Shakespeare creatore di miti. Viaggio tra le storie del Bardo con Paolo Bertinetti
Dialogo di Katya Parente con il professor Paolo Bertinetti
Immaginatevi una delle scene d’amore più famose di tutti i tempi: un giovane un po’ sbruffone fa la posta alla bella fanciulla che ha conosciuto brevemente al ballo in cui si è imbucato. Ascoltiamo:
“Oh, quale luce vedo sprigionarsi
lassù, dal vano di quella finestra?
È l’oriente, lassù, e Giulietta è il sole!”
E subito una voce in falsetto le fa eco:
“Il tuo nome soltanto m’è nemico;
ma tu saresti tu, sempre Romeo
per me, quand’anche non fosti un Montecchi.”
In falsetto?!? Ebbene sì. Perché chi si affaccia alla finestra è un altro ragazzo. Una versione queer di “Romeo e Giulietta”? L’ennesima trovata dell’ennesimo regista un po’ troppo sopra le righe? No. Solo uno dei primi allestimenti del capolavoro shakespeariano. Di queste ed altre “stranezze” dell’epoca parliamo con Paolo Bertinetti, ordinario di letteratura inglese, studioso del teatro inglese, di cui ho letto con immenso piacere il suo “Shakespeare creatore di miti” (UTET, 2021, pagine 176)
Cosa cambia, se cambia qualcosa, nella fruizione teatro shakespeariano/elisabettiano com’è recitato oggi (ruoli maschili agli uomini e femminili alle donne) rispetto a come lo era in origine?
Il teatro è fatto di convenzioni. Nel teatro elisabettiano, come nella cosiddetta “opera” cinese, i ruoli femminili erano interpretati da uomini. In Italia, invece, dal 1560 in poi, i ruoli femminili erano interpretati da donne, cosa che suscitò severi rimproveri da parte della Chiesa (ad esempio, da parte del cardinale Borromeo), in quanto, si diceva, questo fatto causava l’eccitazione dei sensi.
Gli autori elisabettiani scrivevano testi in cui, in genere, le parti femminili non erano molto lunghe (la convenzione non doveva essere messa a troppo dura prova) se si trattava di personaggi di giovani donne. Se si trattava di una vecchia, ad esempio una balia, allora c’erano meno problemi di credibilità, e la parte poteva essere lunga o breve, quanto conveniva rispetto alla vicenda rappresentata.
Un’altra soluzione, nelle commedie, era immaginare che la giovane donna, per vari motivi, dovesse travestirsi da uomo (ad esempio, Viola nella Dodicesima notte). Questo comportava un risvolto pratico efficace: il personaggio/donna è travestito da uomo (ma in realtà è un uomo), ed è quindi credibile che gli altri personaggi non si accorgano del travestimento.
Nelle messe in scena di oggi il problema non si pone. Non può esserci quel margine di equivoco che c’era invece quattrocento anni fa, e le attrici possono liberamente sfruttare le risorse che il testo originario offriva comunque ai giovani attori che ricoprivano parti femminili.
Parlando più specificatamente di Shakespeare: ci sono molte domande sulla sua persona come autore (e per questo rimando all’ultimo capitolo del suo libro). Per quanto riguarda la presunta sessualità del Bardo (riguardo in special modo ai suoi sonetti “omoerotici”), sa darci qualche traccia di lettura?
L’ideale di bellezza maschile in età elisabettiana rispondeva a un principio per noi insolito (almeno credo): un uomo era bello se sembrava bello sia alle donne che agli uomini. L’omosessualità, a differenza di quanto avvenne poi, non era affatto vista come una cosa peccaminosa; o comunque, non da denunciare come tale.
I Sonetti di Shakespeare, che esaltano la bellezza di un giovane, rispondono a questo atteggiamento. Questo non implica affatto una preferenza sessuale di Shakespeare, che poteva essere eterosessuale, oppure bisessuale (cosa non infrequente), oppure omosessuale (ma questa terza possibilità è decisamente improbabile: nei suoi testi, Sonetti inclusi, non abbiamo elementi a sostegno di tale ipotesi).
Quanto è legittimo leggere, con le lenti dell’uomo del XXI secolo, l’opera di uno scrittore del XVI?
A mio avviso, ben che vada, è una forzatura. Mal che vada, è illegittimo. Uno scrittore è un uomo del suo tempo, immerso nella cultura (e nei pregiudizi) del suo tempo. Le cose che racconta sono per il suo tempo, per i lettori o spettatori del suo tempo. Se è un grande scrittore, allora valgono anche per noi, valgono per culture ed epoche lontane da quella in cui le sue opere sono state scritte: hanno un valore universale che va al di là del tempo e del mondo in cui sono state concepite.
Diceva Calvino che un classico non ha mai finito di dire tutto ciò che ha da dire. Ai nostri trisavoli diceva cose che li commuovevano, o li colpivano, ma che non suscitano in noi una qualche eco; in compenso, dicono a noi cose che i nostri trisavoli, o anche soltanto i nostri nonni, non coglievano affatto.
Perché Shakespeare è ancora attuale dopo tanti secoli?
La risposta a questa domanda sta già nella risposta precedente. La sua geniale rappresentazione dell’uomo, in tutte le sue infamie, le sue debolezze e la sua grandezza, continua a parlare a noi, alla nostra sensibilità, ai nostri dubbi.
Questo ovviamente è solo un assaggio del rutilante mondo teatral-letterario dei tempi del cigno di Stratford. Rimando al libro del professor Bertinetti: intelligente, ben scritto, pieno di spunti e di curiosità, con uno stile incredibilmente scorrevole (merce rara, e tanto più preziosa per accademici e studiosi). Un libro per tutti, neofiti e non.
Buona lettura!