mi bacia il petto, poi mi morde i capezzoli finché non grido per il dolore e mi tiro indietro. Sorride e sussurra: “Va tutto bene, vieni qui”, e mi attira di nuovo a sé con altri baci.
[…] Più tardi mi lascia le mani libere e si sdraia sul letto. Lo bacio sul collo, sul petto, poi scendo lungo lo stomaco fino alle cosce. Lo guardo. “Puoi adorarmi”, dice, come se mi concedesse un privilegio. “Lo vuoi davvero?” gli chiedo. “Lo vuoi tu”, mi risponde, e ha ragione.
È incredibilmente bello: occhi caldi, capelli lunghi fino alle spalle, un corpo perfetto, grande, muscoloso, con appena un po’ di carne in più a testimoniare che vive bene. Lo guardo, in questa stanza buia, in una città spenta, e mi chiedo se il suo corpo mi sembri così perfetto perché è suo, perché è parte di lui, del suo sorriso timido, del modo in cui è sfrenato a letto ma riservato fuori, del suo equilibrio precario tra desiderio e distanza, della sua capacità di attirarmi senza mai lasciarmi avvicinare troppo.
[…] Ricordo perché ho passato diciotto mesi a desiderarlo, perché ho scritto e pubblicato un intero racconto ispirato a lui. Qualcosa nei suoi occhi, nel suo sorriso, nei suoi polpacci mi ricorda casa. Mi riporta all’infanzia, alle spiagge del Mediterraneo, alle estati calde e umide. È quasi come se fossimo fratelli.
Cosa sto adorando davvero, mi chiedo, mentre premo le labbra contro la pelle morbida delle sue caviglie, poi lungo la pianta dei piedi e tra le dita. È il suo corpo che desidero o qualcosa di più sfuggente, qualcosa di intangibile che ho inconsciamente proiettato sulla sua carne?
Eppure, in questo momento, nonostante tutto ciò che mi è estraneo, mi sento a casa nel mio desiderio. È una sorta di ritorno, un tornare a vivere l’istante, a scriverlo, a dargli luce senza vergogna. È un ritorno a me stesso.
Dopo, mentre siamo sdraiati fianco a fianco, mi chiede: “Da quanto tempo?”
“Quasi due anni”, rispondo.
Scuote la testa: “È successo così tanto”.
[…] Facciamo la doccia. Sono stordito quando mi porge un asciugamano. Parla, ma non lo ascolto. Sono ancora troppo scosso e la mia mente sta cercando di elaborare il fatto che, dopo diciotto mesi, dopo una rivoluzione, un crollo economico e una pandemia, sono finalmente tornato a Beirut. O almeno, a quel che ne resta.
[…] Mi chiede di restare per un drink. Vorrei, ma temo le radici che potrei piantare in questa terra avvelenata, che sembra sterile, incapace di dare frutti. Non so bene cosa mi spaventi di più: la città o lui.
La mattina dopo, lascio Beirut. Il giorno prima (il primo ministro libanese) Hariri si è dimesso, di nuovo, scatenando proteste e blocchi stradali lungo la strada per l’aeroporto.
È la prima volta che torno e non prolungo il mio soggiorno. Me ne vado senza rimpianti, come si lascia un amante tossico a cui ci si è aggrappati troppo a lungo nella speranza che potesse completarti. Ora so che era solo un’illusione.
Nell’aeroporto di Istanbul, affitto una stanza per dormire quattro ore. Mi addormento subito. Sogno che la pianta di avocado che avevo coltivato dopo l’esplosione sia morta. Il sogno è così vivido che lo credo reale. Solo quando rientro nel mio appartamento, vedendo che è cresciuta di altri cinque centimetri, capisco che era solo un brutto sogno.
* Saleem Yacoub Saleem Haddad (in arabo: سليم حداد) è nato nel 1983 ed è uno scrittore, regista e operatore umanitario di origine irachena-tedesca e palestinese-libanese, il cui romanzo d’esordio Guapa è stato pubblicato nel 2016 (in Italia edito col titolo Ultimo giro al Guapa da Edizioni e/o il 21 aprile 2016). Ha contribuito nel 2022 all’antologia This Arab Is Queer: An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers col racconto “Return to Beirut” che racconta il suo ritorno a Beirut e la sua decisione di lasciare per sempre il Libano.
** This Arab Is Queer: An Anthology by LGBTQ+ Arab Writers è una raccolta di saggi e racconti scritti da autori arabi LGBTQ+, curata da Elias Jahshan e pubblicata in Gran Bretragna da Saqi Books nel 2022. L’antologia raccoglie le voci di diciotto scrittori queer di origine araba, offrendo una testimonianza intima e potente delle loro esperienze di vita, tra sfide personali, discriminazione, esilio e ricerca di identità.
Attraverso storie che spaziano dall’autobiografia alla riflessione politica e culturale, gli autori raccontano cosa significhi essere queer in contesti spesso ostili, affrontando temi come il coming out, la famiglia, la migrazione, la religione e il desiderio di appartenenza. Le storie che raccoglie non si limitano a parlare di oppressione e difficoltà, ma celebrano anche la resilienza, l’amore e la libertà di espressione in tutte le sue forme.
Con contributi di scrittori come Saleem Haddad, Randa Jarrar e Zeyn Joukhadar, This Arab Is Queer sfida gli stereotipi e amplia la rappresentazione della diversità sessuale e di genere all’interno del mondo arabo. Una lettura fondamentale per chiunque voglia comprendere le molteplici sfaccettature dell’identità queer nel mondo arabo di oggi.
Testo originale: Return to Beirut