Sessualità umana o linguaggio ecclesiale?
Relazione di James Alison presentata alla The Sarum Consultation on Human Sexuality and the Churches, 9-19 febbraio 2004, liberamente tradotta da Alberto
Vi ringrazio sentitamente per avermi invitato a venire a condividere con voi oggi alcuni ragionamenti quale mio contributo al convegno. Temo che tali ragionamenti saranno piuttosto sconnessi, ma spero che l’uno o l’altro di essi possa aiutare a stimolare la discussione.
Non posso fingere di essere un esperto in nessuna delle aree di cui parlerò, specialmente davanti a tanti che esperti possono legittimamente dichiararsi. Né fingerò di possedere vaste esperienze in tutti i settori di cui probabilmente parlerò.
Dopo un po’ sentiamo questa persona dire: “Ehm, mi sembra ci sia molta omosessualità latente da queste parti”. Ora immaginate un girardiano o un neo-girardiano che osserva attentamente quanto di sessuale avviene in un club per gay. Tale persona potrebbe dire dopo un po’,”Ehm, mi sembra ci sia in una partita di rugby latente in corso da queste parti”.
Abbastanza divertente, non vi pare? Quando ho parlato ad un uditorio costituito da maschi gay in ritiro e ho fatto questo paragone hanno sorriso e hanno colto il senso immediatamente. Data la nostra esperienza, il commento del girardiano ci suona molto più vero di quello del freudiano. E questo non è, credo, perché è ideologicamente più lusinghiero per noi.
Ma perché non potete frequentare club di quel genere per molto tempo senza rendervi conto di quanto dell’attività sessuale che apparentemente avviene in quei luoghi ha a che fare con il toccarsi, con lo stare attaccati, con lo stare in mucchio, con l’affetto e con il gioco.
Ora credo che ciò sia, ad una prima occhiata, più importante, perché sta suggerendo che l’appetito sessuale non è, a quanto pare, l’impulso psicologico chiave, l’appetito fondamentale, il centro del desiderio, come molta parte del nostro discorso implica.
Piuttosto suggerisce che la componente sessuale del desiderio è sostanzialmente sintomatica di altre cose che la precedono e la coniugano in un modo o nell’altro. Oppure, per dirla in modo diverso, non è l’appetito sessuale che ci trasforma in avversari. È l’avere a che fare con la competizione che dà forma al modo in cui siamo sessuali.
La mia supposizione di questo pomeriggio è che Girard ha fondamentalmente ragione. E una delle conseguenze di tale supposizione è che non sono sicuro che sia conveniente spendere molto tempo per discutere della sessualità umana, perché per farlo finiremo per girare e rigirare all’infinito attorno alla discussione di un serie di sintomi molto malleabili e piuttosto fluidi, piuttosto che impegnarci in una vera discussione sulla socializzazione di tali sintomi che precedono la sessualità.
Perciò, parte integrante di una vera discussione è il considerare il modo in cui noi parliamo delle cose, giacché è proprio il linguaggio che usiamo l’elemento che ha una grandissima importanza sul modo in cui tali cose vengono umanizzate e vissute.
Se siete con me in questo, allora forse non sarete sorpresi quando dico che è proprio il linguaggio l’elemento che dà una lettura alquanto diversa della controversia che sta attorno al fallimento sistemico della cultura clericale della Chiesa, alla quale appartengo, nel trattare appropriatamente di quell’1,7% di suoi membri che vivono negli Stati Uniti, i quali hanno commesso abusi sessuali contro minori.
Una delle letture che abbiano sentito, e generalmente abbastanza accettata, è stata quella che il problema stava nel celibato del clero. Secondo questo punto di vista, il celibato del clero porta ad essere repressi dal punto di vista emozionale e sentimentale, porta all’immaturità sessuale, con il risultato che i maschi sono dei soggetti particolarmente a rischio di agire in modo inadeguato nei confronti dei bambini o dei giovani soggetti alla loro responsabilità.
L’enfasi posta sulla sessualità e la critica al celibato del clero a me sembra non siano affatto utili a comprendere quanto accaduto. Si ignora il fatto che la percentuale dei reati del clero contro i minori è quasi esattamente la stessa che si riscontra in ogni altra professione o posizione sociale.
Il guaio causato dalla cultura clericale non è stato tanto la percentuale maggiore di persone che hanno commesso reati, ma il successo maggiore che la medesima cultura clericale ha avuto nell’insabbiare i reati stessi. E’ stata l’entità dell’insabbiamento, non gli eventi tragici dell’abuso in sé, che ha causato il vero scandalo nei fedeli.
Ed è qui, a mio parere, che si hanno i frutti più amari derivanti dall’obbligo del celibato del clero (e la mia non è una critica al celibato in se stesso, affatto, ma una critica alla cultura formatasi quale conseguenza dell’obbligo stesso), i frutti più amari non stanno nell’atto sessuale, ma nel pensiero di gruppo e nella cultura da club privato, dove non si può e non si deve parlare di queste cose in modo adulto, con la conseguenza che si finisce per entrare in un tipo di comportamento di gruppo dove per abitudine si evita la vergogna di parlarne.
Mettetela in questo modo: una delle cose curiose che riguardano la Chiesa Cattolica, connessa con il linguaggio pubblico enormemente omofobo usato dai suoi funzionari centrali, è il fatto che sono molto rari i membri dell’episcopato genuinamente e personalmente omofobi (a confronto di quelli che di tanto in tanto fanno, in numero molto maggiore, delle pubbliche dichiarazioni omofobe per segnalare il loro essere idonei all’alto incarico).
E ho il sospetto che ciò sia dovuto a un motivo molto semplice. Non vi è quasi nessun Vescovo cattolico nel mondo anglosassone, se non addirittura nessuno in assoluto, che non sia stato introdotto, fin dalla sua giovinezza, ad una significativa, seppure discreta, cultura gay.
Se essi stessi siano gay o no non ha importanza, essi sono comunque cresciuti in un ambiente dove la presenza di persone gay, e il malessere che essi hanno sempre provato a parlare onestamente riguardo ai gay è stato per loro del tutto normale. Per di più, parte della loro socializzazione all’interno di quel mondo è stato l’imparare in modo appropriato a non lanciare sassi contro la casa di vetro.
Ora suggerisco che è stata la combinazione tra una formazione discretamente ma completamente gay e il malessere di parlare apertamente dei gay a contribuire al fallimento del sistema che stava attorno all’abuso sui minori. Ciò ha significato che il clero è stato considerevolmente più lento del resto della società a giungere a saper distinguere tra “gay” e “pedofilo”, perché “gay” era tutt’attorno al clero stesso, ma era considerato qualcosa di cui non si doveva assolutamente parlare e verso il quale la cultura clericale era, e lo è ancora, generalmente piuttosto misericordiosa.
Mi domando se parte del problema non fosse stato che la cultura del celibato, tutto maschile e obbligatorio, con al suo interno una forte componente gay, si fosse preparata per il fallimento dell’intelligenza: fu il fatto di essere abituati a ignorare deliberatamente le indiscrezioni sugli altri e di tentare di evitare lo scandalo per essi e per il gruppo che ha portato le persone ad essere incapaci di cogliere la differenza.
La differenza in questione è, infatti, quella tra adulti, i quali hanno occasionali relazioni sessuali consensuali con altri adulti, relazioni che possono o non possono portare ad una vicendevole maturazione positiva, e adulti le cui occasionali “cadute” sono parte di una patologia che non può portare affatto ad alcuna maturazione positiva, solo ad un danno ripetitivo a se stessi e alle loro vittime.
Se volete avere una verifica di ciò, domandatevi solamente quanto più difficile sarebbe stato per la cultura dell’insabbiamento avere successo se ci fosse stato un numero significativo di donne sposate nei posti di vera responsabilità tra il personale ufficiale delle curie diocesane.
Bene, basta così sul mio primo punto che aveva lo scopo di spiegare perché non ho intenzione di parlare affatto di sessualità e di considerarla solamente come una introduzione a quanto seguirà. Il modo in cui viene umanizzato il desiderio sessuale ha poco a che fare con il parlare del sesso in sé, ma ha moltissimo a che fare con il modo in cui noi socializziamo il parlare di sesso. E questo è ciò su cui voglio soffermarmi.
Perciò il mio secondo punto riguarda la distinzione tra i modelli di linguaggio usati all’interno della Chiesa Cattolica. E ancora una volta, è probabile che sia provocatorio piuttosto che esaustivo. Come tutti voi sapete, la cultura clericale all’interno della Chiesa Cattolica è un affare che riguarda i soli maschi.
Fino a cinquant’anni fa, è stato, e lo è stato per più di mille anni, un affare per soli uomini, i cui membri venivano introdotti ad un modo di pensare in cui si doveva usare una lingua che non era affatto la lingua materna di nessuno di essi, tutt’altro. Essi imparavano a dibattere e a discutere delle cose usando un linguaggio tutto loro. Si dovevano osservare regole elaborate che organizzavano la struttura agonistica del discorso. I
dibattiti erano duelli sillogistici e così via. Non credo che riusciremo ad avere un’idea chiara nelle difficoltà attuali della Chiesa Cattolica se non abbiamo qualche cognizione delle conseguenze della caduta sorprendentemente veloce della latinità nel mondo occidentale. [1]
Una delle conseguenze di tale caduta è, credo, che non sappiamo ancora come parlare come cattolici. Il latino è una splendida lingua legale che mette in evidenza la realtà aggettiva delle cose in modo tale che diventa utile per il governo. Il latino è stato importantissimo come lingua dell’Impero Romano e del suo governo.
Ma nel suo insieme è molto più povero di strutture linguistiche delle lingue che si sono sviluppate come lingue popolari a partire dal tardo medioevo. In particolare, non può essere paragonato alle lingue specifiche che si sono sviluppate da quando è comparso il romanzo, il cui esordio ha reso disponibile alla gente un nuovo modo di veicolare la verità e la conoscenza della storia. Ma il latino ha certamente aiutato a puntellare un mondo e a sorreggerlo ben oltre la data di scadenza, un mondo nel quale era ancora forte la distinzione era tra l’oggettivo (buono, affidabile) e il soggettivo (cattivo, soggetto all’errore).
Ma si è rivelato sempre più chiaro che una distinzione troppo forte in questo settore non serve a nulla se non a portare a risultati controproducenti. La nostra soggettività per noi è un fatto oggettivo, e non possiamo essere oggettivi se non attraverso il far funzione la nostra soggettività. E la nostra soggettività ci viene da ciò che è al di fuori di noi e che viene prima di noi. Noi stessi siamo ampiamente funzioni del desiderio pubblico.
Uno dei fattori chiave della caduta della latinità e del mondo del linguaggio che ad esso era collegato, è stato l’emergere delle donne come protagoniste nello stesso mondo del linguaggio degli uomini, e lo sono ad un livello di parità con gli uomini sempre maggiore, in ogni luogo, eccetto che nella cultura della Chiesa Cattolica con il suo sacerdozio monosessuale.
Ma ora, tale sacerdozio monosessuale si scopre privo di un suo linguaggio specifico, e i tentativi di salvataggio da parte di coloro che sono stati formati nel mondo del latino e della sua supposta oggettività, anche quando tali tentativi sono espressi in una lingua vernacolare, sono sempre più incomprensibili alle giovani generazioni. [2]
Credo che parte del problema è proprio l’essere in grado di parlare di queste cose all’interno della mia Chiesa. C’è un enorme pressione sulle persone che ora sono prese tra due modi di parlare completamente diversi tra di loro, l’uno corrispondente alla cultura clericale, dove ancora è necessaria la capacità di evitare di parlare dell’onestà sentimentale e sessuale e di usare il linguaggio della soggettività proprio al fine di poter sopravvivere e sicuramente per poter fare carriera, e l’altro mondo, dove la capacità di essere trasparente ed onesto, di essere visto come vulnerabile e capace di raccontare una storia, è condizione indispensabile per essere ritenuto convincente.
Ecco un esempio di come le reazioni all’Humanae Vitae sono state ben diverse dalle attese. Credo che le persone alle quali Paolo VI abbia fatto meno favori con la sua Enciclica non sono state le persone sposate alle quali l’enciclica stessa era specificatamente indirizzata, ma piuttosto la casta dei celibi, ai quali l’enciclica non era affatto rivolta.
Notoriamente uno degli effetti dell’Humanae Vitae sul laicato cattolico, specialmente nei paesi del nord, dove una coscienza di tendenze protestanti si è diffusa anche all’interno Chiesa Cattolica, è stato quello di provocare una grande crisi di coscienza, in quanto un’intera generazione di laici ha imparato a ignorare l’insegnamento del papa.
E uno dei modi in cui ciò è avvenuto, è stato che un’intera generazione di fedeli cattolici ha imparato a parlare delle proprie esperienze, dei propri sentimenti, dei propri corpi, delle proprie promesse e così via in modo da evitare di usare il linguaggio retorico dell’enciclica.
In breve, l’enciclica ha accelerato gli effetti dello scisma del linguaggio che è attualmente in atto nella Chiesa Cattolica, trasformando perfino i giansenisti dei paesi del nord in qualcosa di molto più vicino ai cattolici italiani nella loro abilità di amare il Santo Padre e nello stesso tempo di prestargli molto poca attenzione, specialmente quando parla di questioni sessuali.
Il mio punto di vista è che la conseguenza non intenzionale dell’Humanae Vitae è stata quella di concedere al clero un indulto dalla realtà di trentacinque anni. E’ probabile che l’enciclica abbia avuto un particolare effetto sulle persone eterosessuali sposate.
Mentre il laicato doveva occuparsi duramente dei problemi di coscienza e iniziare a sviluppare altri modi di espressione, compreso il problema di cercare di soddisfare la domanda di onestà e autenticità che la lotta per recuperare il nesso tra l’oggettivo e il soggettivo portava alla ribalta, il clero in quanto gruppo è stato in grado di andare avanti per trentacinque anni con un insegnamento avulso dalla realtà e senza doversi occupare a loro volta dei loro problemi di coscienza.
A me sembra che il malessere attuale sul problema dei gay all’interno della Chiesa Cattolica sia più di ogni altra cosa un malessere prodotto dalla crisi di coscienza del clero riguardante la propria incapacità di parlare. E più specificatamente, riguarda l’incapacità di parlare dell’essere gay in un modo naturale e adulto e di relazionarsi a tale realtà, sia che essa si esplichi un modo attivo dal punto di vista genitale o no.
Mi riferisco all’indulto di trentacinque anni, poiché questo è stato il tempo che c’è voluto per fare ciò che era implicito nell’Humanae Vitae, e che Paolo VI ben sapeva, cioè chiudere il cerchio.
Mentre stava meditando sulla preparazione dell’enciclica, a Paolo VI fu detto che se avesse permesso una separazione tra la funzione unitiva e procreativa del sesso nel caso delle coppie eterosessuali sposate, avrebbe privato la Chiesa di ogni realistica ragione per considerare gli atti sessuali tra persone dello stesso sesso intrinsecamente errati. Ed è stato così che è avvenuto.
La stragrande maggioranza dei fedeli non ha accettato l’Humanae Vitae e, quasi sicuramente, poiché siamo animali logici, nel corso degli anni è diminuita costantemente la percentuale dei cattolici eterosessuali che praticano qualche forma di controllo delle nascite e che ancora giudicano negativamente le persone gay per atti che non sono affatto diversi dai loro rispetto a ciò che il Vaticano definisce come l’“indispensabile finalità” degli atti stessi.
Il trentacinquesimo anniversario dell’Humanae Vitae ha quasi coinciso con il giorno della pubblicazione, l’estate scorsa, da parte del Vaticano del documento concernente le proposte legislative per il matrimonio tra persone dello stesso sesso.
E io ho il sospetto che nel futuro tale documento sarà considerato come una specie di pietra miliare, perché è talmente brutto che neppure i commentatori più conservatori hanno potuto fare molto per salvarlo. Inoltre, sembra davvero che abbia avuto finalmente l’effetto di incoraggiare il clero a dire pubblicamente che non andranno lungo la strada di fingere che quella forma di linguaggio sia accettabile.
Il dolore e l’angoscia che sta dietro a tutto ciò nella vita del clero della Chiesa Cattolica, da quando posso constatare (e ho incontrato molti preti di diversi paesi che hanno parlato specificatamente di questo), è l’angoscia di uomini che vogliono essere onesti, ma non sanno come esserlo senza esplodere e perdere tutto, ma che stanno iniziando ad osare di dire che “l’insegnamento della Chiesa è sbagliato ed è sbagliato essere complici di tale insegnamento”.
Quindi, nel secondo punto mi sono occupato della perdita del linguaggio e dell’emergere di diversi modi di espressione dai quali i membri della cultura clericale sono stati largamente esclusi. A me pare che il malessere derivante dal fatto di dover parlare onestamente riguardo alla sessualità e, nella cultura clericale, specialmente riguardo alla sessualità gay, è un perfetto sintomo, un “flashpoint” se vi piace, del modo in cui questi enormi cambiamenti linguistici e culturali stanno operando.
Il terzo punto sarà il mio tentativo di essere un pochino più esplicitamente teologico nel prevedere un modo per andare avanti. E per farlo, ancora una volta, sarò un po’ provocatorio. Non riesco a togliermi dalla testa l’idea che tutti i nostri litigi, le nostre discussioni, la nostra passione, la nostra rabbia e la nostra rettitudine non siano altro che un un’enorme burla.
Voglio dire, guardatela in questo modo: chi mai avrebbe la spudoratezza di tentare di salvarci? Chi mai penserebbe che valga la pena di prenderci tanto seriamente da aiutarci ad essere meno seri? L’idea stessa è ridicola! Eppure noi siamo attaccati a questa idea.
Mi chiedo se tutti gli studiosi medievali che a noi è piaciuto tantissimo mettere in ridicolo per la loro grande abilità matematica quando sono arrivati alla conclusione che gli angeli ballano sulle capocchie degli spilli, non proromperebbero in fragorose risate vedendo la nostra straordinaria serietà e sacra indignazione nell’occuparci di un argomento che è, molto ovviamente, d’importanza limitata.
Eppure, cosa c’è dietro a tutto questo? L’impegno serio di Dio, un impegno enorme, rischioso, audace e pazzo, di dare origine dal nulla assoluto a qualcosa di divertente, a qualcosa che possa partecipare della vita stessa di Dio e della gioia stessa di Dio.
Prendendo terribilmente, terribilmente seriamente i nostri rischi e non notando gli scoppi nascosti di ilarità e di divertimento da parte di coloro che sfuggono alla nostra vigile attenzione e si sono introdotti furtivamente nel paese che noi sorvegliamo, essi diventano vere e proprie risorse del paese stesso, sebbene noi stessi quasi mai facciamo un passo oltre le postazioni della dogana che noi manteniamo con grandissimo dispendio di energie.
Ebbene, mi domando: se solo noi potessimo concentrarci per un po’ su tale ridicola ilarità, non potremmo forse vedere che l’ilarità stessa si nasconde alla nostra serietà così da non umiliarci e, nello stesso tempo, cerca di convincerci almeno a tentare di non prenderci troppo seriamente?
Perciò vorrei dire che per me essere cattolico è come trovarmi ad un grandissimo banchetto al quale vi partecipano un mucchio di brutte persone, molte delle quali non sono affatto come me e con le quali non ho molto in comune. E’ anche un banchetto al quale sono stato invitato non perché sono speciale, oppure perché le altre persone siano speciali, ma perché il padrone di casa mi ha invitato, perché il suo invito fa parte del suo piccolo scherzo, scherzo il cui pieno significato non mi è ancora chiaro.
Eppure sto cominciando a percepire il senso che il suo è uno scherzo buono, che l’intenzione che sta dietro ad esso è benigna e che se solo mi lasciassi andare e non mi prendessi troppo seriamente, allora lo comprenderei pienamente e potrei davvero gustarmi la festa.
Una delle cose che riguardano questo banchetto è che un gran numero di noi trascorre molto tempo a tentare di immaginare chi dovrebbe partecipare al ricevimento e chi no, anche quando la prova evidente è che il padrone di casa è molto promiscuo nei suoi inviti. Proprio attualmente dobbiamo confrontarci con la possibilità che molti di noi siano stati molto crudeli e cattivi nei confronti di diverse persone, nel corso di un lungo periodo di tempo, ritenendoci in diritto di essere tali.
Ebbene, ecco il punto in cui siamo: c’è un fondamentale disaccordo riguardo a un problema di verità. O il padrone di casa accoglie le persone gay nel suo ricevimento, oppure no. Qui sta il problema. Il padrone di casa notoriamente ha messo nelle mani degli uomini la decisione su chi possa stare dentro e chi debba stare fuori, la decisione di legare e di sciogliere.
E il modo in cui tale potere di legare e di sciogliere opera è stato fin dall’inizio una questione controversa. Non c’è da sorprenderci allora se si considera il bizzarro progetto che il padrone di casa ha escogitato, quello, cioè, di farci diventare gli intermediari del suo banchetto, quando sa benissimo che siamo molto più bravi a dire di “no” alle persone che non sono come noi, piuttosto che a dire di “sì”.
Ebbene, mi sembra che il momento in cui siamo è questo. La capacità di far festa sembra essersi gradualmente arrestata a causa della questione del se, dopo tutto, questo promiscuo padrone di casa stia nuovamente tentando di contrabbandare un altro mucchio di persone oltre le sbarre di confine e di ammetterli al banchetto; oppure che non sia piuttosto questo promiscuo padrone di casa il vero contrabbandiere, ma che lo sia, invece, qualche agente del demonio, il quale vuole distruggere il banchetto infiltrando dei malvagi al suo interno, persone incapaci di far festa.
Ora, lasciate che chiarisca il punto: esistono due possibilità, l’una o l’altra delle due parti s’inganna. C’è una questione di verità in gioco a questo punto. E personalmente credo che sarebbe molto pericoloso se dovessi concludere il concetto dicendo “uno di noi ha torto, e questo non sono io”.
Ciò che fa correre il rischio di distruggere il banchetto è principalmente il modo in cui noi parliamo di noi stessi e riguardo a noi stessi, piuttosto che a quali conclusioni noi arriviamo. E ciò è dovuto all’ovvia ragione che le conclusioni a cui giungiamo sono totalmente dipendenti dal modo in cui noi parliamo.
Perciò, ecco il mio punto di vista: il luogo appropriato per discutere di questo problema è il luogo indicato da Nostro Signore stesso:
Così, se stai andando con il tuo avversario in tribunale, fa’ presto a metterti d’accordo con lui, perché può consegnarti alle guardie per farti mettere in prigione. Ti assicuro che non uscirai di là, fino a quando non avrai pagato anche l’ultimo centesimo. [3]
La mia personale intuizione è che Dio ci sta rivelando che le persone gay, proprio quello che noi siamo, sono parte dell’umanità e che è proprio in quanto tali che siamo invitati a partecipare al banchetto. Ma posso aver completamente torto in questo. Ciononostante sono sicuro di una cosa: che avere torto o ragione non è molto importante.
Poiché sono così riconoscente per essere stato invitato al banchetto, al punto che sono davvero determinato ad essere cordiale, caritatevole con tutti e amico di tutti, soprattutto voglio imparare ad esserlo nei confronti di coloro i quali sono in completo disaccordo con me, perché ritengo ciò terribilmente, terribilmente importante: è su questo, infatti, che sarò giudicato.
Se ciò che dico è vero, allora esiste un punto fondamentalmente teologico in questa controversia che non è il modo in cui io mi difendo, ma il modo in cui io immagino, rappresento e mi relaziono con il mio avversario, che è poi l’unico vero importante problema incombente.
Può anche essere importante perdere la causa, come solo la persona veramente serena e fiduciosa può fare, se quello è l’unico modo per convincere il mio avversario. Dopo tutto, il nostro modello è Colui che è stato felice di essere annoverato tra gli empi per poter trasmettere la potenza di Dio e la saggezza di Dio a coloro che non potevano comprenderla.
Ora, se questo è il caso, allora il lavoro più arduo nel linguaggio teologico cristiano sta nella sfera ecclesiastica: creare la Chiesa con coloro che non ci piacciono.
O per dirla in un altro modo: in quanto cattolico, l’unico modo in cui forse potrei aver ragione in ciò che è ravvisabile come una nuova teologia e una nuova posizione morale, è quello di mostrare che quell’avere ragione non ha nulla a che fare con me, e di ammettere onestamente che noi tutti abbiamo avuto torto, compreso io che sono dalla parte di coloro con i quali non sono d’accordo e che anch’io sto subendo un cambiamento di cuore assieme ad essi.
Ora posso dire come una delle cose della mia Chiesa che mi danno più gioia è constatare quanto più facile tutto ciò viene reso dalla struttura della mia stessa Chiesa. Una delle cose che sono impossibili come cattolico che pensa delle questioni teologiche è cavarsela a lungo senza pensare a come l’ordine della chiesa ha un effetto dannoso sul pensiero e sull’attività creativa.
In altre parole, nessun volo di fantasia riguardo alle gradazioni celesti o alle emanazioni celesti sarà mai in grado di fare molta strada, senza che il Vaticano ci ricacci indietro verso ciò che io chiamo “Realkattolicesimo”. E mi vien da ridere ogni volta che faccio tale considerazione. Perché significa che dovrò essere sempre in comunione con i fondamentalisti quale condizione per stare nel banchetto.
E ogni desiderio che potessi avere di appartenere ad un gruppo di persone simili a me, che la pensa come me, che è d’accordo con me, e con i quali io potrei formare un bel gruppo di persone amiche e dagli interessi comuni, viene costantemente annichilito.
E la cosa sorprendente che sottostà a tutto ciò è che ci sono solo due modi di relazionarsi con il Vaticano. Un modo è quello di essere scandalizzati da esso, entrare in rivalità con esso, permettere ad esso di farmi diventare nascostamente o non tanto nascostamente “doppio” in tutti i miei pensieri – perpetuamente considerato come l’elemento cattivo opponendomi al quale io mi faccio buono: in poche parole, diventare un inciampo.
E l’altro modo è quello di considerare il Vaticano una straordinaria grazia, quella di avere a disposizione un grande specchio nel quale possa vedermi chiaramente, così da poter gradualmente imparare a liberarmi dell’importanza di me stesso, del mio bisogno di avere ragione e così via.
È come se io, a poco a poco, annullassi la mia paranoia, la mia paura del mio stesso fondamentalismo, delle mie tendenze assolutiste, tutte cose che sono terribilmente facili da addebitare al Vaticano, cosicché diventa altrettanto facile per me pensare a me stesso come buono al loro confronto, come uno che è capace di vedere com’è realmente stare a quel straordinario banchetto. I
n poche parole, il Vaticano diventa qualcosa di molto più simile a una roccia sulla quale è costruito un edificio enormemente spazioso, dove, mentre altri sono caricati della responsabilità, io sono libero di sperimentare, sicuro che col passare del tempo non ci saranno troppe incomprensioni tra di noi.
Se posso ribadire ulteriormente questo punto: ora, in questo periodo di tempo, in tutte le nostre chiese, una delle cose che il problema dei gay ha fatto emergere è la distanza tra i cosiddetti liberali e i cosiddetti fondamentalisti, e la quasi impossibilità di dialogo tra di essi. Voglio dirvi come cattolico: mai, mai lasciare senza freno i vostri fondamentalisti se desiderate stare al banchetto.
È certamente molto pericoloso per essi essere abbandonati in un mondo di loro propria creazione. Ma non è meno pericoloso per coloro che non condividono le loro opinioni espresse abbandonarli a loro stessi. Perché siamo, noi e loro, quasi invariabilmente governati dagli stessi schemi di desiderio e altro ancora, anche se su posizioni diverse.
Se volete un esempio, allora pensate a quello che mi disse un Episcopale degli Stati Uniti la settimana dopo la consacrazione di Gene Robinson. Disse: “Ebbene, la cosa è semplice. Loro hanno torto e noi abbiamo i soldi”. E, badate bene, la cosa mi è stata detta da una persona che era a favore della consacrazione del Vescovo Robinson.
Ma potete facilmente capire che esattamente la stessa opinione sarebbe potuta essere espressa da qualcuno contrario alla stessa consacrazione. Questo è un esempio di come l’errore delle posizioni settarie speculari diventa vicendevolmente incorreggibile.
Ma non supereremo mai il nostro fondamentalismo e la nostra rabbia e intolleranza, la nostra brama di stare al sicuro all’interno di un gruppo di persone come noi, così da raggiungere tutta la verità, a meno che non troviamo modi di stare assieme con coloro dei quali noi pensiamo come diversi da noi.
Specialmente poiché la loro “diversità” è spesso la proiezione di pezzetti di noi stessi che non ci piacciono su qualcuno che sentiamo più sicuro di noi stessi riguardo alla paura del diverso. È solo quando potremo sentirci a nostro agio con il fatto che è Dio che vuole che loro siano al banchetto, che noi davvero saremo in grado di superare la nostra paura nascosta che Dio non può veramente volere escludere noi dal banchetto.
Perciò, il mio terzo punto riguarda il come la natura gratuita del banchetto dovrebbe farci vedere l’importanza non di avere ragione, ma di essere riconciliati.
Il mio quarto punto tenterà di svilupparsi partendo proprio da questa considerazione. Se quello che ho detto è vero, allora saremo giudicati non per quanto eccellenti siamo stati nel proporre la nostra personale ragione e il torto degli altri, ma per quanto eccellenti siamo stati nel creare spazi per coloro che noi pensiamo abbiano torto. Saremo giudicati, infatti, in base a quanto abbiamo fatto per rendere possibile il loro pentimento.
Do per scontato che siamo tutti d’accordo nel ritenere che il pentimento non sia qualcosa che Dio vuole da noi per umiliarci a motivo del nostro orgoglio e della nostra malvagità, ma sia la volontà di Dio stesso che noi possiamo partecipare al suo banchetto; ma ciò implica l’annullamento di tutta la ristrettezza di cuore che ci opprime e l’eroismo ipocrita che ci rende insensibili e freddi alla prospettiva che tutti possano partecipare al banchetto, anche la gente più comune e plebea.
E ciò esige che noi impariamo a perdere la faccia e a non dispiacerci di perderla. Ebbene, è estremamente difficile e sgradevole perdere la faccia e abbastanza spesso sentiamo una specie di sensazione alquanto spiacevole, percepiamo in modo indistinto qualcosa sul quale non possiamo mettere le mani, sentiamo che dovremo perdere la faccia proprio perché le cose migliorino e, allo stesso tempo abbiamo sia il desiderio ardente sia il terrore di perdere la faccia per tale scopo.
L’unica cosa che speriamo, accada quel che accada, è che perdere la faccia sia meno terribile di quanto temiamo e che non rimaniamo completamente umiliati da quanto accadrà. Speriamo che chiunque sia il mediatore del nostro scoprire, sia di gran lunga più misericordioso di quanto noi alle volte immaginiamo – sia quel tipo di persona in grado in seguito di dire ridendo qualcosa del genere: “Ecco, non è stata tanto brutta dopo tutto, vero?”
Ebbene, se questo è quello che speriamo, per noi stessi, allora sicuramente adempiremo la legge e i profeti se agiremo verso gli altri come vorremmo che gli altri agissero con noi.
Potrei benissimo aver torto sulla questione dei gay. Cioè, torto nel credere che la mia scoperta dell’esistenza di una cosa come l’essere gay, è parte di come il Vangelo opera in mezzo a noi, insegnandoci a scoprire ciò che la creazione di Dio realmente è, insegnandoci a cogliere le nostre falsità e la nostra violenza nel cercare sempre un capro espiatorio. Posso benissimo aver torto al riguardo. Ma non credo di aver torto nel confidare che Dio vuole rendere più facile, non più difficile per me la scoperta del mio torto, e che Dio desidera ardentemente che io non percorra sentieri che non mi portano a nulla di buono, e non certo condurmi capricciosamente lungo quegli stessi sentieri.
Ma ciò vuol dire che anch’io ho un obbligo molto forte, quello di rendere la medesima cosa più facile a quanti considero siano nell’errore, non più difficile. Perché comprendano, non per provocarli. Significa, per esempio, che è un male molto grande usare ciò che io considero il loro essere nell’errore al fine del mio auto-compiacimento, per sentirmi meglio con me stesso.
E ciò significa che una parte considerevole dello sforzo teologico che credo sia necessario oggi è la sensibilità di costruire ponti a beneficio degli altri, l’essere vulnerabili sul loro terreno di gioco, esercitare la magnanimità verso i nemici.
È per questa ragione che credo che il lavoro paziente non è quello di impegnarsi in dibattiti sul presente, poiché la struttura agonistica di tali dibattiti quasi sempre ci seduce verso il bisogno di vincere, ma lentamente tentare di costruire modi di parlare dentro i quali le persone possano essere in grado di riposarsi quando saranno stanche delle battaglie presenti.
Questa è la ragione per cui mi sono concentrato sulla Dottrina del Peccato Originale. A me sembra che, all’interno della struttura della dottrina cattolica, questo è il modo in cui coloro che hanno bisogno di salvare la faccia possono farlo. Se io parlassi ad un uditorio cattolico di una via d’uscita o di una via in avanti su questo argomento, questa sarebbe la Dottrina del Peccato Originale, alla quale darei tutta l’attenzione possibile.
Dove ho avuto l’opportunità di farlo, ho cercato di mettere in evidenza come ciò che questa dottrina fa nella sua versione cattolica, è creare uno spazio per noi tutti dove poter aver tutti torto e nello stesso tempo poter essere in grado di essere salvati tutti assieme e poter tutti imparare.
Naturalmente, né io né nessun altro può costringere una persona a venire a tavola e a parlare riguardo a qualcosa. Ciò che possiamo fare è creare vie d’uscita e aiutare le persone a trovare tali vie d’uscita dalla situazione in cui si trovano, cosicché tali persone possano avere meno paura di percorrere quelle vie quando essi alla fine perderanno la sicurezza nella loro attuale retorica e nel loro modo di fare. E
creare una via d’uscita per gli altri, forse, riesce meglio a persone che non hanno bisogno di essere ai primi posti del banchetto, che non hanno bisogno di approvazione, di riconoscimento e così via. Solo quelli che siederanno negli ultimi posti del banchetto e la cui assenza non sarà neppure notata, potranno prendersi su e svignarsela per iniziare a preparare il menu e portarlo all’assaggiatore per il successivo banchetto, poiché il cibo per il presente banchetto sembra scarseggiare.
Perciò, il mio quarto punto a dir il vero è una domanda: quale forma di linguaggio potremo impegnarci ad usare che possa rendere meno difficile per gli altri perdere la faccia, tenendo sempre in mente che se abbiamo torto, ciò che dobbiamo desiderare di più è che siano altri che rendano facile a noi perdere la faccia, che ci possano dare la possibilità un atterraggio morbido?
Il quinto e ultimo punto che voglio fare è iniziare ad abbozzare qualcosa che vada nella direzione dell’individuazione di un modo diverso di parlare su questi problemi, e non voglio negare che ciò sarà qualcosa di estremamente incerto. Si tratta di ciò che io chiamo: “collera orientante”.
Se è vero che ciò che Gesù fa fatto è stato sconfiggere il fondamento del meccanismo con il quale gli umani rendono sacra qualunque cosa, cioè, con l’offrire se stesso fino alla morte attraverso un linciaggio che aveva tutte le caratteristiche di un rito sacro, così da mostrare che la vittima era innocente e che ciò che appariva sacro non aveva nulla a che fare con Dio, se ciò è vero, allora non è da sorprenderci se una delle conseguenze dell’annuncio del Vangelo in mezzo a noi è, come Gesù stesso ha predetto, “la collera”.
Se togliete qualcosa di sacro alle persone togliete loro parte del principio grazie al quale esse hanno un’identità, un senso di appartenenza, sicurezza e vita.
E una delle reazioni naturali delle persone che hanno perso, o che sono in procinto di perdere la loro identità, la loro sicurezza, il loro senso di appartenenza, è certamente la collera, la collera che li costringe a cercare disperatamente una nuova vittima che dia loro una nuova unità, nuova identità e senso di appartenenza.
Presumo che la ragione che sta dietro al fatto che Dio ci ha fatto dono della Chiesa Cattolica è di rendere la gente in grado di orientare la collera che è stata liberata dalla graduale perdita del credere che anche la violenza possa essere sacra. Se ciò è vero, allora una delle cose che dovremmo aspettarci in un tempo come questo è un’esplosione di collera. Dopo tutto, un altro pezzo di come un mondo violentemente sacro è stato tenuto insieme sta per essere tolto dalla circolazione – le persone gay stanno diventando delle persone comuni.
E noi stiamo davvero fatti oggetto di un’esplosione di collera. Ma la collera non ha niente a che vedere con Dio e non è desiderata da Dio. È il modo in cui un’animale feroce reagisce alla perdita di un altro pezzetto della sua preda, e noi tutti ne siamo coinvolti in misura minore o maggiore.
Credo piuttosto che, parte del modo in cui il Vangelo opera, sia preparare un posto sicuro specialmente per coloro che si sentono maggiormente minacciati dal cambiamento dell’ordine prestabilito, dell’appartenenza, della bontà, intimoriti dalla perdita di un mondo dove il buono è buono e il cattivo è cattivo.
Questo posto, la Chiesa, è il luogo in cui noi possiamo imparare a controllare la nostra collera col passare del tempo. E’ per questa ragione che sarebbe terribile se la Chiesa non fosse strutturata attorno a qualcosa che in modo apparente e immutabile fa parte del mondo della collera. È come dire, se l’autorità della Chiesa non desse conforto a coloro che sono angosciati dalla perdita del sacro con l’offrire un salvagente sul quale aggrapparsi nel mezzo della tempesta della loro perdita di identità, allora renderebbe la salvezza possibile solo per coloro che hanno una coscienza forte, il che sarebbe elitario e non-cattolico.
Non è che l’autorità della Chiesa sia parte della collera. È che essa agisce come una specie di tappeto di gommapiuma per attutire lo shock causato dalla collera. Ciò che una retorica di inamovibilità, di impossibilità di cambiamento consegue è la creazione di uno luogo sicuro per i confratelli dalla coscienza debole.
In questo senso vorrei condividere con voi la mia teoria sul papato che prendo dal mondo marinaro. Il mio punto di vista è che il compito del Papa è quello di essere segno di unità con l’essere lui l’ultimo uomo che lascia la nave che affonda.
È solo quando tutti gli altri si sono messi in salvo, cioè hanno accettato che il cambiamento sia irreversibile e sono contenti di tale cambiamento, allora anche il Papa può abbandonare la nave, cioè lasciarsi dietro il vecchio mondo dove nessuno è rimasto a scandalizzarsi del perché lo abbandona (sebbene un numero di persone sempre maggiore sarà scandalizzato a causa del rifiuto del Papa di rinunciare a quel vecchio mondo, ma esse lo faranno da una posizione di forza, di crescente sicurezza nel nuovo mondo che essi ormai abitano). Allora Pietro potrò dichiarare quel capitolo della storia definitivamente chiuso.
Ebbene, vorrei portare il mio pensiero, ma non posso farlo ora, nella direzione di un ri-immaginare la storia della Chiesa nel modo in cui il libro dell’Apocalisse sembra suggerire: come qualcosa che ha a che fare con l’essere salvati dalla collera e ciò comprende anche che noi impariamo il modo di avere torto.
Ma questa, nel libro dell’Apocalisse, è una interpretazione della storia sincrona, liturgica, che per noi è molto, molto difficile da comprendere. E’ questa, a mio parere, la vera sfida per noi, adesso: quale interpretazione possiamo dare al fatto che abbiamo avuto torto nel passato e ancora oggi abbiamo torto, eppure siamo salvati in modo indiscutibile da Uno che ci ama e che è molto più misericordioso di noi?
Come possiamo imparare a parlare della scoperta di cose che mostrano in modo piuttosto chiaro che i vincoli che una volta consideravamo sacri ora non sono più tali, ma allo stesso tempo imparare ad usare un linguaggio che sia rispettoso del fatto che proprio perché dobbiamo essere riconciliati con i nostri fratelli e sorelle con i quali ora siamo in disaccordo, non possiamo mostrare alcuna superiorità nei confronti dei nostri fratelli e sorelle delle passate generazioni che noi abbiamo ritenuto che siano stati nell’errore, perché speriamo che quanti verranno dopo di noi usino le stesse parole di misericordia nei nostri confronti? La retorica dell’immutabilità ha la sua ragione d’essere, ma non è ovviamente quello che è storicamente avvenuto.
L’idea che la dottrina possa svilupparsi continuamente è una bella idea, ma si scontra con il fatto che la Chiesa ha portato avanti insegnamenti diametralmente ed esattamente contrapposti nei diversi periodi storici. Mi chiedo se “la collera orientante” non offra una migliore possibilità di creare l’universalità dell’essere salvati tutti assieme attraverso il tempo, cosa che, dopo tutto, è ciò che il nostro padrone di casa sta tentando di offrirci.
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1 La guida migliore al riguardo che conosco è il libro di Walter Ong, Fighting for Life: Contest, Sexuality and Consciousness, University of Massachusetts Press, 1989.
2 Se pregate l’Ufficio Divino, è sempre più il caso che dobbiate fare una scelta ideologica di non modificare “gli uomini” in “esseri umani” o in “uomini e donne”, in quanto è ovvio e naturale considerare gli “uomini” come uno sfortunato residuato di una precedente generazione e quindi modificare il termine del tutto inconsapevolmente.
Oppure, ancora una volta, prendete l’affermazione del Vaticano che “l’inclinazione omosessuale, pur non essendo in sé un peccato, costituisce una tendenza verso comportamenti che sono intrinsecamente cattivi, e pertanto deve essere considerata oggettivamente disordinata”, e provate a spiegare a qualcuno che si tratta di un esempio concreto di linguaggio filosofico, e non già una presa in giro violenta e per nulla cristiana.
3 Matteo 5, 25-26
Human Sexuality…or Ecclesial Discourse? (File pdf)
Nella sua riflessione teologica, sempre sospesa in un costante andirivieni tra “tradizione” e “innovazione”, offre alcune affascinanti interpretazioni bibliche e invita i cristiani, soprattutto omosessuali, perché diventino consapevoli di dover svolgere un ministero di “apertura profetica”, di svolta evangelica verso tempi nuovi per tutta la comunità cristiana.