Santità e desideri queer dimenticati nel cristianesimo medievale
Articolo di Roland Betancourt* pubblicato sul sito del settimanale Time (Stati Uniti) il 6 ottobre 2020, liberamente tradotto da Nadia DI
Oggigiorno è facile pensare che il desiderio tra persone dello stesso sesso, specialmente tra uomini, sia in contrasto con la storia del cristianesimo. Ci sono molti elementi del cristianesimo conservatore evangelico (dai famigerati picchettaggi della chiesa battista di Westboro, alle lobby religiose che si oppongono ai diritti LGBTQ) che danno l’impressione che la religione si opponga alla comunità LGBTQ.
Tuttavia, la divisione non è così rigida come si potrebbe immaginare. Esistono evidenze storiche che narrano di una ricca tradizione di continuità nella letteratura, nella filosofia e nella cultura, che parte dai tempi più remoti fino alla cristianità medievale, dove l’intimità tra persone dello stesso sesso era libera di manifestarsi.
Lungo tutto il periodo medioevale troviamo esempi di relazioni queer e del ruolo che hanno avuto nel formulare un linguaggio per i cristiani messi al margine e perseguitati. Ci sono vari racconti che testimoniano di come le persone queer, attraverso i secoli e gli spazi religiosi del mondo medievale, hanno raccontato, con un candore sorprendente, storie incentrate sull’intimità e la sessualità tra persone dello stesso sesso, e sono testimonianze importanti, che ci dicono cosa gli autori medievali pensavano in proposito.
Sebbene i rapporti tra persone dello stesso sesso non fossero accettati alla stessa stregua di oggi, da parte della cristianità medievale, non suscitavano però lo sdegno che oggi suscitano all’interno della moderna destra cristiana.
Difficilmente, all’epoca, ci si soffermava sulle pratiche sessuali e intime tra persone dello stesso sesso. I divieti contro i rapporti dello stesso sesso venivano applicati in maniera selettiva, spesso motivati da fattori politici, più che religiosi. Per esempio, nel sesto secolo lo storico dell’imperatore Giustiniano, Procopio, ci dice che l’imperatore promulgò una legge contro le relazioni tra persone dello stesso sesso, così che potesse perseguitare i nemici politici di cui conosceva le vicende sessuali.
Inoltre, nel bacino mediterraneo, troviamo racconti di vite di santi che narrano le storie di individui nati donna, che sono diventati monaci in monasteri maschili. Nella storia di Eugenia, che visse brevemente la sua vita come monaco Eugenios, il santo viene molestato sessualmente da una donna chiamata Melania. Il testo lascia intendere con chiarezza che Melania è attratta dall’apparenza maschile del monaco. Questo racconto è importante, perché dimostra il bisogno di trattare questi monaci come uomini, e di non rivolgersi a loro con in quanto donne. Queste figure, molto ricche e complesse, hanno permesso agli autori medievali di affrontare argomenti difficili come la comunità, il genere sessuale, la sessualità e la devozione.
Siccome gli autori spesso non sapevano come cogliere e interpretare il genere dei loro protagonisti, i racconti ci rivelano come il desiderio sessuale tra uomini si manifestava nelle comunità religiose. In un racconto del quinto secolo il santo Smaragdos, giovane monaco senza barba, arriva in un monastero, dove viene isolato per ordine dell’abate, e messo in una cella separata. L’autore ci dice che fu messo là così che non potesse essere visto dai suoi confratelli, per paura che potesse far invaghire gli altri monaci con la sua bellezza, simile a quella dello smeraldo (smaragdos).
Potremmo supporre che il narratore abbia scritto con così tanta franchezza a proposito del desiderio tra persone dello stesso sesso perché si presumeva che questo monaco, originariamente nato femmina, fosse in qualche modo una donna, ma la familiarità con questi testi, e la sensibilità per le lingue in cui sono stati originariamente scritti, dimostrano una realtà più complessa dietro alla separazione e alla proibizione.
L’abate non si chiede mai come o perché un giovane monaco possa eccitare sessualmente i suoi confratelli, non c’è nessuna preoccupazione o domanda sul suo genere. La consapevolezza del desiderio tra persone dello stesso sesso all’interno dei monasteri è evidente nell’ampia diffusione di racconti simili nei primi autori medievali e cristiani.
Ad esempio, nell’opera sulla vita del fondatore di un monastero palestinese del quinto secolo, Eutimio, scritta da Cirillo di Scitopoli, il monaco raccomanda ai suoi seguaci: “Abbi cura non far passare i fratelli più giovani vicino alla mia stanza, poiché a causa della guerra del nemico le facce femminili non possono trovarsi nei [monasteri]”. E proibizioni di questi tipo contro i “visi femminili” o gli “uomini senza barba” si ritrovano spesso nelle regole della vita monastica. In modo analogo, a metà del settimo secolo nell’opera di Giovanni Climaco La scala del Paradiso l’autore loda i monaci che sono particolarmente attivi nel portare scompiglio tra due monaci che avevano “sviluppato desiderio sessuale l’uno per l’altro”.
Eppure, sebbene il disagio a proposito dell’intimità sessuale crea scompiglio all’interno dei monasteri, il problema è dovuto al fatto che questi uomini sono tenuti al celibato, non che si tratta di maschi. Il fatto di essere sessualmente attivi con lo stesso sesso suscita meno preoccupazione rispetto a quei monaci che sono accusati di avere rapporti con donne fuori dal monastero. Mentre le relazioni tra monaci vanno e vengono, e sono circoscritte all’interno del monastero, le relazioni con le donne spesso portano all’espulsione dalla comunità.
In un esempio sorprendente ed esplicativo, il teologo del settimo secolo Massimo il Confessore riflette su cosa tiene unite le comunità, affermando che sono gli “affetti sensuali” e i “desideri erotici” (erota) a far sì che le creature formino un unico gregge. È grazie a questa “facoltà erotica” che gli animali formano un gregge, attratti inevitabilmente “verso un compagno della stessa specie, come se fossero una cosa sola”. La sua descrizione della convivialità è costruita con un linguaggio di intimità tra simili, che offre ampie metafore in greco per le filiazioni tra uomini nelle comunità monastiche e altri gruppi sociali.
Gli spazi istituzionali che assicuravano l’intimità tra persone dello stesso sesso non erano prerogativa del solo mondo monastico: per esempio, il rito della fratellanza spirituale, o adelphopoiesis (letteralmente, “rendere fratelli”), lega due uomini in una fratellanza spirituale, facendo eco ad alcuni elementi del rito del matrimonio. Il procedimento è considerato dallo storico di Yale John Boswell una “unione tra persone omosessuali”. Ci viene anche detto che questi fratelli spirituali dividevano lo stesso letto e vivevano la loro vita in stretta unione.
Se gli accademici, dopo Boswell, hanno aggiunto tante altre sfumature alla sua tesi iniziale, hanno anche cercato di negare ogni forma di desiderio omoerotico nel rito, ma un manoscritto inedito, contenuto nella Biblioteca Vaticana, racconta una storia molto diversa. In questo manoscritto, che può essere consultato soltanto nella sua lingua originaria (il greco medievale), il Patriarca di Costantinopoli del tredicesimo secolo, Atanasio I, che scrive secoli dopo l’istituzione del rito, lo condanna perché “favorisce l’accoppiamento e la depravazione”.
In questo periodo più tardo vediamo una rinnovata resistenza omofobica al rito, e nella violenza delle parole usate per descriverlo, ci dice molto sul ruolo che poteva giocare per gli uomini che si promettevano l’un l’altro: le parole del Patriarca riconoscono la realtà secondo cui non importa la reale intenzione del rito, esso permette di creare uno spazio per l’intimità sessuale tra uomini. Questo rito fraterno forse ha permesso agli uomini queer della società pre-moderna di avere uno spazio per esistere, molto prima che il termine stesso nascesse, ed è fondamentale nella storia del cristianesimo.
Racconti come questi ci fanno capire come l’intimità sessuale tra uomini esistesse in diversi aspetti della vita religiosa, anche tra monaci. Questi rapporti forse non sempre venivano lodati o accolti, ma non ricevevano l’odio che oggigiorno trovano in certe frange radicali cristiane. Ci sono infatti prove che suggeriscono che nella privacy delle comunità monastiche, e dei riti come l’adelphopoiesis, le persone queer avevano ampio spazio per avere relazioni amorose, ben oltre ciò che gli archivi storici sono stati in grado di conservare.
Le nostre fonti scritte puntano indirettamente il dito sull’esistenza di questi rapporti, ma i racconti di intimità sono solo impronte, scie ora perdute, dimenticate dai resoconti storici. Come storici, il nostro ruolo non è quello di rigurgitare semplicemente quello che è stato scritto, ma di leggere tra le righe, che è il solo modo di disseppellire le realtà di individui le cui vite erano protette da segretezza, o sono state cancellate, spesso di proposito, dalla storia scritta dai posteri.
* Roland Betancourt insegna all’Università della California ad Irvine.
Testo originale: The Overlooked Queer History of Medieval Christianity