Se il sale diventa stolto (Matteo 5,13)
Articolo di Annamaria Fabri tratto da Castello7, lettera settimanale ai parrocchiani, anno 26°, n.15, del 5 febbraio 2017
“Se il sale diventa stolto” (Matteo 5,13). È questa la traduzione alla lettera della frase che in italiano è stata resa con “se il sale perde il sapore“. Che il sale fra le sue carateristiche non abbia quella di diventare “stolto” lo sapeva certo anche l’autore del vangelo. Se questo è vero c’è da chiederci perché usa questo vocabolo che viene da un verbo (moráino) che in greco significa essere stolto? Del resto anche in italiano diciamo che una persona è “sciocca” cioè senza sale nel cervello. Una persona che non riesce a dare sapore alla sua vita, né a quella degli altri. Il verbo moráino indica così incapacità di giudizio e mancanza di conoscenza.
Nel Nuovo Testamento fanno uso dei vocaboli che derivano dalla radice “mor-” soprattutto l’evangelista Matteo e san Paolo, dando a questi vocaboli un significato prevalentemente religioso. Lo stolto non è colui che è portatore di una tara fisica o mentale, ma chi rifiuta ciò che Dio gli propone. Lo stolto respinge la proposta di Dio e non sa “leggere i tempi”.
Il paradosso del sale che diventa stolto, cosa impossibile, sposta decisamente l’attenzione sui discepoli che, loro sì, possono diventare stolti, cioè rifiutare di comprendere la realtà di Dio e la proposta di Cristo. Tipico esempio di stoltezza, sempre secondo Matteo, sono le vergini stolte (25, 1-13) che trascurano di provvedere ciò che serve per incontrare lo sposo.
In san Paolo poi, come leggiamo in queste domeniche nella prima lettera ai Corinti, la stoltezza si rivela paradossalmente come caratteristica di Dio che rifugge dalla “sapienza” umana che non sa vedere nella croce di Cristo il disegno di Dio.
Per Paolo quindi il vangelo opera un capovolgimento di significati. Ciò che la presuntuosa ideologia dei filosofi gnostici, che san Paolo chiama sapienza umana, che disprezzava la concretezza dell’incarnazione e con essa la predicazione dell’Apostolo, rifiutava come stoltezza, diventa la vera sapienza di Dio (1 Cor. cap.1 e 2).
Il vangelo insiste su questo significato quando mette sulla bocca di Gesù il detto: «Ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli» (Matteo 11,25).
Anche il grande filosofo Tommaso d’Aquino sostiene che la stoltezza, “diversa da quella che si manifesta nell’handicap mentale“, è un grave peccato poiché “inibisce il modo di percepire le realtà di Dio secondo quanto dice san Paolo” (Summa, IIa IIae, q.46 a.2).