Sfogliando Genitori fortunati. L’irrompere dell’omosessulità in una famiglia cattolica
Riflessioni inviateci da Nino Lisi dopo la lettura dell’ebook gratuito “Genitori fortunati. Vivere da credenti l’omosessualità dei figli” (Tenda di Gionata, 2018)
I sentimenti mossi in me dalla lettura dell’opuscoletto “Genitori fortunati” che per sottotitolo reca “Vivere da credenti l’omosessualità dei figli” sono contrastanti: rabbia (che per non menar scandalo potrei eufemisticamente tradurre in santa indignazione, come sentii dire da un parroco una settantina di anni fa), compassione (nel senso etimologico della parola, cioè di patire, soffrire insieme), sconcerto, timore.
Parto dall’ultimo, timore. Leggo gli scritti contenuti nell’opuscoletto con la sensibilità che ho oggi e con i convincimenti attuali che sono frutto di un cammino, lungo diversi decenni, di liberazione dal sacro e di laicizzazione della fede, in fondo al quale credo possa dirsi che la fede sia più essenziale e, spogliata dalle sofisticazioni sotto le quali era sommersa, forse anche più autentica.
Inoltre, per quanto possa sforzarmi, non so dire come avrei reagito se un’esperienza analoga a quelle narrate nell’opuscolo fosse toccata a me quando la mia esperienza di fede era quella di un tempo. Da qui il timore di non riuscire a mettermi in sintonia (capire e farmi capire) con coloro che hanno consegnato la propria testimonianza all’opuscoletto: temo di non saper capire fino in fondo la difficoltà delle prove descritte, di non sapermi compenetrare nei loro stati d’animo, di non mostrare sufficiente comprensione e rispetto per la loro sofferenza, di non essere sufficientemente riguardoso. Spero di riuscire almeno a far trasparire affetto e vicinanza mentre ripercorrerò a ritroso i sentimenti che ho appena elencato.
Sconcerto. Sono rimasto sconcertato a leggere l‘espressione “genitori cattolici con figli omosessuali”, come se si trattasse di una categoria sociologica o teologica. Cos’hanno di speciale questi genitori per costituirsi in categoria? Hanno figlioli/e omosessuali? E forse che gli omosessuali non sono figli e figlie come gli altri e le altre, esattamente come gli/le eterosessuali? E se vogliamo usare un’espressione che mi era più consueta un tempo, non sono esattamente figli e figlie di Dio come chiunque? Non sono esseri umani di pari dignità e valore come ogni altro/a? E cittadini e cittadine nella pienezza dei diritti e dei doveri come tutti e tutte?
È vero che la società e la stessa Chiesa in maggioranza non la pensano così. Ma sono sbagliati società e Chiesa. E di fronte alle cose sbagliate bisogna reagire per correggerle e quando generano ingiustizia e sofferenza come nel nostro caso bisogna ribellarsi. Non mi pare che quell’espressione sia stata scelta come grido di lotta, di ribellione e quand’anche nelle intenzioni, fosse così, egualmente a me quell’espressione sembrerebbe sbagliata perché a lottare e a ribellarsi contro un’ingiustizia dovrebbero essere chiamate non soltanto le persone direttamente colpite, ma tutt@; nel nostro caso quindi genitori e non genitori, di figli/e omosessuali e di figlie/e eterosessuali. Che c’entra l’orientamento sessuale con il dovere e la voglia di combattere ingiustizie e discriminazioni? Sono forse io esonerato da questo obbligo perché per puro caso non ho figli omosessuali?
Compassione. Nelle 36 pagine dell’opuscolo ho letto tanta sofferenza: sofferenza per non aver percepito il tormento che aveva accompagnato/a per anni il proprio figlio o figlia prima che loro stessi/e avessero smesso di nasconderlo, oppure per averlo percepito in anticipo ma senza saper che fare e restando in attesa trepidanti; sofferenza per immaginare il dolore dei/delle propri/e figli/e derisi/e nella società e respinti/e nella Chiesa; per la fatica compiuta o che si sta ancora compiendo per imparare ad accettare una situazione che si era impreparati a non considerare anomala. Di fronte a tanta sofferenza ho sofferto un po’ anch’io.
Rabbia. E dalla compassione sono passato alla rabbia. In primo luogo contro una società patriarcale e maschilista che per lo più considera il sesso non come un reciproco donarsi, come il modo più intimo per scoprire l’altro/a e approfondire nell’altro/a anche la conoscenza di sé, ma come possesso, dominio e sfogo nel quale l’amore può anche essere estraneo. Una società nella quale prima dell’irruzione della rivoluzione sessuale e del femminismo vigeva una doppia morale che condannava le donne alla verginità perpetua se non si sposavamo e considerava normale che il maschio avesse più amanti oltre che una moglie.
Rabbia anche contro la Chiesa che con il suo disprezzo per il corpo (che onora incensandolo solo se esanime) e la sua sessuofobia corrobora l’dea spregevole che la società ha della sessualità invece di combatterla e correggerla. Sessuofobia che ha improntato ed impronta l’apparato dottrinale che la Chiesa si è data via via che il Cristianesimo da movimento eretico ed eversivo, portatore di un messaggio di libertà e di liberazione fondato sull’amore, è stato trasformato in religione, cioè in quella costruzione umana che presta a Dio le proprie idee, prodotte raccogliendo e rielaborando tradizioni, miti e pensieri proprie delle società di ogni epoca e conferendo loro il crisma della sacralità. La posizione della morale cattolica verso la sessualità, vede il piacere quanto meno con sospetto se non come peccato tanto da considerare l’unione dei corpi, anche se nel matrimonio, non come la celebrazione dell’amore ma come “remedium concupiscentiae”. A me ricorda l’idea del puro e dell’impuro dell’Ebraismo e la dicotomia anima e corpo della filosofia greca.
A tentare di avvicinare sessualità e spiritualità nel Cristianesimo fu Carlo Carretto da presidente nazionale della Giac, la componente giovanile e maschile dell’Azione Cattolica. Nel 1949 pubblicò un libro intitolandolo Famiglia piccola Chiesa edito dalla editrice Ave. In esso accanto al letto nuziale accostò un inginocchiatoio. Appena uscito nelle librerie, il volume fu ritirato dalla circolazione per disposizione della Conferenza Episcopale.
Si è dovuto aspettare sino a più o meno dieci anni fa per sentir dire da un prete, don Gallo, che il sesso è dono di Dio e a qualche settimana fa per sentir dire da un papa che il sesso non è un tabù ma appunto un dono di Dio. Ma per secoli nella Chiesa è stato un tabù e lo è tuttora.
Non voglio lasciare che il senso di queste mie considerazioni, le si condivida o meno, sia inficiato dalla supposizione che il mio risentimento verso la chiesa a proposito della sessualità abbia qualcosa di personale. Da ragazzo e sino a quando da adulto me ne scacciarono per deviazionismi dottrinali (per la verità di carattere politico culturale più che teologico) ho militato nella Giac. In essa a quell’epoca la castità era un impegno al quale non si doveva e non si voleva venir meno.
Era proposto non come rinuncia, ma come conquista della padronanza di sé, non come castrazione ma come arricchimento e libertà, come condizione per poter apprezzare e godere davvero dell’amore. Ho avuto la fortuna di incontrare preti capaci di farci vivere in questi termini la castità e di poterla io stesso riproporre, anche se non con pari efficacia, ai 600 giovani studenti iscritti alla Giac a Napoli. della cui formazione dovevo occuparmi e di cui all’epoca ritenevo di dover rispondere a Dio. Quelli per me sono stati anni felici e ricchi, non di privazione.
La mia rabbia dunque non è per motivi personali. E’ dovuta al fatto di aver visto che molti non hanno avuto la mia fortuna ma sono stati segnati malamente nella propria crescita dalla dottrina sessuofobica della Chiesa; di aver visto donne piangere disperate essendo stata loro rifiutata l’assoluzione e minacciate le fiamme dell’inferno per aver pagato, come prescritto, il “debito coniugale” al marito, ma avendo cura di non fare aumentare il numero dei “morti di fame” nelle proprie famiglie; di aver visto il dolore di chi si è sentito accusare di peccato contro natura tale essendo considerata per ignoranza o pregiudizio dalla morale “cattolica” la omosessualità. Ma a smentire la sua pretesa innaturalità si incaricano quando ero ancora giovanissimo due cani che conoscevo e sapevo ambedue irrimediabilmente maschi: mi capitò casualmente di vederli in un loro felice accoppiamento.
La sofferenza che ho letto nelle testimonianze dell’opuscoletto mi ha confermato nella mia rabbia.
Ma il Cristianesimo pur ridotto a religione conserva in sé vitalità e forza: riesce a tramandare il racconto della donna del pozzo alla quale Gesù, avendo avuto ella molti uomini e nessun marito, non disse “vade retro Satana”, bensì “va e non peccare; molto ti sarà perdonato perché molto hai amato”; riesce ancora ad insegnare che “ubi caritas et amor ibi Deus est”, per cui quando qualcuno dei miei figli tornando dagli scout mi chiese a bruciapelo cos’è il peccato non esitai a rispondere all’impronta “è la mancanza di amore”. Se dove c’è amore c’è Dio, non può esserci peccato dunque, sia se ad amarsi sono due omosessuali sia se sono due eterosessuali.
Potrei fermarmi qui, ma si dà il caso che subito dopo aver letto l’opuscolo ho letto l’inserto de il manifesto che ripubblica nell’anniversario della sua morte alcuni pezzi che Filippo Gentiloni scrisse sulle pasque ebraica, cattolica, ortodossa. Ho riletto così che in tutte le tradizioni la pasqua sulla falsariga di quella ebraica segna “passaggio, guado, Uscita, liberazione, Cambiamento, avventura, Vita Nuova, si pulisce a fondo la vecchia casa, si rivedono abitudini incallite”, che pasqua è “rinascita dunque se non proprio resurrezione “, che “tutta la nostra vita in fondo è un passaggio; perciò la pasqua è metafora non solo della natura che rinasce ma di tutta la vita e della vita di tutti. La nostra primavera. Il nostro viaggio”.
E dandosi il caso anche che ho iniziato a scrivere queste note mezzo sconclusionate di sabato santo e di averle concluse e riviste il lunedì dell’angelo, le idee si accavallano e mi viene da pensare che la rivelazione fatta ai genitori dai figli e figlie del proprio orientamento sessuale, di cui è scritto nelle 36 pagine da poco lette, può segnare in primo luogo per loro ma anche per quanti ne diveniamo partecipi come una pasqua: l’abbandono cioè del vecchio modo di pensare e di credere, la liberazione dalle sovrastrutture religiose che si sono incistate nel Cristianesimo ed il passaggio ad una vita nuova.
Per alcuni/e il momento attuale può forse corrispondere al passaggio per il deserto, ma presto arriverà il guado e dopo ci sarà la terra promessa nella quale si godrà tutti e tutte della libertà dei figli e delle figlie di Dio. Buona pasqua.