Senza chiedere il permesso. Innamorarsi di un amico gay
Riflessioni di Marta*, semplicemente una madre
Ogni volta che passo per quella strada, i ricordi si affollano, e non vedo più il grande salice piangente sul limitare del parcheggio, mentre si inchina all’acqua del fiumiciattolo che vi scorre lì sotto, ma lì vedo Paolo, in piedi, come quella sera, che mi aspetta, un po’ nascosto tra i rami.
Così come il cartello del ristorante dove abbiamo cenato, una sera, mi presenta ogni volta che lo vedo, il conto della memoria. Potessi cancellare quei ricordi, a volte, lo farei volentieri. Ma non si può. Non si cancellano facilmente le memorie del cuore.
Ci vedevamo spesso, in quegli anni. Per lavoro, e per diletto. Quella fu un’estate di grazia. Dopo gli anni duri del fallimento del matrimonio, dopo gli anni in cui avevo stretto i denti per andare avanti, per crescere i bambini, per assicurare a loro due un minimo di stabilità, finalmente avevo la possibilità di essere amata anche io. Di amare e di essere amata. Con dolcezza, con pazienza, con tenerezza. Ecco, era questo che avevo intravisto in quell’uomo che avevo incontrato, conosciuto, ammirato, stimato. E la sua gentilezza, la sua dolce pazienza mi avevano conquistato. Sapevo niente di lui. Niente. E quanto niente sapessi di lui lo avrei scoperto di lì a qualche anno. Anzi. Lui personalmente me lo avrebbe detto. Lui personalmente, altrimenti non ci avrei creduto. Perchè no, non era possibile. Lui no, non poteva essere.
Migliaia di volte abbiamo versato nella stessa coppa fiumi di parole, che erano quasi sempre mie, o su di me. Di se stesso mi raccontava poco. Ma mi dedicava molta attenzione, molto ascolto, molta dolcezza. A ripensarci, adesso, forse lui ci ha anche provato a spiegarmi di se stesso, ma ha visto la mia sordità, e si è fermato. Del resto, tra i due, in quel tempo ero io ad avere più bisogno.
Eravamo sempre assieme, in quel periodo. A me chiedevano di lui, e a lui chiedevano di me.
Poi c’era l’altra mia vita, quella di ogni giorno, dei figli, e della fatica di casa. A Paolo raccontavo ciò che accadeva a casa mia, del mio dolore, della fatica, di ciò che scoprivo nel cellulare di mio marito, quando riuscivo a leggerlo. Ed erano messaggi di fanciulle, a fanciulle, per fanciulle … era finita, tra noi. Ma io non lo sapevo ancora, che era finita, e mi piaceva quando Paolo continuava ad insistere, con tenerezza, che provassi in un modo, o nell’altro, o nell’altro ancora, per recuperare, per ricucire, che provassi fino allo spasimo a “non dividere ciò che Dio aveva unito”. Si impegnava perchè il mio matrimonio si salvasse. Ma più lui parlava, e più io non lo ascoltavo. O forse neppure lui ascoltava, in fondo.
Era bellissimo il nostro dialogo, fatto di confidenze, di riflessioni, di aperture dei segreti più segreti, i miei segreti. I suoi restavano chiusi, protetti, nascosti. Mi aveva chiesto rispetto per i suoi silenzi. Ed io avevo imparato il rispetto dei suoi silenzi.
Avrei dato qualsiasi cosa per poter entrare nei suoi segreti, ed attendevo, con pazienza innamorata, che lui si fidasse, mi raccontasse, mi dicesse … mi spiegasse perchè scivolava via dai miei abbracci. Perchè. Ma non scappava da me. Anzi. Era sempre presente. Più che mai. Scappava via solo dai miei baci, e dai miei abbracci.
Era diventato il mio amico, il mio paziente confidente. Lo avevo eletto a mio compagno di anima. Né lui si era ritratto dall’impegno. Anzi. Pareva anche lusingato, di sicuro gioioso di quell’amicizia tra noi, che ci aveva permesso una confidenza nutriente.
Anche lui si confidava con me. Sapevo che si fidava. Non sapevo ancora quanto, ma sapevo di essere importante, per lui. Io ero consapevole del beneficio che ne traevo, sapevo di averne bisogno. Era come bere ad una fonte di acqua fresca, dopo anni di sete. E non mi lasciavo sfuggire le occasioni per ricominciare a vivere.
In quel periodo scrivevo molto. Moltissimo. Scrivevo a lui, mail su mail, che inviavo senza rileggere, ma scrivevo anche per me stessa, nel cuore della notte, quando mi svegliavo, riempivo quaderni e quaderni di minuta scrittura. Domande, risposte, riflessioni. Narrazioni. Ricordi. Riletture. Ripensamenti. Era come guardare allo specchio la mia anima. E condividere con lui le immagini.
Tutto mi confermava che anche lui era innamorato di me. Anche se non lo ammetteva. Io mi dicevo. Non lo ammetteva, ma prima o poi io ce l’avrei fatta, e avremmo potuto vivere in qualche modo più serenamente assieme. Avevo le prove, che era innamorato anche lui. Per me erano prove. Mi bastavano, come prove.
Per lavoro facevamo delle riunioni, alla sera. E dopo la riunione io avevo iniziato ad aspettarlo. Aspettavo strategicamente che tutti se ne andassero, per restare ancora cinque minuti assieme, scambiarci due parole, spesso molto più di due parole, e poi, dopo i discorsi tra noi, poterlo abbracciare. In un saluto finale, che sarebbe stato breve, certo. Ma era.
Ricordo benissimo i suoi fianchi tra le mie mani, mentre lo abbracciavo, in un disperato, e forse per lui disperante, saluto di buona notte. Tremava, la sua pelle, sotto le mie mani. Tremava. E poi l’abbraccio si scioglieva, e ce ne andavamo. Tornavamo a casa. Quella volta io ero ancora sposata.
Quante volte mi diceva “Ci sei, alla riunione, dopo?”, per aggiungere, dopo il mio SI, “Speriamo non venga nessuno, così la riunione salta, e noi ce ne andiamo da qualche parte!”.
Una sera andammo a cena prima della riunione di lavoro. In pizzeria. Faceva caldo. Deve essere stato il mese di giugno, o giù di lì. Parlavamo, come sempre, di me. Quella sera stavamo parlando di che tipo di uomo io avrei desiderato, in cosa mio marito mi aveva deluso, che cosa avrei voluto. Lo presi probabilmente in contropiede, dicendogli: “E perchè non tu?”. Girò lo sguardo improvvisamente verso di me, dopo aver osservato lungamente la pizza, mentre parlava. “A me piacciono le donne forti”, mi rispose, cambiando subito discorso. Era bravo, con le parole. Lo è ancora.
A me rimasero in cuore le sue parole, e mi servirono da faro: perchè non potevo essere io la donna forte che desiderava? Lo sarei diventata. Sapevo di essere sostanzialmente forte. Dovevo solo ricominciare ad esserlo. Per lui. Per i suoi sogni. Perchè fossero anche i miei.
Un pomeriggio di gennaio, con un freddo da gelare anche le parole, ci rifugiammo in una pasticceria, e ordinammo due cioccolate calde. La cameriera ci portò le cioccolate con la panna disposta in modo da disegnare due cuori. Eravamo coppia. Era evidente a tutti. Anche alla cameriera della pasticceria. Era evidente a tutti. Ci guardammo, e ridemmo. Io ridevo per un motivo, e lui per l’opposto, ma io non lo sapevo. Mi rimaneva la domanda vera da fargli, ma non riuscivo a fargliela, perchè avevo troppo bisogno di lui, e troppa paura di perderlo. Per questo la domanda vera non gliela feci. In quegli anni non gliela feci.
Una sera di fine estate la riunione solita durò poco, o forse la facemmo durare poco. Ci fermammo nel paese vicino, a chiacchierare e a passeggiare. Cercando un posto dove fermarci, lui propose un locale, e in particolare un tavolino un po’ appartato. Ad un certo punto mi prese le mani. E le parole rimasero silenziose.
Ma non accadde nulla. Nulla di più. A me è sempre rimasto il dubbio che quella sera lui fosse molto combattuto, dentro di sé, tra un provarci e un rinunciare. Rinunciò. E in un certo senso nulla fu più come prima. Come se piano piano lui si allontanasse dall’idea di provarci, almeno provarci, allontanando anche me da quel mio sogno. Solo che io non volevo. Come potevo rinunciare a tutto ciò che stavo sognando su di lui?
Mesi prima ci fu però anche una sera drammatica. Per me drammatica. Avevamo cenato assieme, al lume di candela. Aveva prenotato lui il luogo, il tavolino con le candele. Avevamo anche bevuto un po’ di vino, e speravo che il calore del vino sciogliesse quella che pensavo fosse solo timidezza.
Così, riscaldati ed abbracciati, raggiungemmo il parcheggio. Da lì dovevamo poi andare alla riunione di lavoro. Dissi tra me e me: “O adesso o mai più!”. Ci provai. Con gioia. E con trepidante attesa. Cercai di trasformare quell’amichevole abbraccio, in un abbraccio passionale. Ma quello che vidi nei suoi occhi non posso neppure oggi dimenticarlo. Vidi come due lame acuminate, due spade: lo sguardo terrorizzato che uscì dai suoi occhi. La paura. La sua paura. E scappò. Salì nella sua macchina, e ci vedemmo solo più tardi sul luogo della riunione. Non so come lui fece a lavorare lo stesso, quella sera. Io non ci riuscii. Ero sconvolta. Non capivo. Perchè quello sguardo così terrorizzato? Perchè scappare così? Come faceva ad aver paura di me? Che cosa di me gli faceva paura?
Gli scrissi, quella notte. Non riuscii a dormire, e allora gli scrissi. Tanto. Gli chiesi. Lui lesse, ma minimizzò. Non gli credetti. Sapevo che mentiva. Lo conoscevo a sufficienza per sapere che mentiva. Ma non sapevo che cosa nascondesse. Prima o poi me l’avrebbe detto. Prima o poi ce l’avrei fatta ad aprire i suoi segreti. Prima o poi.
E’ passato tanto tempo. Sono successe tante cose. E, lo devo ammettere, i ricordi si sfumano. Lentamente, ma inesorabilmente sfumano. A volte mi pare non sia neppure mai accaduto. Eppure è accaduto. Perchè sarà pure successo in qualche modo che mi sono ritrovata a crescere da sola i figli, o no? Quando mi sono separata immaginavo che mi sarei presto rifatta una vita, con una persona splendida come Paolo. Ma così non è stato. Sono rimasta da sola. Com’è che è accaduto? Quando? Come? Perchè?
Già.
Ho dovuto nel corso del tempo mettermi in pace con ciò che mi è accaduto, con ciò che ho fatto. Io non ho scelto di restare da sola a crescere i figli. Ma così è stato. E so anche che è meglio così, che quello che è accaduto è stato il male minore. Perchè con mio marito, con il padre dei ragazzi non era possibile continuare. Che anche in questo caso vale il detto che è meglio da soli che male accompagnati. Ma io so di non averlo scelto, di restare da sola. È stata la vita, forse, che ha scelto per me.
Però! Come ti trasformano le vicende che vivi, se hai coraggio di viverle in pienezza! Sì, è vero, lo devo riconoscere, Paolo non mi ha mai promesso a parole niente. É sempre stato di una correttezza a parole esemplare. “Io non provo per te le stesse cose che tu provi per me”, era la sua litania, quando gli dicevo del fuoco che mi ardeva per lui.
Ma ci sono linguaggi che scivolano fuori dalle parole. E sono più potenti delle parole. Con le mani, con gli abbracci, con il tempo dedicato, io gli ho strappato più promesse di quante le parole avrebbero potuto dire. I sogni sognano appoggiati sui gesti.
Scoprirò qualche anno più tardi che anche Paolo stava facendo il suo cammino complicato, nella vita. Nel sito “progettofratellomaggiore.com” oggi ho letto un concetto che mi ha fatto sorridere, ma che trovo molto vero. Il concetto di “Gay da borsetta”, riferendosi al vissuto di un ragazzo gay che dice che: “Tutte le sue varie amiche da quando ha fatto coming out, se lo contendano come una specie di borsetta di Luis Vuitton”. Mi ha fatto sorridere perché con poche parole ha espresso una sensazione che ho anche io quando parlo con amiche mie, soprattutto quelle più giovani ed “aperte”, che raccontano di avere amici gay.
Oh!, non fatemi pensare! Non vorrei mai che mio figlio diventasse una “Borsetta di Luis Vuitton”, da esibire, per dimostrare di essere aperti di mentalità!
Nè Paolo è mai stato per me qualcosa da esibire. Anzi. Innamorarmi di lui per me è stato una delle esperienze più importanti della mia vita. Perchè poi ti chiedi se e come hai fatto ad innamorarti, a non accorgerti che… e allora scopri che no, che va bene così, che solo così hai potuto davvero capire, vivendo sulla tua esperienza, sulla tua pelle, che l’umanità è la stessa, che non c’è differenza, che siamo davvero uguali, sfumature leggermente diverse nell’arazzo splendido che Dio ha voluto disegnare con le nostre vite. Che nessuno di noi può essere “borsetta da esibire”, ma che abbiamo diritto a rispetto profondo, e relazioni umane autentiche.
Davvero, grazie a questa esperienza con Paolo ho potuto sopravvivere alle parole di mio figlio, quando, a 18 anni, un anno fa, mi ha detto: “Io sono gay”.
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* Conosco Gionata.org ormai da anni. È stato il luogo che più ho frequentato in internet per cercare di capire un’altra vicenda fondamentale nella mia vita. Qui ho conosciuto persone molto belle. E ho avuto modo di conoscere di persona anche i webmaster.
Giorni fa, parlando con Innocenzo, gli ho detto che mi piacerebbe scrivere di queste mie vicende su Gionata, ma che non so neppure da dove cominciare, tanto è un groviglio, che non è facile dipanare.
“Fallo a puntate”, mi ha risposto. E allora, se volete, questa può essere una puntata, un po’ diario, un po’ ricordo. Un racconto in itinere. Che un po’ va avanti, e un po’ torna indietro, per cercare di capire, e trovare il filo di una vicenda normale, perché normale è innamorarsi e amare, anche se l’orientamento non è quello normalmente considerato normale. Non ho idea di come andrà a finire, perché si sta ancora svolgendo. E io non ho ancora compreso tutto. Anzi, a volte mi pare di non aver capito niente.