“Chaveh/identico”. Il rifiuto dell’in-differenza: una nuova ermeneutica della sodomia
Riflessioni sull’Ebraico e il pensiero biblico di Giuseppe Messina*, prima parte
L’articolo coraggioso di Luciano Moia (Per una pastorale inclusiva. «Lgbt? Per accogliervi conta che siate cristiani»), caporedattore del mensile “Noi famiglia e vita”, pubblicato sul quotidiano Avvenire il 9 ottobre 2018 a pag.19, ha portato in primo piano, forse, per la prima volta e non rapsodicamente a mettere in rilievo non solo la dimensione religiosa della comunità cristiana lgbt, ma a dimostrare l’indifferibile urgenza della “questione omosessuale” dedicando una pagina importante del suo giornale per combattere luoghi comuni e pregiudizi omofobi.
Come l’assimilazione degli ebrei che era additata come la più funesta delle sciagure nella società, mutatis mutandis, pare ancora esserlo per certi ambienti retrivi e refrattari della Chiesa nei confronti degli omosessuali. Infatti l’omosessuale come l’ebreo che si assimila, se non è ateo, è fautore di una moderna religione dell’umanità avversa alla dogmatica delle Chiese, è guardato con sospetto e come un dissimulatore della religione; inoltre è considerato uno sradicato, che non può certo trovare radici nel popolo di Dio, e perciò diventa latore di decadenza. Gli omosessuali sono forse considerati come gli ebrei apolidi per vocazione? Oppure come stranieri alle porte della Chiesa? O ancora possiamo pensare all’omosessuale come alla figura del ger, ossia lo straniero che in epoca biblica viveva in mezzo al popolo d’Israele? Forse no, se le parole di Marcello Semeraro vescovo della diocesi di Albano hanno un senso nella scala assiologica ovvero: “Vi riconosciamo come fratelli in Cristo. E’ un sigillo di verità che nessuno potrà contestare”.
La discussione, che riguarda una questione di stretta attualità assume perciò anche la veste di una dotta diatriba condotta sul terreno dell’esegesi biblica. Essa metterà sotto esame un numero di passi della Torah (Pentateuco) e delle Scritture in generale al fine di determinare quale fosse la posizione del ger/omosessuale in seno al popolo ebraico ospitante (per i costumi differenti), quali diritti di cui era portatore, quale atteggiamento prescritto nei suoi confronti.
Se forse vogliamo comprendere qualcosa in più sull’omosessualità dovremmo analizzare meglio il Terzo comandamento o meglio la Terza Parola (davar) della numerazione ebraica che recita così: “Non pronunzierai il nome dell’Eterno, tuo Dio, invano…(Es 20, 7)”. E’ lecito domandarsi che attinenza avrebbe questo comandamento con l’omosessualità. Se si risale al testo originale in ebraico questo comandamento si può tradurre così: “Non porterai il nome di Dio invano”.
In questo caso è possibile proporre un’altra interpretazione. In effetti, per i maestri del Talmud, “non farai falsi giuramenti”, poiché l’espressione “portare il nome”, significa “giurare”, “fare giuramento”. Ma cosa significa questo invano della terza parola? Il termine ebraico per dire invano è shaveh, foneticamente vicina a chaveh, che significa identico, senza differenza. Il significato di ogni cosa scaturisce dalla differenza da altre cose. Se non c’è alcuna differenza, le cose diventano in-differenti. Il dramma di Sodoma è forse questo: non riconoscere la differenza sessuale e non il rapporto sessuale tra persone dello stesso sesso. Non percependo il significato della differenza sessuale, la sola omosessualità rende vana la differenza.
Le tre lettere della parola shaveh (invano), formano al femminile il termine shoah. C’è shoah se qualcosa è vana, ossia identica, indifferenziata. Shoah, termine adoperato per designare il dramma del genocidio, in ebraico sta a significare ogni situazione di indistinzione in cui gli uomini non accedono più alla loro singolarità. Si cede alla violenza del “medesimo”, che unifica tutto, rende uguale, pone allo stesso livello. Il Midrash narra che Sodoma aveva, certo, regole di ospitalità. Tutti avevano diritto a un letto… ma un letto sempre delle stesse dimensioni, per esempio, di un metro e cinquanta. Siccome tutti dovevano essere identici, si squartavano i bambini perché diventassero un metro e cinquanta e, agli adulti più grandi di questa misura, si mozzavano gli arti che la superavano.
Sodoma: la città nella quale tutti dovevano essere identici. La metafora del letto di Sodoma simboleggia questo rifiuto della differenza, e non l’omosessualità.
* Giuseppe Messina è docente ordinario di filosofia e storia presso il Liceo Scientifico N. Copernico di Bologna e dal 12 marzo 2010 è presidente-fondatore dell’Associazione Amicizia Ebraico Cristiana (AEC) di Bologna, già membro dell’AEC della Romagna della Romagna. Scrive articoli sul Bollettino dell’associazione AEC di Firenze. Dal 2006 studia Ebraico biblico presso la Fraternità di Charles Foucauld di Ravenna con la maestra Maria Angela Baroncelli Molducci. Ha insegnato Ebraico biblico e Pensiero ebraico presso il Collegio San Luigi dei Padri Barnabiti di Bologna e presso il Centro Poggeschi dei Padri Gesuiti di Bologna.