Santa Marina di Bitinia. La memoria riscoperta della santa “travestita”
Articolo di Raffaele Alberto Ventura (scrittore) pubblicato sul quotidiano Domani il 12 agosto 2021, pag.14
«Ogni donna che diventerà maschio entrerà nel regno dei cieli». Sono parole attribuite a Gesù Cristo nel Vangelo apocrifo di Tommaso. E molte, nella tarda antichità, lo presero in parola. Esistono numerose testimonianze di donne mascherate da monaci o di romite cui sparisce il seno in seguito ai lunghi digiuni; sovente s’incoraggiavano le badesse a comandare le proprie truppe come un generale, oppure si lodavano le qualità maschili delle eroine.
È difficile sostenere che si tratti di narrazioni emancipatone, poiché in esse si può vedere all’opera un tentativo di sminuire il femminile e valorizzare il modello maschile; tuttavia simili tracce arcaiche di ” gender trouble” invitano a guardare al nostro vituperato passato con meno pregiudizi. Prima che le esigenze della vita moderna iniziassero a esigere una classificazione dei sentimenti, delle inclinazioni e delle identità individuali in rigide categorie sociali, giuridiche o merceologiche, la diversità sessuale si esprimeva in altri modi, per quanto sofferti, ad esempio nella vita religiosa.
Un desiderio troppo grande poteva essere sfogato in fantasmagoriche macchinazioni teologiche — Dio saprebbe restituire la verginità a una donna che l’ha perduta? — mentre un’attrazione troppo debole per l’altro sesso permetteva di godere appieno dei piaceri segreti della socialità monastica.
L’abito “fa” il monaco
Quanto alle “sante travestite”, si tratta di una realtà più marginale eppure affascinante, ben incarnata dalla figura di santa Marina di Bitinia — oggi ancora una delle protettrici della città di Venezia, che ne custodisce le reliquie e il culto. Il tutto è ben raccontato in un articolo di Cristina Crippa pubblicato nel 2012 sulla rivista specializzata Porphyra. Siamo attorno al quinto secolo in Fenicia, una regione dell’attuale Turchia. Quando la santa era ancora bambina suo padre Eugenio, pio e cristianissimo, rimase tanto sconvolto dalla morte della moglie Teodora che volle ritirarsi in un monastero maschile in Libano. Marina lo seguì, qualcuno dice per sua ferma volontà mentre altri attribuiscono la decisione al padre, ma prima dovette risolvere il problema del suo sesso.
Così si rasò i capelli e nascose ogni segno di femminilità sotto la tunica. Marina prese il nome di Marino, e lo mantenne anche in seguito alla morte del padre adorato. I confratelli la credettero un eunuco, timido e riservato, devoto, pio e cristianissimo. D’altronde come lui aveva rinunciato a essere femmina, loro avevano rinunciato a essere pienamente maschi — si incontravano a metà strada. I peccati che la chiesa condanna hanno una virtù corrispondente, identica solo in apparenza, che li sublima e li esalta: alla lussuria corrisponde l’amore mistico per Cristo, all’androginia dei sodomiti quella dei consacrati. Marina si fece privo di sesso, come gli angeli.
Mai come in questo caso è giusto dire che l’abito “fa” il monaco, pure partendo da un corpo femminile. Poi un giorno il monaco divenne genitore: tecnicamente madre, ma per i suoi confratelli indubitabilmente padre. E quindi peccatore, per giunta accusato di stupro dalla figlia di un oste. Marino non confessò la sua innocenza, non mostrò il suo corpo privo degli attributi della virilità. Per il suo crimine venne scacciato dal monastero e nascosto fuori dalla porta allevò il bambino. Spillò latte dal seno, il monaco Marino. E infine morì, lasciando un corpo femminile a testimonianza postuma della sua innocenza. Miracolosamente si mummificarono le sue spoglie, e Marino-Marina iniziò a compiere prodigi.
Per la sua menzogna infelice, il diavolo aveva reso pazza la figlia dell’oste. Per la sua menzogna felicissima, il Signore rese Marina santa. La seconda guarì la prima, la casta Marina guarì la dissoluta dalla follia, ed ecco già il secondo miracolo. Il figlio divenne monaco, terzo di fila della dinastia: sequenza famigliare rarissima. Ma quanto rara, chi può dirlo? C’è più diversity nella storia della teologia di quanta ne possa concepire la nostra filosofia.
L’arrivo a Venezia
Dopo la morte inizia la storia del suo culto. Il suo corpo giunse a Venezia il 17 luglio 1213, dopo aver riposato da qualche parte nell’attuale Romania, e per scampare ai saraceni essere stata trasferita a Costantinopoli. Da lì Giovanni da Bora, veneziano, corrotti i custodi con preghiere e con soldi, ne aveva rapito un’ultima volta il corpo. Poi lo nascose in una cassa, e l’imbarcò fingendola colma di spezie. Ma la nave si trovò nel mezzo d’una tempesta e la cassa si ruppe, rivelando il contenuto e le carte che lo attestavano. Terrorizzato, l’equipaggio pregò e accese ceri, finché le acque non si calmarono. Il capitano attribuì alla santa la fortuna di avere scampato la morte, invece di attribuirle la sfortuna di averla rischiata.
Perché il nome non poteva mentire: Marina doveva essere la santa del mare, dei marinai e delle repubbliche marinare. Prima che la scienza moderna insegnasse le cause e gli effetti, i giochi di parole facevano emergere le segrete armonie del cosmo. I segni e le somiglianze prescrivevano cure per ogni male: santa Lucia poteva restituire la luce ai ciechi; san Cornelio proteggeva gli animali con le corna, e forse i mariti traditi. Soltanto secoli dopo, alla nostra epoca, santa Marina è divenuta ancora un’altra cosa, ovvero una santa queer, spesso evocata come modello di fluidità ante litteram.
Tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna, santa Marina era un mucchio di ossa con un nome preziosissimo. La mappa del suo culto segue le coste: Calabria, Puglia, Basilicata, Cipro. Da tempo Venezia attendeva le sue reliquie, e per accoglierle aveva adibito una chiesa con oltre un secolo d’anticipo. Là riprese a miracoleggiare. Alla sua influenza si legano le glorie militari della repubblica lagunare, e nel giorno a lei consacrato, il 17 luglio appunto, si ricordano due storiche vittorie contro Padova, nel 1405 e nel 1517. Marina meritò di essere nominata compatrona, e lo rimane oggi assieme a Marco, Teodoro e altri quindici santi. Ma è soltanto una formalità, perché il suo culto appartiene oramai al passato. La sua chiesa è stata chiusa al culto nel 1806 e distrutta nel 1820.
Esiste ancora un campo col suo nome, dove sopravvive un’edicola votiva con una piccola statua in ceramica dipinta, che la rappresenta assieme al figlio adottivo. Forse si voleva impedire alla santa di operare i suoi benefici influssi sulla città: la Repubblica era caduta nel 1797 e l’invasore per neutralizzare definitivamente il suo potere aveva trasformato la chiesa in osteria. Venezia venne come castrata: il segreto della sua gloria militare era stato scoperto e smantellato. In quello che una volta era stato un luogo sacro, Marina divenne la santa dei beoni e dei dissoluti, che oramai erano gli unici a invocarla: «Per santa Marina, una birra!».
II corpo conservato
Abbandonata dai suoi fedeli, tuttora Marina giace vestita da monaco nella chiesa di santa Maria Formosa, assieme alle reliquie di altri santi. Sotto il vestito appare come un corpo femminile di età adulta, di statura minuta; la sua testa ben conservata, congiunta al corpo con un’asse di legno; il naso a rostro, il bacino montato al rovescio, e la dentatura caduta al completo tranne tre molari; lo scheletro privo di un braccio mentre dell’altro conserva una parte. Ma a chi apparteneva davvero quel corpo?
Nessuno può dirlo per certo. Le sante Marina, in numero di cinque, finiscono talvolta per non distinguersi l’una dall’altra, perché le agiografie sono composizioni di memorie, leggende, malintesi. I miracoli si riciclano, e così le iconografie. I nomi si deformano, si sovrappongono, e gli omonimi finiscono per condividere le storie e le devozioni, talvolta persino le ossa. Ci sono abbastanza mani di santa Marina per comporre una dea Kalì, ma almeno una di queste va restituita a un’altra santa Marina, vissuta ad Antiochia. Questa forse tiene in ostaggio una costola di santa Pelagia, e lo sterno di santa Eugenia. Le si mettessero tutte insieme per una buona volta, le loro ossa e le loro storie, le loro vite e le loro morti, le loro braccia mani gambe e crani, si otterrebbe certo qualcosa di enorme, affascinante e sommamente santo, più imponente dei dinosauri.
Nessuno, in tutto questo, si è mai premurato di stabilire se Marina non avrebbe preferito farsi chiamare Marino, se dietro il suo travestimento non ci fosse un sentimento più profondo del semplice desiderio di rinchiudersi in un monastero. Era davvero “travestita” Marina, oppure semplicemente “vestita” da Marino? L’apparente falsificazione è forse, sotto altri aspetti, la realizzazione di una più profonda verità. Quindici secoli più tardi, che ne sappiamo noi? Delle vite dei santi ognuno fa l’uso che meglio crede, adattandole alle urgenze politiche del proprio tempo. E se quasi nessuno più celebra la santa a Venezia per i suoi meriti militari, il suo ” genus transire ” ha trovato dei nuovi estimatori in seno alla cultura Lgbt.
Dagli anni Settanta, storiche come Évelyne Patlagean o Sylvie Steinberg indagano il tema del travestitismo femminile, e sebbene l’anacronismo sia sempre dietro l’angolo le differenze tra un monaco dell’Asia minore e una drag queen saltano all’occhio — è innegabile l’attrattiva che questi modelli storici possono esercitare, sia come archivio iconografico che come contributo a una lettura meno unidimensionale del nostro passato. II presunto predominio della norma è stato in realtà lungamente insidiato dall’esistenza di fenomeni marginali, spesso dimenticati, che si tratta soltanto di riscoprire.
Talvolta invece stanno sotto gli occhi di tutti: non era forse Giovanna d’Arco, una delle più celebri figure medievali, una donna vestita da uomo, impegnata in attività considerate maschili? Nel 2010 a Lille una statua della santa, peraltro mito della destra francese, era stata dipinta di rosa per sollevare la questione della sua ambiguità. Anacronismo contro anacronismo, questa manifestazione e le reazioni che ha suscitato ci mostrano che nel nostro mondo disincantato la memoria dei santi conta ancora qualcosa, e che continuiamo ad avere bisogno di storie da raccontare e icone da celebrare.