Scopriamo Giovedì Queer, la rubrica arcobaleno curata dai giovani evangelici
Dialogo tra Paolo, volontario del Progetto Evangelici, e il gruppo di lavoro della rubrica “Giovedì Queer” della Federazione Giovanile Evangelica in Italia
Da quando ho scoperto la FGEI (Federazione Giovanile in Italia) e il loro progetto “Giovedì Queer“, ho sempre desiderato fare uno scambio di esperienze, di domande e risposte sulla situazione attuale e passata nelle chiese evangeliche, storiche e non solo; condivido con voi lo scambio intercorso in questo dialogo.
Da Evangelico pentecostale, mi sono meravigliato di trovare una rubrica “queer” in una federazione giovanile evangelica. Cosa vi ha portato ad aprire una rubrica e come mai avete deciso di chiamarla “queer”?
Pietro e Giulia: La Federazione Giovanile Evangelica in Italia è storicamente molto attenta alle tematiche di giustizia sociale. Durante il nostro XXI Congresso FGEI abbiamo portato avanti una mozione il cui tema centrale era l’attenzione che, in quanto cristiani e cristiane, siamo chiamati/e ad avere rispetto alla comunità LGBTQIA+.
Pensiamo che sia imperativo dimostrare tanto che esistono cristiane e cristiani LGTBQIA+, quanto che c’è una comunità protestante pronta ad accogliere pienamente le persone queer. Quella mozione è stata approvata… ed eccoci qui! Con il progetto “Il Giovedì Queer” svolgiamo il nostro servizio per la Federazione, e più in generale per le Chiese delle nostre rispettive denominazioni, tramite la produzione e diffusione di materiale informativo e la creazione di iniziative a tema.
Abbiamo scelto il termine “queer” perché ci è sembrato il più inclusivo sia rispetto alle identità interne al gruppo che agli argomenti trattati. Il messaggio che ci preme diffondere e che sta alla base di tutto il nostro lavoro è “c’è qui una comunità pronta ad accoglierti: non c’è nessun conflitto tra il cristianesimo e il fare parte della comunità LGBTQIA+”.
Cosa ha suscitato la notizia di una rubrica così “aperta” nei credenti un po’ più conservatori? A che punto credete sia il cammino delle chiese evangeliche per quanto riguarda le tematiche LGBTQ+?
Irene: Ci è capitato, rarissime volte in verità, di ricevere qualche commento poco gentile da parte di cosiddetti “troll”, dai quali siamo stat* attaccat* per la teologia che seguiamo e per le nostre prassi di accoglienza e rispetto di tutte le identità di genere e gli orientamenti sessuali. A chi è capace solo di attaccare in modo palesemente provocatorio preferiamo non rispondere. Non sappiamo a quale chiesa appartengano le persone che hanno interagito con noi usando questi toni, ma sicuramente non si tratta di persone a cui interessa un dibattito serio sul tema.
Ciò non significa assolutamente che non esista un dissenso interno e un’omofobia latente nelle chiese che noi stess* frequentiamo. Certo, l’iniziativa del Giovedì Queer non ha mai ricevuto aperte critiche negative da parte di membri delle nostre chiese, ma questo è anche dovuto a tanti anni di discussioni, dibattiti, culti ed eventi, a partire dal prezioso lavoro fatto a partire dagli anni Novanta con la Rete Evangelica Fede e Omosessualità, e con tante iniziative che continuano a interessare le nostre chiese, i gruppi giovanili e il dialogo ecumenico. Oggi, dunque, nelle chiese metodiste e valdesi la linea ufficiale è che l’omobitransfobia sia un peccato da riconoscere, soprattutto in noi stess*, e combattere. Questa posizione è condivisa anche dalla maggior parte delle chiese battiste che aderiscono all’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia.
Tuttavia, non possiamo, in tutta onestà, affermare che ci sia un’apertura totale all’intero mondo LGBTQIA+. Oltre al fatto che tra i singoli membri di chiesa le opinioni sono varie e non sempre d’accordo con le affermazioni del Sinodo e della chiesa in generale, c’è ancora molto lavoro da fare nella conoscenza e nell’accoglienza delle persone trans e non binarie. Molti membri di chiesa non saprebbero dire con certezza cosa significhino le singole lettere dell’acronimo LGBTQIA, ad esempio. Nella pratica, è altamente probabile che una comunità accetti serenamente un membro di chiesa omosessuale o una coppia, ma potrebbe fare fatica nel caso di una persona apertamente trans, in particolare se il coming out dovesse avvenire dopo il percorso di fede.
Secondo noi, però, quel che contraddistingue le nostre chiese è un’attitudine allo studio, al pensiero critico e alla conoscenza dell’attualità; con questi strumenti crediamo che sia possibile creare comunità ancora più accoglienti e inclusive, che si impegnino il più possibile a realizzare l’unità a cui Gesù Cristo ci ha chiamat*.
Cosa possiamo fare noi credenti LGBTQ+ per continuare a camminare insieme alle nostre chiese senza sentirci esclusi? Che ruolo possiamo avere nel cambiamento della Chiesa in questa delicata fase di cambiamento?
Emma: La prima cosa che possiamo fare noi attivistɜ per i diritti LGBTQIA+ è continuare a raccontare la nostra esperienza e diffondere le esperienze altrui affinché siano di esempio e/o di conforto per chi si sente ancora esclusə e monito per chi esclude. Per tale motivo questa domanda ci è molto cara e siamo felicɜ di poter rispondere. Nella fede evangelica delle chiese storiche è in larga parte diffuso il messaggio che Dio non è e non può essere rinchiuso nelle mura dell’edificio chiesa e che invece la Chiesa siamo noi fratelli e sorelle in Cristo LGBTQIA+ inclusɜ.
È vero però che purtroppo e troppo spesso anche nelle nostre comunità ci si può sentire esclusɜ o si teme di esserlo, quando ciò accade il nostro consiglio è quello di ricordare sempre a chi esclude e a chi si sente esclusə che la Fede va riposta in Dio e non nella comunità, che Dio ha chiamato ognuno, ognuna, ognunə di noi da prima dell’inizio dei tempi e che fin da allora ci ha amatɜ e accoltɜ nella Sua Grazia. Forti di questo allora, sentendo il calore dell’Amore di Dio su di noi, dobbiamo lavorare affinché anche le nostre comunità siano pronte a manifestare che l’accoglienza proviene solo ed esclusivamente da Dio e che essa, come la Sua Grazia, è gratuita.
Il nostro ruolo deve essere quindi attivo e sempre volto in avanti, ma con una mano tesa verso il fratello o la sorella che la società ha lasciato indietro. Il nostro compito è dunque di lavorare affinché il nostro linguaggio e le nostre parole e i nostri messaggi si allarghino e che accanto ai fratelli gay e alle sorelle lesbiche, che da anni ricordiamo e alle cui lotte dobbiamo tantissimo, non manchino mai i nostri fratelli e le nostre sorelle bisessuali, transessuali, non-binary ed asessuali. Ogni giorno si può imparare qualcosa di nuovo, che siamo alleati o parte della comunità LGBTQIA+, soprattutto in merito al binarismo di genere e agli orientamenti non monosessuali o non sessuali affatto.
Vogliamo quindi chiudere con un paio di suggerimenti:
- usare il linguaggio inclusivo: coniugare al maschile e al femminile tutti i termini o usare sostantivi collettivi;
- usare di vocali neutre come la ə (schwa) per il singolare e ɜ (vocale centrale semiaperta non arrotondata) per il plurale;
- acronimi che cercano di superare il binarismo di genere: aFab (assigned female at birth – genere femminile assegnato alla nascita) e aMab (assigned male at birth -genere maschile assegnato alla nascita) presenta meno binarismo dei termini MtF (male to female – da maschio a femmina) e FtM (female to male – da femmina a maschio) che escludono le persone non binarie, che invece fanno parte dell’ombrello trans.
L’unico ruolo che possiamo avere in questo cambiamento e non fermarci ai piccoli riconoscimenti ottenuti, ma continuare ad allargare gli spazi perché c’è posto per tuttɜ e nessunə deve sentirsi esclusə.